IV. UNA SERATA NELLA CAPANNA DELLO ZIO TOM.
La capanna dello zio Tom era un’abitazioncella costruita con grossi tronchi d’albero, vicina alla casa , come si chiama nel linguaggio dei negri la dimora del padrone, e si apriva sopra un giardinetto nel quale ogni estate, mercé cure diligenti ed assidue, prosperavano fragole, lamponi ed altre frutta, e bei legumi in buon numero.
Una gran begonia porporina ed un rosaio ricco di mille fiori s’intrecciavano sulla facciata, celandone quasi del tutto i materiali. Magnifici fiori, quali il giglio, la margherita reale, la petunia, i crisantemi, i volubilis ed altre piante autunnali vi sfoggiavano la maestosa loro bellezza sotto gli occhi della zia Cloe, che in essi poneva la sua compiacenza ed il suo orgoglio. Entriamo ora nella capanna. Il pasto della sera era già terminato alla casa , e la zia Cloe, che nella sua qualità di cuciniera in capo presiedette alla preparazione di quello, ha lasciato ai suoi subalterni l’incarico di lavar le stoviglie e rimetter la cucina in buon ordine, per venire ad apparecchiare la cena del suo uomo. Il rotondo e nero viso di lei è così liscio e brillante, che a gran fatica puoi far a meno di credere non sia stato pulito in quella guisa medesima che le sue cazzaruole. Sulla sua larga faccia sormontata da un turbante a vari colori brilla un contento, misto ad un certo che di amor proprio ben naturale nella cuoca più abile dei dintorni, quale la zia Cloe era per fama. E se lo meritava. Nel cortile non c’era pollo né anatra, né perfin gallinaccio che, vedendola apparire, non assumesse un aspetto grave e non si mettesse a meditare sulla sua fine, giacché vedendo il pollame ella non pensava che ad acconciarlo, schidionarlo, arrostirlo, ed il suo volto prendeva tale espressione, da riempire di terrore qualunque pollo un po’ riflessivo. Le sue torte, troppo variate per farne qui la nomenclatura, eran misteri sublimi agli occhi di artisti meno abili. Bisognava vederla allorché in un accesso d’onesta allegria e d’ingenua compiacenza ella, tutta gongolante, raccontava gli sterili sforzi di questa o di quella sua rivale per tentare di raggiungere la sua perfezione. L’arrivo di ospiti, la faccenda di pranzi di cerimonia, destavano tutte le potenze dell’anima sua, ed il più gradito spettacolo era per lei la vista dei mucchi di valigie e di sacchi da viaggio scaricati sotto la veranda, perché ciò le annunziava nuovi ospiti da trattare. Lasceremo dunque per un momento la zia Cloe tutta intesa a’ suoi lavori culinari, e visiteremo il resto della sua dimora. In un canto c’è un letto coperto d’una coltre candida come neve a cui stendesi vicino un pezzo piuttosto grande di tappeto. Questa parte della capanna rappresenta la sala, ed è tenuta in grandissima considerazione. Perciò è il più che sia possibile difesa contro le vagabonde incursioni dei ragazzi. Vedesi nell’angolo opposto un altro letto di più modesta apparenza. Il muro al disopra della cappa del camino è ornato di varie incisioni che rappresentano soggetti di Storia Sacra, e un ritratto del generale Washington, disegnato e colorito in modo, che l’eroe ne sarebbe più che maravigliato, se avesse la disgrazia di vederlo. Sopra una rozza panca sedevano alcuni fanciulli coi capelli fitti e crespi come lana, gli occhi neri e vivi, le guance di una lucidezza oleosa; essi presiedevano ai primi passi d’una sorellina, la quale si alzava in piedi, si reggeva in bilico per qualche istante, e quando tentava di muoversi, crollava in terra, provocando le pazze risa dei fratelli, cui pareva che ella avesse fatto la più spiritosa cosa del mondo. Dinanzi al fuoco una tavola un po’ zoppa era coperta d’una tovaglia, e vi facevano mostra dei più vivi colori tazze e piattelli unitamente ad altre cosucce che lasciavano supporre prossimo l’arrivo della cena. A questa mensa era seduto lo zio Tom, del quale dobbiam fare ai nostri lettori un fedele ritratto essendo egli l’eroe principale della nostra narrazione. Lo zio Tom è un uomo d’alta statura, di forza erculea, di largo petto; il suo viso è di un bel nero lucido; i suoi lineamenti, che sono quelli del vero tipo affricano, hanno l’espressione della gravità e del buon senso, a cui si uniscono una benevolenza ed una grazia innate; in tutto il suo aspetto si scorge un non so che di dignità e di rispetto di se medesimo, nonostante un’apparenza di semplicità. Egli aveva in mano una lavagna sulla quale stava occupato con grande attenzione a formar lentamente e diligentemente alcune lettere copiandole da un esemplare, mentre il suo giovane maestro, Giorgio, giovinetto di tredici anni, vivace e intelligente, con tutto il sussiego di un pedagogo sorvegliava quell’esercizio dello zio. — Così non va bene, zio Tom; non da quella parte! — diceva Giorgio vivamente a Tom, che si affannava di torcere al rovescio la coda di un g. — Non vedete, zio, che ne fate un q? — E qui Giorgio presa in mano la matita, tracciò quella lettera dell’alfabeto con tanta prestezza, che Tom ne rimase sbalordito. — Si fa proprio così? — disse Tom, guardando con maraviglia e rispetto il suo giovane maestro che moltiplicava rapidamente una quantità di g e di q perché gli servissero di esemplare. Indi, ripresa la matita nella mano inesperta, ricominciò con pazienza a copiare. — Oh, come i bianchi fanno bene tutte le cose! — disse la zia Cloe fermandosi mentre stava strofinando la padella con un pezzo di lardo infilzato sulla punta d’una forchetta. Poi, guardando con orgogliosa compiacenza il giovinetto, soggiungeva:— Come sa ben leggere e scrivere corrente! E chi crederebbe che la sera egli venga a ripeterci le sue lezioni? Oh, è una stupenda cosa davvero! — Ma, zia Cloe, — disse Giorgio — io incomincio a sentire una maledetta fame. La torta che avete messa in forno deve essere ormai cotta. — Sì, fra pochi istanti, padroncino Giorgio, — riprese la zia Cloe, sollevando cautamente il coperchio per gettarvi un’occhiata. — Sì, colorisce bene, prende un aspetto magnifico. Oh, lasciate fare a me! L’altro giorno Sully voleva provarsi a, farne una; io glielo permisi, tanto per insegnarle. Ma presto dovetti scacciarla di cucina. Non posso veder sprecare tante cose buone. La torta era tutta gonfia da una parte; aveva forma di torta come la mia scarpa. Via, via! Tanto lo so: certe cose debbo farle da me. — E così dicendo, piena di dispregio per l’ignoranza di Sully, la zia Cloe sollevò il coperchio della teglia, e lasciò vedere una torta perfettamente cotta, di cui non si sarebbe vergognato il più abile pasticciere d’una grande città. Era questa la pietanza principale, e, vedutala proprio a tiro, la zia Cloe corse lietamente a metterla in tavola. — Suvvia, Pietro e Mosè, fatevi indietro, negrettini impertinenti; lasciatemi passare, lesti! Via di qua anche tu, Dolly; la mamma ti farà buscare qualche cosa. Ora, padroncino Giorgio, potreste sbarazzar la tavola dei vostri libri e prender posto accanto al mio vecchio. Io vi metterò innanzi le salsicce, e in un batter d’occhio avrete il piatto pieno di leccornie. — Volevano che io cenassi in casa, — disse Giorgio — ma invece son venuto qui perché sapevo che c’era qualche cosa di buono. — Appunto, mio bel coricino, — disse la zia Cloe, versandogli nel piatto le frittelle calde. — Ben sapete che la vecchia zia vi serba sempre il meglio. — Basta, basta, zia! — Oh, lasciatemi fare: — essa lo interruppe — giù le mani! — E così dicendo la zia Cloe diede un buffetto a Giorgio, il che era un segno della sua pazza allegria, e tornò frettolosa alla padella. — Diamo ora l’assalto alla torta! — disse Giorgio, quando ebbe fatto sparire le frittelle. E brandì un coltellaccio sopra l’oggetto in discorso. — Misericordia, padroncino Giorgio! — esclamò spaventata In zia Cloe afferrandogli il braccio. — Con quel brutto coltellone finirete col guastarmela tutta! Aspettate: ho qui un vecchio coltello ben affilato che tengo a bella posta per questo servizio. Esso taglia le fette sottili come un velo. Ecco, mangiate, e non avrete mai messo miglior boccone sotto il dente. — Tom Lincoln pretende — disse Giorgio, parlando a bocca piena — che la loro Jenny sia una cuoca più brava di voi. — I Lincoln la sbagliano all’ingrosso! — disse la Cloe con un piglio sprezzante. — Essi sono, se volete, brava gente, di buona pasta; ma se trattasi di fare alcuna cosa in regola, non sanno nemmeno da qual parte si cominci. Confrontate, di grazia, padron Lincoln con padron Shelby. Dio buono! E la signora Lincoln sa forse arredare una camera meglio della mia padrona? Se ne conosce forse una più bella della sua? Eh, via, non si parli più dei Lincoln! — Ciò detto la zia Cloe scosse il capo come chi si persuade di ben conoscere la gente. — Benissimo! Ma io ricordo d’avervi inteso dire che Jenny è una cuoca piuttosto buona. — Davvero, — soggiunse la zia Cloe — ho potuto dir questo? Ma essa è una cuoca molto ordinaria. Jenny vi saprà fare cose dozzinali, buoni biscotti, buone focacce; ma la sua pasta sfoglia va l poco. Oh, la sfoglia di Jenny val poco, poco davvero! Ma passate un po’ alle cose fini; che può essa fare? Fa dei pasticci, diamine! Ma, la crosta? In che modo la sa formare? Vi farà essa una pasta sottile e morbida che si squagli sotto la lingua e solletichi ogni papilla del palato? Per esempio, quando io andai da miss Maria che si maritava, Jenny mi fece vedere i pasticci da nozze; che pasticci! Veramente io e Jenny siamo buone amiche, come sapete; io non ne ho mai detto male. Ma, credetemi, padroncino Giorgio, non avrei potuto chiudere occhio per un’intera settimana se avessi mandato al forno pasticci simili. — Jenny li credette bensì di fattura stupenda. — Certo che li credette! Almeno ella me li mostrò come tali!... Ma essa non sa neppur che siano le cose perfette! Che volete mai aspettarvi da Jenny? Del resto, non è colpa sua. Ah, padroncino Giorgio, voi non conoscete la metà dei vantaggi che avete d’essere educato nella vostra famiglia! — Qui la zia Cloe mandò un gran sospiro e volse con una certa commozione gli occhi altrove. — Vi assicuro, zia Cloe, — disse Giorgio — che io comprendo benissimo tutto il vantaggio dei miei pasticci e dei miei pudding; domandate un poco a Tom Lincoln se non gliene empio le orecchie tutte le volte che lo incontro. — La zia Cloe si gettò addietro sulla seggiola ridendo sgangheratamente di quell’arguzia del suo padroncino, e rise tanto di cuore, che le lacrime scorsero sulle sue guance d’ebano. Ella si pose a folleggiare con lui dicendo: — Va’ là, va’ là, furfantello, vuoi farmi crepare dalle risa! — E la zia Cloe fu presa in questo punto da una più forte convulsione di riso, cosicché Giorgio cominciò a credersi veramente un ragazzo di spirito e a pensare che d’allora in poi doveva porre grande attenzione a chi si rivolgeva quando gli venisse il ticchio di celiare. — Voi dunque ne empite spesso le orecchie a Tom? Oh, guardate di che s’intrattiene questa gioventù! Lo volete davvero soverchiare, quel povero Tom! Ah, padroncino Giorgio, fareste ridere anche un morto! — Sì. Io dissi a Tom: «Vorrei pur farvi assaggiare i pasticci di zia Cloe. Sono i migliori dei mondo». — Povero Tom! — soggiunse la zia Cloe, che per tenerezza di cuore sentiva pietà della dura condizione di quell’infelice giovanotto. — Voi dovreste invitarlo qualche giorno a pranzo da noi; sarebbe un’azione meritoria. Già sapete, padroncino Giorgio, che non bisogna credersi da più degli altri a cagion dei propri vantaggi; questi ci sono concessi dall’alto, non è vero? Convien pure ricordarsene, — disse la zia Cloe con voce solenne. — Va benissimo; io inviterò Tom un giorno della prossima settimana, ed al resto penserete voi, zia Cloe. Lo impinzeremo in modo da farlo stare a letto per quindici giorni. — Sì, sì, ma davvero, — disse la zia Cloe tutta gongolante — vi farò veder io! Ah, quando penso ad alcuno de’ molti bei pranzi da noi fatti! Vi rammentate di quel grosso pasticcio di selvaggina che feci quando avemmo a pranzo in casa nostra il generale Knox? La signora ed io fummo a un pelo di attaccar lite a proposito della crosta. Io non so di che s’impicciano talvolta le signore! Ma appunto quando una poveretta è oppressa sotto il peso del suo amor proprio, quando sta con tutta la mente al suo dovere, esse vengono a volteggiarvi intorno e si brigano di ciò che non le riguarda. Ebbene, quel giorno la signora voleva che io facessi la tal cosa, che facessi la tal’altra, tanto che alla fine io mi lasciai sfuggire un’impertinenza. «— Ma, signora, — le dissi — fatemi la grazia di guardarvi le belle manine bianche, e quelle dita leggiadre tutte risplendenti di anelli, e poi guardate, ve ne prego, le mie nere zampacce. Ora non è evidente che Dio destinò me in cucina a far croste di pasticci, e voi a rimanervene in sala a ricever visite?— «Sì, caro padroncino Giorgio, io l’ebbi l’impudenza di dirle questo. — E la mamma che rispose? — Che rispose? Mi parve di scorgere un sorrisetto in quei grandi e belli occhi suoi, e mi disse: «— Bene, bene, zia Cloe, avete forse ragione! — «E se ne tornò in sala. Avrebbe dovuto farmi frustare per la mia impertinenza; ma che volete? Le signore son d’impaccio alla cucina. — Quel pranzo, ben me ne ricordo, vi riuscì maravigliosamente, e tutti ne parlavano. — Eh, non è vero? Ed io che mi tenevo dietro l’uscio della sala da pranzo, vidi il generale ridomandare per ben tre volte di quel medesimo pasticcio. «— Voi avete — disse — una cuoca famosa, signora Shelby. — «Io ero sì gonfia d’orgoglio, che più non capivo nella pelle. E il meglio è che il generale se ne intende, — proseguì la zia Cloe rialzando la testa. — È un uomo propriamente di garbo quel generale, d’una delle primarie famiglie della Virginia; se ne intende al pari di me, lui! — Ascoltando così chiacchierare la zia Cloe, Giorgio era venuto a quel punto in cui riesce impossibile, anche per un giovinetto della sua età, d’inghiottire un boccone di più. Egli pertanto ebbe agio di scorgere dall’altro lato della stanza due paia d’occhi rilucenti che lo guardavano immobili. — Olà, Pietro, Mosè, — gridò egli, spartendo gli avanzi del suo banchetto — vi bisogna qualche cosa anche a voi, non è vero? Su, zia Cloe, date loro qualche focaccetta! — Giorgio e Tom si assisero accanto al fuoco, mentre la zia Cloe, dopo aver imbandito una seconda mensa, si pose a cena, tenendo sulle ginocchia la sua figlioletta che faceva mangiar seco. In quanto ai due ragazzi più grandetti, essi preferirono di divorar la porzione loro arrotolandosi per terra, solleticandosi con pizzicotti, e, per variare il loro sollazzo, venendo tratto tratto a tirare, per giuoco, i piedi della sorellina. — Volete lasciarmi in pace? — diceva la mamma, dando alla cieca urtoni col piede sotto la tavola, quando il tumultuare diveniva cosa insopportabile. — Non potete dunque stare un po’quieti quando qualcuno viene a farci visita? Badate bene che avrete da fare con me, quando il padroncino Giorgio se ne sarà andato. — Non parve che a questa minaccia sbigottissero gran fatto quei monelli, perché le grida e il dibattersi continuarono più di prima. — Si è mai veduto niente di simile di questi insolentacci? — gridava la zia Cloe con una segreta soddisfazione. Poi, tirando fuori per la punta un vecchio tovagliuolo riserbato a quest’uso, lavò e strofinò la faccia della sua negrettina tanto da farla luccicare, indi la posò sulle ginocchia di Tom, e mentre questi la sobbalzava pianamente, andò a riporre i residui della cena. — Non è bellina e graziosa? — disse Tom, mentre la bambina si divertiva a tirargli il naso e a graffiarlo: e postala a sedere sopra la sua larga spalla, si diè a ballare e sgambettare, mentre i due ragazzetti gli ballavano intorno strillando; e così continuarono tutti, finché furono stanchi. — Via! Spero che sarà finita, — disse la zia Cloe; e tirando fuori di sotto il letto una cassa che serviva di giaciglio ai figli, ingiunse loro di coricarsi. — ... Poiché — disse — avremo fra poco l’adunanza religiosa. — Ah, mamma, lasciateci assistere all’adunanza! È così bella un’adunanza! Ci piace tanto! — Suvvia, — disse Giorgio — rimandate il lettuccio al suo posto, e lasciateli in piedi. — E così dicendo diè una spinta decisiva al rozzo giaciglio. Salvate così le apparenze, fu ben lieta la zia Cloe di rimettere la cassa a posto. «Chi sa!» diceva fra sé. «Potrebbero anche profittarne.» Poi la famigliuola attese a disporre le cose per trasformar la capanna in sala di adunanza. — Dove prenderemo delle seggiole, adesso? Davvero che non saprei. — Ma siccome da lunghissimo tempo le adunanze si tenevano ogni settimana presso lo zio Tom, eravi da sperare che anche quella sera si sarebbe trovato un mezzo per uscire d’impaccio. — Il vecchio zio Pietro ruppe la scorsa settimana le gambe di quella seggiola, — disse Mosè. — Credo che invece tu stesso abbia fatto il malanno, — osservò la zia Cloe. — Basta appoggiarla al muro, — suggerì Pietro — starà salda. — In questo caso, — disse l’altro ragazzo — non bisogna lasciarvi sedere lo zio Pietro, perché egli si dimena tanto nel cantare, che l’altra sera finì col trovarsi dall’altro lato della stanza. — Anzi, — replicò Mosè — bisogna farvelo sedere: e quando egli si metterà a cantare, sul più bello lo vedremo ruzzolare in terra! — E Mosè, dopo aver imitato la voce nasale del povero vecchio, fece il capitombolo per dimostrare con l’esempio la catastrofe preveduta. — Eh, un po’ di creanza se è possibile! — disse la zia Cloe. — Non vi vergognate? — Ma essendosi Giorgio unito alle sghignazzate dei negrotti dicendo che Mosè era un vero pagliaccio, la materna ammonizione mancò alcun poco di effetto. Frattanto due botticelle vuote vennero rotolate entro la capanna, ed alcune tavole vi furono collocate sopra a guisa di panche; varie secchie e mastelle rovesciate, in compagnia di altre due seggiole zoppe, completarono i preparativi. — Ora il signor Giorgio, che legge sì stupendamente, — disse la zia Cloe — ci farà un po’ di lettura, non è vero? — Giorgio acconsentì di buon animo. I giovani della sua età sono sempre disposti a far ciò che dà loro una qualche importanza. Tosto la stanza incominciò a riempirsi d’una numerosa assemblea di negri, nella quale il patriarca di ottant’anni trovavasi accanto alle fanciulle e ai giovinetti di quindici. La seduta si aperse, com’era ben naturale, con un innocente cicalio; si parlò del bel fazzoletto rosso della vecchia zia Sully, della veste di mussolina a fiori che la signora doveva fare a Elisa, e si narrò come il signor Shelby si proponesse di comprare una bella cavalla baia, acquisto che accrescerebbe lo splender della casa. Alcuni dei fedeli radunati appartenevano a famiglie del vicinato; ciascuno riferiva qualche notizia della sua casa o della piantagione di cui faceva parte, e questo minuto cicaleccio otteneva quivi una sì buona accoglienza, come sarebbe avvenuto nei crocchi della società più elevata. Dopo quelle prime chiacchiere, che erano come un’introduzione, il canto cominciò, con vera allegrezza di tutti. L’intonazione nasale dei cantori non attenuava l’effetto delle loro voci naturalmente belle e delle loro melodie selvagge ma ispirate. Alcune strofe provenivano dalla collezione degl’inni solitamente cantati in una chiesa vicina: altre, di una poesia più mistica, erano state apprese da quei negri nelle adunanze dei campi. Con quanta energia e con quanta unzione essi cantavano il coro: «Della gloria sul cammino Vieni meco, buon fratello; Lassù un angelo divino Mi fa cenno e chiama in Ciel!» Cantarono poi altri inni, tutti pieni delle rive del Giordano, delle ubertose terre di Canaan, della Nuova Gerusalemme; perché il n***o, d’indole appassionata, immaginosa, ama il canto e le espressioni vivaci, pittoresche. E mentre cantavano, alcuni ridevano, altri versavan lacrime di gioia; chi applaudiva, chi stringeva la mano al vicino in segno di simpatia e di contentezza; nel vederli si sarebbe creduto che avessero allora allora tragittato il Giordano. Tra un cantico e l’altro si udivano varie esortazioni e racconti di esempi religiosi. Una vecchia coi capelli canuti, inabile da lungo tempo al lavoro, ma tenuta in venerazione come un oracolo del passato, si alzò in piedi, e, appoggiata al suo bastone, disse: «Figliuoli, io godo nell’anima di avervi veduti e sentiti ancora una volta. Non so quando partirò per la gloria; ma ormai io me ne sto pronta, figliuoli; mi sembra di aspettare col mio fagottino in ispalla, col mio cappello in testa, la corriera che deve trasportarmi nella mia patria,. Talvolta di nottetempo mi pare di udir lo strepito delle ruote, e guardo semai comparisse. Fate dunque di esser preparati anche voi, perché ve lo dico io, figliuoli miei, — soggiunse battendo la terra col bastone — è bella, maravigliosamente bella la nostra patria. — E la buona vecchierella si pose a sedere, mezza soffocata dalla commozione, con le guance inondate di lacrime, mentre tutta quanta l’assemblea intonava il cantico: «O Canaan, o Canaan, Nostra, patria diletta, A te l’alma più s’affretta Quanto è tardo e pigro il piè!» A richiesta generale, Giorgio lesse gli ultimi capi dell’ Apocalisse , in mezzo alle esclamazioni dell’uditorio. — È possibile veramente? Suvvia, date ascolto! Chi l’avrebbe potuto immaginare? E tutto ciò ha da avverarsi! — Giorgio, intelligente com’era ed istruito da sua madre nelle cose di religione, vedendosi oggetto dell’ammirazione generale, aggiungeva spiegazioni di sua testa con una serietà da uomo attempato. I giovani lo ascoltavano ammirando, i vecchi lo benedicevano; tutti concordavano nel dire che un ministro non avrebbe potuto parlar meglio. Lo zio Tom era considerato dai negri dei dintorni come un oracolo in materia religiosa. Dotato di un animo in cui prevaleva il senso morale, e più istruito e di più sano criterio dei suoi compagni, s’era acquistato il loro rispetto, ed esercitava in mezzo ad essi una specie di apostolato. Le sue esortazioni, ingenue e commoventi, avrebbero convinto persone più cólte che egli non fosse. Ma nulla potrebbe dare un’idea della semplicità e della serietà infantili delle sue preci. Le parole della Sacra Scrittura si frammischiavano così naturalmente alle sue, che parevano fluirgli dal cuore, ed eccitava in sommo grado la devozione di chi lo ascoltava. Mentre queste cose avvenivano dentro la capanna dello zio Tom, un’altra scena di genere ben diverso succedeva nella casa del padrone. Il signor Shelby ed il mercante di schiavi erano di nuovo nella sala da pranzo, vicini ad una tavola piena di carte. Dopo aver contato vari biglietti di banca, il signor Shelby li consegnò al mercante. — Va bene! — disse questi, contati che li ebbe a sua volta. — Adesso, qua, la vostra firma. — Shelby prestamente sottoscrisse i contratti di vendita come chi si affretta a conchiudere un affare che gli dispiace, e li mandò a raggiungere i biglietti di banca. Haley trasse da un lercio portafogli un documento, lo esaminò alquanto, indi lo presentò al signor Shelby, che lo prese con un’impazienza mal dissimulata. — Oh, finalmente ecco un affare finito! — disse il mercante di schiavi alzandosi da sedere. — Sì, è finito... — soggiunse Shelby in aria pensosa — finito! — ripeté egli sospirando con sforzo. — Voi non mi sembrate gran fatto contento, — disse il mercante. — Haley, spero che mi manterrete la vostra promessa e non venderete Tom senza ben vedere prima in quali mani lo date. — Eh, ma non faceste voi or ora il contrario di ciò che mi raccomandate? — Voi sapete pure che le circostanze mi vi hanno costretto, — rispose Shelby con alterezza. — Esse possono costringere anche me allo stesso modo. Ma non parliamone più: io m’ingegnerò di collocarlo bene. Per conto mio, non avete da temere ch’egli incontri mali trattamenti. Se c’è cosa di cui io debba ringraziare il cielo è di non essere mai stato crudele. — Dopo l’esposizione che Haley poche ore prima aveva fatta come intendesse l’umanità, cotesta dichiarazione non era tale da assicurar troppo l’animo del signor Shelby; ma poiché non poteva far altrimenti, dovette contentarsi; lasciò andar via il mercante, e si pose a fumare un sigaro.