Capitolo V
Dopo di che ci separammo perché io non persi tempo a rispondergli, e da quel giorno non lo vidi mai più, né seppi dove fosse finito. Quanto a me, avendo un po' di denaro in tasca raggiunsi Londra via terra; e là, come già durante il percorso, esitai a lungo circa la strada da intraprendere nella vita: se tornare a casa o imbarcarmi un'altra volta.
All'idea di tornare a casa si opponeva un sentimento di vergogna, in contraddizione coi sentimenti migliori che si affacciavano alla mia mente. E tosto pensai alle risate dei vicini, alla mia vergogna di rivedere non solo i miei genitori ma chiunque altro. A questo proposito, spesso in seguito avrei avuto agio di osservare quanto sia incongrua e irragionevole l'indole dell'uomo, specie quando è molto giovane, quando è posta davanti ai princìpi della ragione che dovrebbero guidarla per il meglio in circostanze del genere. L'uomo, cioè, non si vergogna di peccare, ma si vergogna di pentirsi; non si vergogna di commettere un'azione per la quale, e giustamente, verrà giudicato uno sprovveduto, ma si vergogna di recedere, comportandosi nell'unico modo idoneo a conferirgli reputazione di saggezza.
Rimasi dunque per un poco in questo stato di perplessità, incerto sulla decisione da prendere e sul genere di vita da seguire. Non desistevo dal provare un'invincibile riluttanza a tornare a casa; ma dal momento che tardavo a decidermi, il ricordo della mia disavventura a poco a poco scemava; e insieme ad esso si dissolveva l'impulso, già di per sé piuttosto fiacco, che mi suggeriva di tornare a casa. Così una volta per tutte, misi da canto questi pensieri e mi diedi a cercare una nave sulla quale imbarcarmi.
Il nefasto influsso che dapprima mi aveva spinto ad allontanarmi dalla casa paterna, che aveva incoraggiato in me l'assurda e sconsiderata illusione di far fortuna, e che l'aveva impressa nella mia mente con tanta ostinazione da rendermi insensibile ad ogni saggio consiglio, sordo alle preghiere e persino alle ingiunzioni di mio padre; quell'influsso, dicevo, qualunque ne fosse la natura mi condusse alla più disgraziata di tutte le imprese. Ed è così che mi ritrovai a bordo di un vascello diretto verso la costa africana, ovvero, come dicevano molto più semplicemente i marinai, m'imbarcai alla volta della Guinea.
Una circostanza che nel corso di queste avventure mi recò gravissimo danno fu di non imbarcarmi in qualità di marinaio. È vero che avrei dovuto lavorare sodo, più di quanto fossi abituato, ma in compenso avrei imparato a svolgere le mansioni di un bravo uomo di mare e col tempo diventare ufficiale in seconda, se non addirittura capitano. Ma giacché stava scritto nel mio destino ch'io facessi sempre la scelta peggiore, non mi smentii nemmeno quella volta. Infatti, siccome ero vestito con proprietà e avevo con me del denaro, volli imbarcarmi in qualità di normale passeggero; così non ebbi alcun incarico a bordo e non imparai a far niente.
A Londra avevo avuto la lieta ventura di imbattermi in un'ottima compagnia di persone, cosa che invero capita di rado a giovani incuranti e scapestrati quale io ero allora, perché in genere il diavolo non rinuncia a esercitare le sue trame a loro danno; ma nel mio caso andò diversamente. Prima di tutto feci conoscenza col capitano di una nave che già una volta era stato sulle coste della Guinea, e siccome quella spedizione gli aveva fruttato notevoli guadagni aveva deciso di ripetere il viaggio. Costui aveva mostrato di apprezzare la mia conversazione, che a quel tempo non era affatto spiacevole, e avendo appreso ch'era mia intenzione vedere il mondo, mi disse che se avessi voluto compier la traversata a bordo della sua nave, non avrei dovuto sborsare un soldo; avrei consumato i pasti con lui e sarei stato, insomma, il suo compagno di viaggio. Inoltre, se avessi voluto portare qualcosa con me, non avrei stentato a venderla con tutti i vantaggi derivanti dal commercio marittimo, e forse ne avrei tratto un certo incoraggiamento.
Aderii pertanto a quella proposta, e fattomi amico sincero di quel capitano, che era persona schietta e leale, m'imbarcai sulla sua nave con un modesto quantitativo di merce che, grazie all'intervento disinteressato del mio amico capitano, non mancò di fruttarmi in misura considerevole. Infatti, seguendo il consiglio del capitano avevo comperato per quaranta sterline di giocattoli e masserizie di vario genere, dopo aver ottenuto la somma necessaria per il tramite di amici e parenti coi quali ero rimasto in rapporto epistolare. Anzi, credo che siano stati loro a fare opera di persuasione presso mio padre, o almeno mia madre, ad accordarmi quel piccolo aiuto, utile alla mia prima impresa.
Fra tutte le mie avventure, questo fu l'unico viaggio che si risolse nel modo migliore, e ne sono debitore all'onestà e all'integrità del mio amico capitano, il quale, per giunta, mi diede una discreta istruzione matematica, mi insegnò a tenere il libro di bordo, a tracciare la rotta di una nave e a stabilirne la posizione: a capire, insomma, poche cose essenziali che ogni buon marinaio ha il dovere di conoscere. E come lui si compiaceva d'istruirmi, così io ero contento d'imparare. In breve, questo viaggio fece di me un marinaio e un mercante, perché tornai in patria con cinque libbre e nove once di polvere d'oro che a Londra mi fruttarono un guadagno di circa trecento sterline: il che valse a riempirmi la testa di quei propositi ambiziosi che avrebbero segnato la mia rovina.
Ciò non toglie che abbia conosciuto qualche disavventura anche nel corso di questo viaggio, a cominciare dal fatto che fui colto da continui accessi di febbre altissima dovuti al clima torrido; gran parte dei nostri traffici si svolgevano infatti lungo la costa, dal quindicesimo grado di latitudine nord fino all'equatore.