Capitolo IV
Se avessi avuto il buon senso di tornarmene ad Hull, e di là a casa mia, e mio padre, vivente incarnazione della parabola del nostro Divino Redentore, avrebbe ucciso il vitello grasso in mio onore; poiché infatti, dopo aver appreso che la nave sulla quale mi ero imbarcato aveva fatto naufragio nella rada di Yarmouth, trascorse un bel po' di tempo prima che qualcuno lo informasse che non ero morto annegato.
Ma ormai la mia grama sorte mi sospingeva con moto irresistibile; e sebbene avessi ricevuto più volte i più pressanti appelli della ragione e del più pacato buon senso affinché mi decidessi a tornare a casa, pure non ebbi la forza di farlo. Io non saprei come definire una simile forza, né oserei affermare che un supremo, insondabile disegno ci induca a fare di noi stessi gli strumenti della nostra rovina, anche se questa ci si para dinanzi e noi le andiamo incontro ad occhi aperti. È certo tuttavia che solo un destino sventurato quanto ineluttabile, e al quale io non avevo modo di sfuggire, può avermi indotto a proseguire, ad onta delle più serene riflessioni e delle considerazioni più persuasive che affioravano dal profondo di me, e in contrasto con i due eloquenti moniti del Cielo che avevo ricevuto nel corso della prova testé superata.
Il mio amico, quello stesso che mi aveva irretito ed era il figlio del capitano, ora appariva meno ardito di me. La prima volta che c'incontrammo, il che avvenne solo due o tre giorni dopo il nostro sbarco a Yarmouth perché eravamo stati alloggiati in diverse case della città, mi parve che il suo tono fosse mutato; e scuotendo il capo con aria melanconica mi chiese come stavo. Poi disse a suo padre chi ero e gli spiegò che avevo intrapreso quella traversata a titolo di prova, con l'intento di spingermi molto più lontano, al di là dei mari.
Al che il padre si rivolse a me in tono molto grave: «Giovanotto,» mi disse, «dovresti rinunciare per sempre all'idea d'imbarcarti, e prendere quanto è accaduto come un segno chiaro e irrefutabile che non sei nato per fare il marinaio.»
«E perché mai, signore?» gli risposi, «voi forse d'ora in avanti rinuncerete ad andar per mare?»
«Il mio è un caso diverso,» continuò il capitano, «si tratta del mio mestiere e quindi ho il dovere di navigare. Ma siccome tu hai fatto questo viaggio solo per prova, lo vedi quale esempio ti ha offerto il Cielo di ciò che ti aspetterebbe se insistessi nel tuo proposito. E chissà che non sia a causa tua, se abbiamo avuto quello che è capitato, proprio come a Giona sulla nave che lo portava a Tarsis. Ma dimmi, piuttosto: «Chi sei tu? Perché hai deciso d'imbarcarti?»
In breve gli raccontai la mia storia, ma al termine egli venne preso da un accesso di collera imprevedibile.
«Che cos'ho fatto di male,» si domandava, «perché un simile sciagurato dovesse salire proprio sulla mia nave? Nemmeno se mi regalassero mille sterline sarei disposto a rimettere piede su una nave insieme con te!»
Io peraltro obiettai che il suo era uno sfogo dei nervi, ancora scossi a causa della perdita del bastimento, e che in verità egli era andato ben oltre i limiti di quanto avesse facoltà di dirmi. Nondimeno più tardi egli mi parlò con la massima serietà, esortandomi a tornare da mio padre e a non sfidare la Divina Provvidenza. Potevo scorgere chiaramente visibile, mi disse, la mano del Cielo levata contro di me.
«Tieni a mente quel che ti dico, giovanotto,» concluse, «se non torni sui tuoi passi sta' certo che ovunque tu andassi non t'imbatteresti che in amarezze e in calamità, e fino a quando le parole di tuo padre non fossero adempiute.»