V. I SENTIMENTI CHE PROVA LA MERCE UMANA CAMBIANDO PADRONE.

3167 Words
V. I SENTIMENTI CHE PROVA LA MERCE UMANA CAMBIANDO PADRONE. Il signore e la signora Shelby si erano allora allora ritirati nel loro appartamento. Sdraiato sopra una comoda poltrona, il signor Shelby scorreva alcune lettere recategli dal corriere della sera, mentre sua moglie, in piedi dinanzi allo specchio, scioglieva le grosse trecce e i ricci che Elisa le aveva aggiustati con tanta cura; perché la signora Shelby, accortasi del pallore e dell’abbattimento della sua cameriera, l’aveva per quella sera dispensata dal suo servizio e mandata a coricarsi. Quella sua insolita occupazione le fece tornare a mente il colloquio avuto la mattina con la giovane meticcia; e rivoltasi al marito gli domandò con indifferenza: — A proposito, Arturo: chi era quel volgare individuo che hai condotto a pranzo oggi? — È un certo Haley, — rispose Shelby movendosi sulla poltrona, senza distoglier gli occhi da una lettera. — Haley? Chi è costui, e quali affari può aver teco? — È un uomo col quale trattai alcuni interessi nel mio ultimo viaggio a Natchez. — Ed egli, come fosse di casa, è venuto, senza tanti complimenti, a chiederti da pranzo?... Ma benissimo! — No, l’ho invitato io: avevamo alcuni conti da regolare insieme. — Sarebbe mai un mercante di schiavi? — chiese la signora Shelby, avvedutasi dell’imbarazzo di suo marito. — Mia cara, chi t’ha suggerito quest’idea? — domandò il signor Shelby, alzando gli occhi dalla lettera. — Nessuno. Solamente, Elisa è venuta a trovarmi dopo pranzo, tutta agitata; ella asseriva che tu stavi parlando con un mercante di schiavi, e che questi ti proponeva di vendergli il suo figlioletto. Si può immaginare una simile puerilità? — Davvero! — disse il signor Shelby rimettendosi a leggere con la più grande attenzione, senza avvedersi che teneva la lettera a rovescio. «Bisognerà pure alla fine dire la verità!» pensava frattanto. «Tant’è ch’io lo faccia subito.» — Io ho dato all’Elisa di pazza, — continuò la signora Shelby, ravviandosi i capelli col pettine — e le ho assicurato che tu non hai nulla da fare con quella razza di gente; so bene che tu non avesti mai il pensiero di vendere alcuno dei nostri schiavi, specialmente poi ad un tale individuo. — Infatti, Emilia, io ho sempre pensato e sentito come te sopra questo argomento. Ma i miei affari sono in tale stato, mia cara, che io mi trovo costretto di venire a questo. Sarò obbligato a vendere qualcuno de’miei servi. — A quell’individuo? È impossibile, amico mio! Tu non parli da senno. — Ahimè, sì, purtroppo: io ho fatto contratto per Tom! — Che? Tom! Quel buono, quell’eccellente servo? Colui che ci servì con tanta fedeltà fin dalla prima infanzia! Oh, amico mio, non gli avevi promesso di dargli la libertà? Non abbiamo parlato di ciò mille volte? Oh, adesso nulla più mi riesce strano, e credo che tu sia anche capace di vendere il piccolo Enrico, l’unico figlio della povera Elisa! — aggiunse ella con un accento di dolore misto a indignazione. — Ebbene, poiché bisogna che tu sappia tutto, sì, è vero, ho venduto Enrico e Tom. Tuttavia io non mi credo un mostro per aver fatto una volta quel che gli altri fanno tutti i giorni! — Ma perché scegliere questi due? Non ne avevi altri, se eri proprio costretto a vendere? — Perché? Perché essi valgono di più. Io posso vendere Elisa, se lo preferisci, poiché quell’individuo m’ha fatto magnifiche offerte per essa. — Sciagurato! — esclamò la signora Shelby. — Cara Emilia, io non ebbi un solo istante il pensiero di farlo, per tuo riguardo: e tu devi essermene grata. — Caro mio, — replicò con più calma la signora Shelby — perdonami; sono stata troppo violenta, lo vedo. Ma una tal notizia mi giunge così inaspettata! Concedi però che io interceda in favore di quegl’infelici! Tom ha un bell’essere n***o: egli è un nobile cuore, un servo fedele e affezionato. Egli verserebbe tutto il suo sangue per te, se occorresse. — Lo so, ne son certo: ma che giova ricordarmelo? Io non posso farci nulla. — Non potresti fare qualche altro sacrificio? Io ne sopporterei la mia parte con gioia. Oh, Arturo, io feci quanto era in me per adempiere, da buona cristiana, il mio debito verso questi poveri schiavi! Da molti anni ho preso gran cura di essi, li ho educati, ho vegliato su loro, ho condiviso i loro minimi affanni, ho goduto delle loro minime gioie: E adesso, in qual modo oserò guardarli in volto dopo che per un vile guadagno noi vendiamo un uomo di tanta bontà, di tanta virtù, di tanta fede com’è quel povero Tom, e lo stacchiamo d’improvviso da tutto ciò che gli abbiamo insegnato ad amare e rispettare? Io ho insegnato ad essi i loro propri doveri come padri di famiglia, come sposi, come mariti; e or sarà detto che questi sacri legami sono un nulla per noi di fronte al denaro! Io ho ragionato con Elisa de’ suoi doveri di madre cristiana, le ho raccomandato di vigilare sopra suo figlio, di pregare per lui, di educarlo piamente: che cosa le dirò, se tu glielo strappi dal seno e per un po’ d’oro lo vendi corpo ed anima ad un uomo empio e senza principii? Io le ho ripetuto tante volte che un’anima vale più di tutto l’oro del mondo. Mi crederà ella adesso, se io vendo il suo figlioletto... se lo vendo per la rovina del suo corpo, e forse per la rovina della sua anima? — In verità, Emilia, io sono dolentissimo di vederti pigliarla cosa in tal modo; rispetto i tuoi sentimenti e le tue massime, benché non sia in ciò interamente del tuo avviso. Ma, lo ripeto, io non posso farci più nulla. Non c’è mezzo termine: bisogna vendere quei due, o tutto il resto. Alcune cambiali sono cadute nelle mani di Haley, e se non p**o subito sono rovinato. Ho preso a prestito, ho fatto denaro di ogni cosa superflua: ma il prezzo di questi due schiavi era indispensabile per compire la somma. Haley s’è incapricciato di questo fanciullo, e non ha voluto conchiudere senza averlo. Se la vendita di questi due schiavi ti reca tanto dolore, che cosa avresti detto se fosse stato necessario di vender tutto? — La signora Shelby restò come di pietra. Finalmente, sedutasi alla toilette, appoggiò la testa nelle mani e lasciò sfuggire dal petto un gemito doloroso. — Ecco la maledizione di Dio sulla schiavitù. Maledizione per il padrone, maledizione per lo schiavo! Insensata! Io credevo che si potesse trarre bene da questo male senza, rimedio! È un delitto possedere schiavi sotto leggi quali sono le nostre! Credevo, a forza di cure, di bontà e d’istruzione, di rendere la condizione dei miei schiavi preferibile alla libertà!... Insensata, insensata,! — Ma, cara, tu divieni abolizionista assoluta? — Tale sono sempre stata; non ho mai considerato la schiavitù come cosa legittima. E mi è sempre incresciuto di possedere degli schiavi. — In ciò tu non sei d’accordo con molti uomini saggi e pii. Ti ricordi il sermone che fece il ministro domenica? — Oh, me ne ricordo, e non mi preme punto di ascoltar altri siffatti sermoni! Senza dubbio i ministri non possono impedire il male, né possono, più che noi medesimi, rimediarvi: ma difenderlo! Del resto, tu stesso non approvasti il sermone di cui parli, se ho buona memoria. — Confesso — replicò il signor Shelbv — che questi ministri spingono talora le cose più in là di quanto poveri peccatori quali noi siamo ardirebbero fare. Noialtri uomini di mondo siamo spesso costretti a chiuder gli occhi o a passar sopra a certe cose che non sono pienamente giustificabili: ma non ci piace che i ministri e le donne trattino questi argomenti in lungo ed in largo, e si mostrino in fatto di morale più arrendevoli e più indulgenti di noi medesimi. Intanto, mia buona amica, m’auguro che tu capisca come io abbia operato nel miglior modo che è stato possibile, e che le circostanze non mi hanno lasciato altra alternativa. — Sicuramente! — rispose la signora Shelby con distrazione; e prendendo fra le dita il suo orologio: — Io non ho alcun gioiello di prezzo; — soggiunse ella con aria pensosa — ma questo orologio non potrebbe servire a nulla? Era un oggetto di valore allorché fu comprato. Oh, se io potessi salvar almeno il figliuolo di Elisa! Darei con piacere tutto quello che ho. — Emilia, — disse il signor Shelby — sono veramente desolatissimo che ciò ti stia tanto a cuore. Ma è inutile, il fatto è compiuto: gli atti di vendita sono tra le mani di Haley, e tu puoi, te ne accerto, ringraziare Iddio che il male non sia più grande. Costui avrebbe potuto mandarci tutti in rovina; se tu lo conoscessi come io conosco io, vedresti anche tu che siamo scampati da un gran pericolo. — È tanto crudele? — No, a rigor di termine, no: ma è un uomo indurito, un uomo che non respira se non traffichi e guadagni, persistente e insaziabile quanto la morte e il sepolcro. Egli venderebbe la propria madre se gliene venisse un utile, e senza voler far del male alla povera vecchia. — E questo disgraziato possiede il nostro bravo ed eccellente Tom e il figliuolo d’Elisa? — Ne sono afflittissimo, lo confesso; non ardisco pensarvi. Haley vuol compier l’affare ed entrare in possesso fin da domani. Per me, io sarò a cavallo di buon mattino e me ne andrò: davvero, non ho il coraggio di rivedere il povero Tom! E tu stessa, Emilia, faresti assai bene di proporre una gita e menare Elisa con te, affinché la cosa succeda in sua assenza. — No, no, — disse Emilia — io non voglio avere alcuna complicità in questa barbarie. Io andrò a trovare il mio buon Tom: e così Dio si degni di alleviare la sua angoscia! È bene ch’essi vedano almeno che la loro padrona può soffrire con loro e per loro. Quanto a Elisa, io non oso pensarvi. Dio ci perdoni! Ahimè! Che cosa dunque abbiamo fatto per attirarci sì grande sciagura? I coniugi Shelby non avevano alcun sospetto che orecchi estranei spiassero il loro colloquio. Un gabinetto che dava sul corridoio comunicava col loro appartamento. Allorché Elisa fu mandata dalla sua padrona a coricarsi, l’accesa sua fantasia le aveva suggerito l’idea di celarsi in quel gabinetto, e, messo l’orecchio contro la fessura d’un uscio, ella non aveva perduto una sillaba di quel colloquio. Quando ogni cosa ritornò in silenzio, ella uscì senza strepito, pallida, tremante, con le labbra serrate e con animo risoluto. Elisa non rassomigliava più alla timida e mite creatura ch’era stata conosciuta fino a quel giorno. Tacita e leggerissima percorse il corridoio, si fermò un istante dinanzi alla porta della padrona alzando le mani come per prendere il cielo a testimone, e rientrò furtivamente nella sua camera. Era una graziosa stanzetta del medesimo piano. Qui, la finestra esposta al sole, vicino alla quale poche ore prima la giovane meticcia lavorava cantando; là, alcuni libri guarnivano gli scaffali d’una piccola biblioteca sopra cui si vedevano altresì ninnoli, trastulli, e altri lavoretti di fantasia, regalucci delle feste di Natale. Entro al cassettone e nell’armadio stavano tutti i suoi vestiti; insomma quella era la sua modesta dimora, ed Elisa vi aveva passato ore felici. Ma là, su quel letto, dorme il suo figliolino. Le anella dei suoi capelli gli scendono sulle rotonde guance, la rosea bocca è socchiusa, le mani paffutelle riposano sulla coltre, e un sorriso, come raggio di sole, rischiara il volto angelico. — Povero Enrico! Povero figlio mio! Ti hanno venduto, ma tua madre ti salverà! — Non una lacrima cadde sopra il guanciale. In tali momenti il cuore non ne ha pur una da versare: il cuore non ha allora che sangue... e lo versa stilla a stilla, in silenzio. Elisa prese una matita e si pose a scrivere in fretta: “ O padrona, mia cara padrona! Non credetemi ingrata, non mi giudicate con troppa severità! Ho udito tutto ciò che voi e il mio padrone avete detto, e tento ora di salvare mio figlio. Ma voi, ah, no, voi non mi biasimerete! Così Dio vi benedica e vi ricompensi di tutte le vostre bontà.” Dopo aver piegato rapidamente questo biglietto e scrittovi l’indirizzo, Elisa trasse dal cassettone alcuni vestiti, li pose in una pezzuola che ella s’annodò fortemente alla vita, e tale è la tenera sollecitudine di una madre, che in quegli istanti di terrore ella pensò perfino a prender seco il balocco preferito del fanciulletto: un pappagallo di cartone dipinto a vivi colori, che fu destinato ai trastulli di Enrico quando si fosse destato. Elisa durò qualche fatica a svegliare il piccolo dormiente, ma dopo alcuni sforzi Enrichetto aprì gli occhi e si pose a baloccarsi con l’uccello dipinto, intanto che sua madre completava i preparativi del loro viaggio. — Dove vai, mamma? — domandò egli quando Elisa s’avvicinò per vestirlo. Sua madre fissò gli occhi ne’ suoi, guardandolo così seriamente, che Enrichetto capì subito come qualche cosa di straordinario avvenisse. — Zitto, Enrico; — diss’ella — parla più sommesso che puoi, se no, ci udirebbero. Un cattivo omaccio vuol portar via il mio Enrichetto lontano lontano dalla sua mamma, in un logaccio nero nero. Ma zitto, la mamma non vuole: essa gli metterà il suo cappello e il suo mantellino e fuggirà col suo caro bimbo; e così quel brutto omaccio non lo porterà via. — Mentre parlava, Elisa andava vestendo il fanciullo e, vestito che l’ebbe, lo prese tra le braccia, raccomandandogli il più assoluto silenzio; uscì poi con gran precauzione dalla porta della veranda. La notte era fredda e chiara, il cielo era seminato di stelle; la povera madre avviluppava strettamente il suo figliolino nello scialle, mentre, muto dallo spavento, egli le allacciava il collo con le braccia. Al loro appressarsi, il vecchio Bruno, grosso cane di Terranova, fece udire un sordo brontolio. Elisa lo chiamò a bassa voce, e il fedele animale, suo antico compagno di giuochi, si pose a seguirla dimenando la coda. Ben pareva ch’egli, nella sua mente di cane onesto, andasse fantasticando sul significato di quest’insolita passeggiata notturna, poiché mentre Elisa camminava innanzi pian piano, Bruno si fermava di quando in quando, e guardava, quasi volesse interrogarla, ora la giovane sua amica ed ora la casa; poi, rassicurato probabilmente dalle sue riflessioni, si rimetteva sulle tracce di quella. In pochi minuti giunsero alla capanna dello zio Tom, ed Elisa bussò leggermente ai vetri della finestra. L’adunanza religiosa e i canti devoti avevano durato fino a tardi. Siccome quando l’assemblea fu sciolta lo zio Tom rimase lì solo a meditare fino ad ora avanzata, accadde che in quel momento, benché fosse oltre la mezzanotte, né lo zio Tom né la sua degna metà dormivano ancora. — Dio buono, che c’è? — esclamò la zia Cloe, alzandosi all’improvviso e tirando la cortina in gran fretta. — Misericordia! Credo che sia Elisa. Su, indossa i tuoi abiti, vecchio mio, e presto. Oh, guarda, c’è anche Bruno, che raspa anch’esso all’uscio! In nome del cielo! Che c’è mai? Vado ad aprire. — E detto fatto la zia Cloe aperse la porta. Il lume che lo zio Tom aveva acceso in quel mentre nella camera rischiarò il viso pallido e gli occhi scuri e smarriti della fuggiasca. — Signore! Hai una cera che mi fai paura, Elisa! Stai male? Che t’è accaduto? — Io fuggo, zio Tom, zia Cloe, e porto via meco mio figlio: il nostro padrone lo ha venduto. — Venduto! — gridarono quelli, con un gesto di spavento. — Sì, venduto, — ripeté Elisa con voce ferma. — Questa sera, celata nel gabinetto attiguo alla camera della signora, ho udito il padrone dirle ch’egli aveva venduto il mio Enrico e voi, zio Tom, a un mercante di schiavi. Egli ha l’intenzione d’allontanarsi stamani, intanto che il mercante verrà qui a prendervi. — Durante questo discorso lo zio Tom era rimasto attonito e con le mani alzate. Dapprima gli parve un sogno: ma quando poi ebbe còlto il senso delle parole di Elisa, cadde sopra una seggiola e si prese il capo con le mani. — Il Signore abbia pietà di noi! — esclamò la zia Cloe. — Ma no, — ella soggiunse — non è possibile! Che ha fatto egli dunque per meritarsi che il padrone lo venda? — Nulla ha fatto; il padrone vorrebbe pure tenerlo seco; e la signora, oh, se l’aveste udita pregare e supplicare per voi! Ma egli le rispose che tutto era inutile, ch’egli si trovava a discrezione di quell’uomo, e che se non vi vendeva, zio Tom, sarebbe stato costretto a disfarsi di ogni cosa sua ed a sgombrare di qua. E la padrona, che angelo!... Se non è cristiana lei, non ve ne fu altra giammai. Vedo che faccio male abbandonandola: ma posso fare diversamente? Non disse ella stessa che un’anima vale più del mondo intero? Questo fanciullo ha pur esso un’anima, e se io lo cedessi loro, chi sa che cosa ne avverrebbe? Non sono colpevole io, no; ma se fossi tale, il Signore abbia pietà di me, perché non saprei fare altrimenti. — Ebbene, mio povero vecchio, — disse la zia Cloe — perché non te ne vai anche tu? Aspetterai che ti facciano scendere a seconda del fiume sin colà dove si ammazzano i negri sotto il peso del lavoro, o si fanno morir di fame?... Io vorrei cader morta piuttosto che andarvi. Oh, parti con Elisa! Non hai tu il passaporto per recarti dove ti pare e piace? Suvvia, presto: vado a preparare il tuo fagotto. — Tom alzò il capo, volse intorno lo sguardo triste ma pacato, e disse: — No, no, io non posso andare. Elisa parta: ne ha il diritto. Non sarò io quegli che vi si opponga: sarebbe per essa contro natura il rimaner qui. Ma tu hai udito ciò che ella ha detto. Mi vendano dunque, giacché bisogna, purché non si venda tutto il resto. Non sono io forte al pari di un altro per sopportare questa sventura? — soggiunse egli, mentre un sospiro o alcunché di somigliante ad un singhiozzo scoteva convulsamente il suo largo e rude petto. — Il padrone mi trovò sempre al mio posto, e sempre mi ci troverà. Non ho mai tradito la sua fiducia; mai la tradirò! È meglio ch’io vada via di qua. Non biasimiamo il nostro padrone, Cloe; egli avrà cura di te e dei... — Si voltò verso il rozzo tettuccio dove riposavano le piccole teste coi ricciuti e fitti capelli, ed il cuore gli si spezzò. Appoggiato il dorso alla seggiola, egli si coprì il viso con le larghe sue mani. Profondi singhiozzi, singhiozzi sordi e strazianti, fecero tremare la seggiola, e grosse lacrime scorrevano giù per le sue dita sopra il pavimento. Lacrime del tutto simili a quelle, o lettore, che voi potreste versare sul feretro del vostro primogenito; lacrime, o lettrice, quali a voi le farebbero spargere i gemiti del vostro bimbo agonizzante. Poiché, o lettore, egli era uomo, e voi non siete che un altro uomo; e voi, lettrice, benché tutta coperta d’oro o di seta, voi pure non siete che una donna, e gli affanni, i tormenti e gli affetti sono eguali per tutti a questo mondo. — Ora sappiate — disse Elisa nel punto di andarsene — che io vidi ieri sera mio marito: ma io non sapevo qual sorte mi aspettasse. Egli fu spinto agli estremi, e pensa di fuggire. Deh, fate di vederlo, narrategli la mia partenza, ditegli ch’io procurerò di giungere al Canada. E se non dovessi più rivederlo, — volse altrove la faccia e continuò con voce tremula — ditegli d’agir bene, affinché possiamo ritrovarci lassù nel regno dei cieli. Chiamate Bruno, — riprese — e chiudete poi l’uscio. Povera bestia! Non conviene che mi segua. — Si scambiarono fra loro alcune parole di addio e di benedizione; indi Elisa, strettasi al cuore il figlio attonito e spaventato, s’allontanò da quella dimora.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD