Capitolo III
Al sesto giorno di navigazione penetrammo nella rada di Yarmouth: a causa del vento contrario e della bonaccia, dopo la burrasca avevamo fatto ben poca strada. Qui fummo costretti a gettar l'ancora; e qui, dal momento che il vento continuava ad essere contrario, e cioè a soffiare da sud-ovest, restammo alla fonda per sette o otto giorni durante i quali innumerevoli navi provenienti da Newcastle entrarono nella rada, che è il rifugio consueto ove indugiare in attesa del vento favorevole per imboccare l'estuario del Tamigi e risalire il fiume.
Non ci proponevamo certo di restare ancorati per tanto tempo e avremmo risalito il fiume con la prima marea; ma il vento era troppo impetuoso e dopo quattro o cinque giorni di sosta si mise a soffiare con molta forza. Nondimeno, siccome la rada era reputata sicura come un porto, l'ancoraggio saldo e gli ormeggi molto robusti, i nostri uomini non se ne davano pensiero, non avevano timore di eventuali pericoli e passavano il loro tempo a oziare e a divertirsi, secondo le buone abitudini marinaresche. Ma la mattina dell'ottavo giorno il vento prese a soffiare con raddoppiata energia e tutti gli uomini furono mobilitati per ammainare gli alberi di gabbia e restringere ogni superficie, in modo che la nave non avesse eccessiva difficoltà a restare agli ormeggi. Poi, verso il mezzogiorno, il mare si era molto gonfiato; la nave aveva la prua semisommersa e la nave imbarcò parecchie ondate, tanto che un paio di volte avemmo l'impressione che l'ancora si fosse disinnestata dal fondo. Allora il comandante ordinò di gettare l'ancora di salvezza e così restammo ormeggiati con due ancore a prua e le gomene filate per tutta la lunghezza.
Da questo momento si scatenò una burrasca veramente spaventosa, ed io vidi che la paura e lo sgomento si dipingevano perfino sul volto dei marinai. Anche il capitano, sebbene fosse impegnato con tutte le sue energie a salvare la nave, mentre entrava e usciva dalla sua cabina che era accanto la mia mormorò ripetutamente: «Signore, abbi pietà di noi, siamo perduti, questa è la fine e altre parole del genere. Durante la concitazione di queste prime manovre, io me ne rimasi come imbambolato, chiuso nella mia cabina a poppa, e davvero non saprei dire in quale stato d'animo mi trovassi. Non potevo certo recitare la parte del pentimento che avevo deliberatamente respinto e contro la quale mi ero corazzato; cosicché finii col pensare che anche questa volta avrei sconfitto il terrore della morte e che tutto si sarebbe risolto in nulla come la prima volta. Ma quando, come ho già riferito, sentii dire dal capitano proprio accanto a me che eravamo tutti perduti, fui preso dal terrore. Mi alzai, uscii dalla cabina e volsi lo sguardo intorno. Non avevo mai visto uno spettacolo così terrificante: ogni tre o quattro minuti montagne d'acqua sorgevano dal mare per poi frangersi contro di noi, e spingendo lo sguardo più lontano intorno a noi non vidi altro che rovina e desolazione. Due navi ormeggiate a breve distanza avevano dovuto mozzare gli alberi all'altezza del ponte per ridurre il peso, e nello stesso momento i nostri uomini gridavano che una nave ormeggiata a circa un miglio da noi era colata a picco. Altre due navi avevano spezzato gli ormeggi ed ora vagavano a caso fuor della rada, senza un albero intatto, esposte ad ogni frangente. Le navi più leggere se la cavavano meglio, perché risentivano meno della violenza del mare; alcune tuttavia andavano alla deriva e sfilarono davanti a noi con la sola vela di bompresso spiegata a difesa dal vento.
Verso sera il secondo e il nostromo chiesero al capitano l'autorizzazione a tagliare l'albero di trinchetto, ma questi si dimostrò riluttante; e solo quando il nostromo gli disse che, se avesse insistito nel rifiuto, la nave sarebbe affondata, il capitano diede il suo permesso. Ma quando l'albero di trinchetto fu abbattuto, l'albero di maestra si trovò allo scoperto; cosicché la nave subiva paurosi contraccolpi e fu necessario tagliare anche quest'ultimo e far piazza pulita sul ponte.
Nessuno stenterà a immaginare in quale stato io mi trovassi in simili frangenti, dal momento che, come marinaio, avevo scarsissima esperienza e pochi giorni prima avevo patito quel terribile spavento. Ma se mi è lecito esprimere a distanza di tanto tempo i sentimenti che provai in quel momento, il mio animo, per il fatto di aver abbandonato le savie conclusioni alle quali ero pervenuto e di esser tornato ai miei sciagurati propositi, ero in preda a un orrore di dieci volte più forte che se fossi stato al cospetto della Morte in persona. Così, in preda com'ero a siffatti pensieri e al terrore della tempesta, ero in uno stato d'animo che nessuna parola potrebbe mai descrivere. Ma il peggio doveva ancora venire; la tempesta proseguì con tale violenza, che gli stessi marinai confessarono di non averne mai vista una peggiore. La nostra nave era molto solida, ma stracarica, e il mare la sballottava senza misericordia, tanto che ad ogni tratto i marinai gridavano che stavamo per andare a picco. Io in un certo senso ero avvantaggiato dal fatto di non sapere che cosa volesse dire “andare a picco”, fin quando non mi decisi a domandarlo. Ad ogni modo la violenza della tempesta era tale che ebbi il destro di assistere a una scena inconsueta: il capitano, il nostromo e qualcun altro più assennato del resto dell'equipaggio mettersi a pregare in attesa che da un momento all'altro la nave andasse a fondo.
Ad accrescere le nostre angosce, a metà notte uno degli uomini che era sceso sotto coperta per un giro d'ispezione prese ad urlare che si era aperta una falla, e un altro aggiunse che nella stiva c'erano quattro piedi d'acqua. Allora tutte le braccia disponibili furono impegnate alle pompe. Al suono di quell'unica parola ebbi la sensazione che il cuore mi si fermasse e caddi all'indietro oltre la sponda della cuccetta sulla quale ero seduto. Ma i marinai mi rimisero in piedi e mi dissero che, se prima ero un buono a nulla, alle pompe potevo servire come chiunque altro.
Così mi scossi, andai alle pompe e mi misi all'opera con la massima energia. Frattanto il capitano, vedendo certe piccole carboniere che, nell'impossibilità di ancorarsi al riparo dell'uragano, erano costrette a filare le gomene e lanciarsi in mare aperto, ordinò di sparare una cannonata per invocare soccorso. Io, che non avevo la più vaga idea del significato di quel colpo, ne fui così spaventato da credere che la nave si fosse fracassata o che fosse accaduto qualche disastro irrimediabile. In una parola, ne fui così sbigottito che mi afflosciai a terra, svenuto. Ma in quel momento c'era ben altro a cui pensare, cosicché nessuno si occupò di me o si preoccupò di quanto mi era accaduto. Semplicemente, un altro uomo si accostò alla pompa, e credendomi morto mi scostò col piede lasciandomi steso al suolo. Trascorse un bel po' di tempo prima che rinvenissi.
Continuammo a pompare, ma siccome il livello dell'acqua nella stiva non cessava di crescere, ben presto fu chiaro che la nave sarebbe affondata, e che sebbene la tempesta cominciasse a diminuire d'intensità, non sarebbe stato possibile tenerla a galla fino a quando fossimo riusciti ad entrare in un porto. Perciò il capitano continuò a sparar cannonate per chiedere soccorso, fin quando un piccolo veliero che era emerso indenne dalla tempesta proprio di fronte a noi si arrischiò a mettere una lancia in mare che accorse in nostro aiuto. La lancia si accostò correndo gravissimo pericolo, ma noi non riuscimmo a scendervi, né essa poté fermarsi rasente il fianco della nostra nave. Alla fine i nostri uomini gettarono da poppa un cavo con un gavitello e filammo il cavo a fuoribordo, fin quando loro, con grande sforzo e a rischio della vita, non riuscirono ad afferrarlo. Così noi li trainammo sotto la poppa e tutti ci calammo nella lancia. Una volta imbarcati, sarebbe stato assurdo tentare di raggiungere la loro nave; così decidemmo di abbandonarci alla corrente, accontentandoci di sospingerla alla bell'e meglio coi remi in direzione della riva. Da parte sua il capitano promise che se la lancia si fosse fracassata contro la sponda avrebbe risarcito i danni al capitano dell'altro bastimento. Così, un poco a forza di remi e un poco andando alla deriva, la lancia si mosse in direzione nord, puntando verso la costa pressapoco all'altezza di Capo Winterton.
Non era forse trascorso un quarto d'ora da quando avevamo abbandonato la nostra nave, quando la vedemmo affondare, e allora compresi perfettamente che cosa avessero inteso i marinai quando avevano parlato di “andare a picco.” Confesso che quasi non osavo alzar lo sguardo sul mare quando i marinai dissero che la nave stava affondando, perché dal momento in cui ero sceso nella lancia, o meglio mi ci avevano calato di peso, il cuore era come morto dentro il mio petto, sia per la paura, sia per un sentimento di orrore e per il pensiero angoscioso di quanto ancora mi sarebbe accaduto.
Mentre eravamo in questa situazione e gli uomini si affaticavano ai remi per accostarci alla riva, vedemmo, quando la lancia veniva issata sulla cresta delle onde e la terraferma riappariva ai nostri occhi, una moltitudine di persone che correva lungo la spiaggia, pronta a recarci aiuti non appena l'avessimo raggiunta. Ma ci avvicinavamo con estrema lentezza, fin quando riuscimmo a superare il faro di Winterton in direzione di Cromer, dove la sponda rientra verso occidente, e fummo un poco al riparo dall'impeto del vento. Qui finalmente ci accostammo, e sia pure con molto sforzo riuscimmo a sbarcare tutti sani e salvi. Dopo di che ci avviammo verso Yarmouth dove, a consolazione delle nostre sventure, fummo trattati con molta umanità sia dai magistrati cittadini, che ci accordarono ottimi alloggi, sia da commercianti e armatori privati, i quali ci diedero denaro a sufficienza per raggiungere Londra oppure Hull, a nostro piacimento.