III. MARITO E PADRE.

1935 Words
III. MARITO E PADRE. La signora Shelby era uscita. Elisa, in piedi sulla veranda, seguiva la carrozza della sua padrona con triste sguardo, quando si sentì posare una mano sulla spalla. Si volse indietro, e un raggiante sorriso illuminò i suoi begli occhi. — Che! Sei tu, Giorgio? Oh, come mi hai spaventata! Ma quanto sono felice di vederti! La signora è uscita per tutta la sera, ed io sono libera; vieni nella mia cameretta. — Sì dicendo, lo condusse in una piccola stanza che metteva sulla veranda, nella quale solitamente essa lavorava, a portata della voce della padrona. — Quanto sono contenta! Ma perché non sorridi tu? Perché non guardi il nostro Enrichetto? Vedi come cresce tutti i giorni! — Il bimbo guardava timidamente il babbo stringendosi alla madre. — Non è un visetto che innamora? — disse Elisa, rimovendo le lunghe ciocche per stampargli un bacio sulla bocca. — Oh, non fosse mai nato! — rispose Giorgio con malumore. — Vorrei non esser nato neppur io. — Sorpresa, spaventata, Elisa si lasciò cadere sopra una sedia, appoggiò la testa alla spalla del marito e proruppe in pianto. — Elisa mia, sono pur crudele a parlarti così! Poverina! — disse teneramente. — Oh, perché mai mi conoscesti? Senza di me potresti essere felice. — O mio Giorgio, perché dir tali cose? Che cosa ti è dunque accaduto di sì orribile, o che cosa ti minaccia? Eppure nulla ha turbato la nostra felicità fino a questi ultimi giorni! — Sì, cara... nulla... nulla! — E tirando il fanciulletto tra le sue ginocchia, ne contemplò lungamente i grandi occhi neri, passando le dita nelle ciocche de’ suoi capelli. — È tutto il tuo ritratto, Elisa, e tu sei la più bella donna che finora io abbia vista e la migliore che io abbia vagheggiata col pensiero. Ma ohimè, perché dovevamo incontrarci? — Giorgio, come puoi parlare a questo modo? — Sì, Elisa, tutto è miseria, miseria, miseria! La vita per me è amara come il fiele. Io non sono che un meschino derelitto, senza barlume di speranza. Null’altro posso fare per te che trascinarti nella mia rovina. A che vale darsi briga, imparare, tentar d’essere qualche cosa? A che vale il vivere? Io vorrei esser morto. — Oh, mio diletto Giorgio, è male ciò che vai dicendo! So quanto soffristi perdendo il posto nella fabbrica, e so quanto è duro il tuo padrone: ma sii paziente, te ne supplico. Chi sa!... Forse... — Paziente! — diss’egli interrompendola. — Non lo sono stato finora? Mi sfuggì un detto solo, quando egli venne a togliermi senza ragione da un luogo dove tutti mi dimostravano benevolenza? Gli resi conto dei miei guadagni fino a un centesimo, e ciascuno attesterebbe che io lavoravo a dovere. — Per verità è cosa orribile; — disse Elisa — ma poi alla fine egli è tuo padrone. — Mio padrone!... E con qual diritto è mio padrone? Ecco ciò che domando a me stesso. Quali sono i suoi diritti sopra di me? Non sono un uomo al pari di lui? Io valgo più di lui: m’intendo meglio di affari, sono più abile amministratore, e leggo e scrivo meglio di lui. E non gli devo niente: tutto ciò l’ho compreso da me, senza lui, a dispetto di lui. Dunque, con qual diritto mi adopera come una bestia da soma? Con qual diritto mi toglie da occupazioni alle quali io son atto più di quanto egli non sia, per condannarmi alle fatiche di un cavallo?... Egli pretende umiliarmi, dice, e a questo intento si diletta di caricarmi dei lavori più aspri e più vili. — Giorgio, tu mi atterrisci! Non ti ho mai udito parlare a questo modo. Io temo che tu ti lasci trarre a qualche cosa di terribile. Comprendo i sentimenti tuoi; ma sii prudente, te ne supplico, per l’amore che mi hai, per amor del nostro Enrico! — Fui prudente, fui paziente; ma le cose vanno ogni giorno peggiorando. Egli spia tutte le occasioni per insultarmi e avvilirmi. Credevo di poter fare il mio lavoro, e trovar poi qualche momento di posa da dedicare alla lettura e allo studio. Ma più egli vede che io posso fare, e più mi carica. Benché io non proferisca mai parola, egli pretende che io sia posseduto dal demonio, e dice di volerlo scacciare da me; ma badi bene! Uno di questi giorni esso n’uscirà in guisa che non gli piacerà molto, o io m’inganno forte. — Ahimè, ahimè! Che sarà di noi? — esclamò dolorosamente Elisa. — Ieri appunto io caricavo una carretta di pietre, e suo figlio stava colà facendo fischiare la frusta sì presso alle orecchie del cavallo, che la bestia se ne inquietava. Lo pregai di desistere, con quella maggiore urbanità che mi fu possibile, ma egli continuò. Rinnovai la preghiera, ed egli mi rispose col darmi dei colpi. Provai allora di tenergli la mano, ma il manigoldo si pose a gridare, e corse a dire ch’io l’avevo battuto. Suo padre s’infuriò. «— Ti farò veder ben io chi è il tuo padrone! — egli disse. «E legatomi ad un albero, tagliò delle bacchette che diede a suo figlio, dicendogli di flagellarmi finché fosse stanco. E così fece. Ma io glielo farò ricordare un giorno. — La fronte di quell’uomo s’offuscò, ed i suoi occhi scintillavano d’una luce sinistra che fece tremare sua moglie. — Con qual diritto costui è il mio padrone? Ecco quello che voglio sapere! — egli esclamò. — Ma... — disse mestamente Elisa — io credetti sempre che bisogna obbedire al proprio padrone e alla propria padrona, e che senza ciò non sarei cristiana. — Per te, già s’intende; ti allevarono come loro figlia, ti nutrirono, ti vestirono, ti colmarono di carezze, ti fecero istruire: hanno un certo diritto sopra di te. Ma io fui battuto, schernito, abbandonato. Che dovere mi lega al mio padrone? Io mi riscattai cento volte col mio lavoro; non voglio rimanere più a lungo in un simile stato. No, non voglio! — esclamò con voce minacciosa ed energica. Elisa restò muta e tremante. Era certamente la prima volta che vedeva il suo Giorgio in quella disposizione d’animo, e la sua indole tutta dolcezza pareva piegarsi come un giunco al soffio di quella violenta collera. — Ti rammenti del cagnolino che mi avevi dato? La povera bestia, dopo la mia partenza, era il solo conforto che io avessi. Dormiva accanto a me la notte, mi seguiva di giorno, e mi guardava come se mi comprendesse. Ebbene, uno di questi giorni io gli davo da mangiare certi meschini avanzi raccolti all’uscio della cucina, quando venne a passare il padrone. Tosto egli grida che io alimento quel cagnolino a spese di lui, e che se ciascuno dei suoi negri s’incapricciasse d’averne uno, le sue facoltà non vi basterebbero. Mi ordinava perciò di porgli una pietra al collo e di gettarlo nello stagno. — Oh, Giorgio! Tu non lo facesti, è vero? — Io no, ma lui lo fece. Egli e suo figlio gettarono nell’acqua il mio cagnolino, e l’oppressero di pietre fino a che restò annegato. Il meschinello guardava tristemente verso me, e sembrava che domandasse perché non lo salvavo. Fui frustato per non averlo voluto uccidere. Non importa! Il padrone s’accorgerà che io non sono di quelli che il frustino doma, e... verrà la mia volta, s’egli non sta all’erta! — Che vai tu meditando? Oh, Giorgio, non ti lasciare almeno trarre ad atti colpevoli! Confida in Dio, fa’ il bene, ed Egli ti scamperà. — Tu sei cristiana, Elisa: ma io non sono cristiano. Il mio cuore è pieno di amarezza; io non so confidare in Dio. Perché lascia Egli che le cose vadano a questo modo? — Giorgio, abbiamo fede! La signora dice che quando ogni cosa nostra sembra andare a rovescio, noi dobbiamo esser certi che Iddio conduce il tutto per il meglio. — È cosa facile a dirsi, quando non s’ha da far altro che coricarsi sopra un sofà, o andare a spasso in carrozza. Ma io scommetto che al posto mio essa parlerebbe altrimenti. Per me, con tutto il mio desiderio di far bene, sento il mio cuore ribellarsi. Io non posso sottomettermi. Tu stessa non lo potresti fare, e proveresti ciò che io provo, se tu sapessi tutto. Ma non sai nulla. — Che pericolo ci sovrasta dunque? — Ecco che te lo dico. Il padrone, qualche tempo addietro, dichiarò ch’era stato pazzo a permettermi di sposarti, che odiava gli Shelby e tutta la loro razza, perché sono alteri e si credono al disopra di lui; che tu mi rendesti superbo: che non mi permetterà più di venire a vederti, e ieri m’ingiunse di pigliar Mina in moglie, e di stabilirmi seco lei in una capanna sotto pena di vendermi per il Sud. — Come? — disse Elisa. — Non mi hai forse sposata dinanzi a un ministro come se tu fossi un uomo bianco? — Ma non sai che uno schiavo non può ammogliarsi? Niuna legge in questo paese protegge il suo matrimonio, e se piace a costui di separarci, tu non sei più mia moglie. Ecco il perché io vorrei non averti mai veduta, né essere mai venuto al mondo. Non sarebbe stato forse meglio per noi due e per questo fanciullo? Poiché la medesima sorte gli è riserbata. — Oh, il padrone nostro è così buono! — Sì, ma egli può morire, e il nostro figlioletto sarà venduto al primo che capita! Come mai dobbiamo rallegrarci di vederlo tanto leggiadro, vispo e grazioso? Elisa, te lo dico io, ciascuna, delle amabili qualità di tuo figlio sarà una spada che ti trafiggerà il cuore; egli varrà troppo denaro perché tu possa conservarlo. Queste ultime parole ferivano Elisa nel più vivo dell’anima,. Il pensiero del mercante visto quella mattina le balenò alla mente: impallidì e il respiro le mancò. Essa volse inquieta lo sguardo a cercare il suo Enrichetto che, stanco di esser testimonio di un colloquio sì grave, erasi allontanato bel bello, e correva intorno alla veranda a cavalcioni del bastone del signor Shelby. Un momento fu tentata di mettere a parte suo marito di tutte le sue apprensioni; ma pensò che egli soffriva già troppo e che non bisognava affliggerlo maggiormente. «No, no,» diss’ella in cuor suo «sarebbe per lui troppo grande rammarico. No, non vo’ dirgli ciò che penso; eppoi la signora non m’inganna di certo.» — Dunque, Elisa mia, — disse Giorgio con viso tetro — addio! Me ne vado. — Tu parti, Giorgio? E dove vai? — Al Canada, — rispose egli, frenando la sua emozione — e di là io ti riscatterò: sola speranza che ci resti. Tu hai un buon padrone che non ricuserà di vender te ed il figlio. Se Dio mi aiuta, riuscirò a comperarvi entrambi. — Guai se tu fossi preso! — Non mi prenderanno: morrò piuttosto. Sarò libero, te lo dico io, Elisa, o morrò! — Non ti ucciderai? — Sarebbe inutile; mi uccideranno abbastanza presto gli altri; ma sii certa che non mi faranno scender vivo giù nel fiume. — Oh, Giorgio, per l’amore che mi porti, usa prudenza, non fare alcuna mala azione! Scaccia le tentazioni che ti assalgono. Tu sei spinto a qualche estremo, lo vedo: ma, sii cauto. E poiché t’è d’uopo partire va’, Giorgio, ma abbi giudizio, e prega Dio che t’aiuti! — Ebbene, Elisa, ascolta, ecco il mio divisamento: è saltato in capo al padrone di spedirmi con una lettera difilato al signor Symmes che abita un miglio lontano di qua. Egli s’aspetta certo che io venga qui da te a narrarti tutto ciò che mi pesa sul cuore, e si compiace nel pensiero di fare in tal guisa maggior dispiacere agli Shelby. Ebbene, io torno a casa tutto rassegnato, intendi bene, come se nulla fosse. Farò alcuni preparativi che mi aiuteranno per la partenza, e fra pochi giorni qualcuno mi cercherà. Prega per me, Elisa; forse Iddio esaudirà le tue preghiere! — Tu pure pregalo, Giorgio, e confida nella Provvidenza: essa non t’abbandonerà. — Ora dunque, addio! — disse Giorgio, tenendo strette le mani d’Elisa e fissando lo sguardo ne’ suoi occhi. Vi fu un lungo silenzio, perocché erano le ultime parole che Giorgio pronunziava; indi seguirono lacrime, singhiozzi e tronche voci d’addio. Marito e moglie, datisi un ultimo abbraccio, si separarono.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD