Chapter 1
Miss Black
SEGNI SOTTILI
The Little Black Chronicles
antologia
1. Il Jinn
Circa 960 d.C., Nord Africa
Quando Eno riuscì a raggiungere la strada, il sole quasi la abbagliò. Dopo aver passato due giorni chiusa nella casa di al-Badr Shan, il sole le faceva male agli occhi. Incespicò sul terreno polveroso, tenendosi la pancia con una mano.
Sentiva un dolore sordo, un dolore che non le faceva presagire nulla di buono. Qualcosa dentro di lei si era rotto e poteva cercare soltanto un buon posto per morire.
Le sarebbe piaciuto rivedere la distesa arancione della savana, ma sapeva che era impossibile. Era troppo lontana da casa.
Se anche ci fosse arrivata, poi, la sua famiglia non l’avrebbe di certo riaccolta. Ma non aveva importanza, perché la sua famiglia doveva essere morta o essere stata portata via come lei.
Il sangue le colava lento lungo le gambe, la faccia le faceva male e qualcosa si era rotto al suo interno, lo sapeva. La sua vita stava per finire, ma voleva che finisse lontano da quella casa.
Al-Badr Shan e i suoi amici avrebbero dormito ancora per qualche ora, se gli dei lo volevano. Gli dei o quell’altro dio, l’unico dio che le era stato imposto di amare.
Eno non amava nessuno. Era vuota e ferita e dentro di sé sentiva la morte che si stava avvicinando. Non ne aveva paura. Non ne era nemmeno dispiaciuta, non molto.
Lungo la strada c’erano poche persone, che si muovevano lente per il calore di mezzogiorno. Eno si coprì il viso con il velo meglio che poteva, sperando che nessuno facesse caso a una schiava sporca e pesta. Camminare era molto faticoso, per lei, ma voleva allontanarsi a sufficienza dalle case di quella città di cui non conosceva nulla, nemmeno il nome, per potersi stendere a terra e morire in pace.
Le sembrò che passassero delle ore. Ogni tanto si fermava per prendere fiato o anche semplicemente per appoggiarsi a un muro.
Finalmente si lasciò alle spalle l’ultima casa. Il sole sembrava avere mille mani che la spingevano verso terra. Attorno a lei, muretti bassi e qualche ulivo. Capì che non poteva andare neanche lì, a morire. Qualcuno l’avrebbe vista e l’avrebbe scacciata. O picchiata. O, peggio, riportata da al-Badr Shan. Costeggiò il muretto di pietre, cercando di allontanarsi ancora, ma le sue gambe cedettero. Si appoggiò pesantemente su un fianco, sperando che riposandosi per qualche minuto le forze le tornassero a sufficienza per proseguire.
Non perdeva più sangue, ma non era un buon segno. Il sangue si era rappreso, tutto qua. Era ancora rotta. Era ancora debole e scossa dai brividi. Stava ancora morendo.
Sentì dei passi sulla strada, due a due. Non i passi di un essere umano, ma i passi felpati di un dromedario. Restò immobile, sperando che nessuno facesse caso a lei.
Lasciatemi solo morire in pace, pensò. Non darò fastidio a nessuno.
Non servì a nulla.
I passi si fermarono ed Eno sentì il rumore del dromedario che si inginocchiava. Poi il rumore di altri passi, questa volta umani.
«Sono certo che darai fastidio a qualcuno, se muori sul suo muro perimetrale» disse una voce bassa e inespressiva.
Eno non si mosse. Non si chiese come faceva il proprietario di quella voce a conoscere i suoi pensieri. Erano cose che succedevano.
«Non vuoi essere curata?» parlò di nuovo quella persona.
Eno scosse appena la testa. Non c’è più niente da fare, pensò. Sento che sta arrivando. Prego gli dei che sia dolce, anche se lenta.
«Gli dei» ripeté la voce di quell’uomo invisibile. «Gli dei fanno quello che gli pare, sai. Guardami».
Faticosamente, Eno alzò la testa.
L’uomo era coperto da un grande djellabah nero, che doveva fargli molto caldo, e anche la shemagh che portava sul capo e attorno al viso era di stoffa pesante, quasi invernale. La cosa più impressionante, tuttavia, era il viso.
La sua pelle era candida, bianca come un fiore di Jasmine. Eno ebbe paura di quella pelle e di quegli occhi tra l’azzurro e il giallo. Anche tra la sua gente c’erano persone come lui. Dicevano che fossero fantasmi, o il segno di una maledizione. Dicevano che quegli occhi così chiari potessero scrutare l’eternità. Ma quell’uomo non era uno della sua gente, poteva dirlo dai suoi lineamenti. Era uno degli uomini rosa che aveva visto al Cairo, schiavi come lei.
«Hai più paura di me che della morte?» le chiese lo sconosciuto.
Eno annuì debolmente.
L’uomo non sembrò offeso dalla sua ammissione, ma non sembrò neanche lusingato. La guardò solo con espressione incuriosita.
«Ah, ti prenderò lo stesso» concluse lui. «La meraviglia, non la rassegnazione, è il vero dono degli dei. Dovrei saperlo, visto che sono uno di loro».
La sollevò prendendola dietro alle ginocchia e dietro alla schiena. La sollevò come se fosse fatta di papiro.
Poi salì sul dromedario e la bestia si alzò. Se la sistemò meglio contro la sella di pelle e legno, lasciando che i suoi piedi scalzi penzolassero sul fianco dell’animale.
Eno abbandonò la testa contro alla sua spalla, troppo debole per opporsi.
Aveva sete e tremava di freddo, nonostante il caldo intenso. Contemporaneamente, sudava.
L’uomo si portò una mano alla bocca e poi avvicinò le dita alle labbra di lei. «Succhia» le disse.
Eno non si mosse e sentì le sue dita aprirle facilmente la bocca e andarle a toccare la lingua. Emise un piccolo gemito di dolore, perché aveva la faccia gonfia e dolorante. Sentì qualcosa sulla lingua, qualche goccia di liquido salato. Sangue.
Eno cercò di sputarlo, disgustata, ma erano solo poche gocce e si persero nella sua bocca.
Subito dopo, dentro di lei iniziò a diffondersi una sensazione calda e gradevole. La lingua le formicolava e sentiva che quel formicolio si stava allargando a tutto il suo corpo.
Preoccupata, guardò gli occhi dell’uomo.
«Non ti sta uccidendo, ti sta guarendo» le disse lui. «Lentamente, perché ora non ne sopporteresti di più».
Non aggiunse altro ed Eno non fece domande. Si abbandonò al dondolio regolare del dromedario, con gli occhi chiusi.
Poteva anche essere davvero un dio, in fondo. Un dio di cui non aveva mai sentito parlare.
Oppure un demone del deserto, un jinn.
Si assopì mentre ancora ci stava pensando.
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Quando si risvegliò era da sola in sella. Era una delle selle dei nomadi del deserto, quindi le circondava la vita impedendole di cadere. Il dromedario continuava ad avanzare con il suo passo ondulante.
Eno si guardò intorno, confusa. Erano in una zona semi-desertica, su una pista per le carovane, e il sole doveva essere appena calato. L’albino camminava accanto al dromedario, tranquillo, guidandolo.
Quindi non era uno scherzo della sua mente: esisteva davvero.
In quello stesso momento si rese conto di stare molto meglio. Era ancora indolenzita e pesta, ma non aveva più l’impresione che sarebbe morta da un istante all’altro. Subito dopo questa realizzazione, arrivò la paura. Chi era quell’essere? Era davvero un jinn, uno spirito? Oppure era un normale essere umano, solo molto strano?
«Dipende» disse lui, continuando a camminare. «Ha importanza?».
«T-tu... senti i miei pensieri...» mormorò lei.
«Sì» ammise l’altro, semplicemente. «E sento che sei stanca, che hai fame e che hai paura».
Naturalmente aveva paura. Lui le aveva salvato la vita, questo era vero, ma adesso gli apparteneva e non aveva alcuna prova che la sua situazione fosse migliorata.
«Non mi interessa possederti» spiegò lui, in tono tranquillo. «Non desidero essere il tuo proprietario».
Eno sbatté lentamente le palpebre. Quindi poteva andarsene?
«Naturalmente puoi andartene. Siamo sulla pista costiera. Se continui sempre dritto, prima o poi arriverai ad Oea... mh... come si chiama ora? Vicino all’oasi di Giafàra».
«Non conosco queste terre» disse Eno.
L’altro sospirò appena. «Se torni indietro, arriverai al Cairo in cinque o sei giorni. Conosci quella città?».
Eno la conosceva. Era lì che l’avevano portata, dopo averla strappata alla sua gente. Lì l’avevano venduta a al-Badr Shan. Quanto tempo era passato? Non lo sapeva più. Quando l’avevano fatta prigioniera era diventata donna da dieci lune. Poi il tempo era passato... in modo strano. La marcia forzata, infinita... non lo sapeva più. Forse erano passate altre dieci lune, forse di più.
«Credo che tu abbia circa quindici anni» le disse l’albino.
Eno non sapeva che cosa significasse.
«Sai leggere?» le chiese lui.
Eno non sapeva bene che cosa significasse neanche quello. Era quando guardavi quei piccoli segni ricurvi e quelli ti parlavano?
«Sì, proprio così. Non è l’unico alfabeto che esiste, sai. E puoi imparare anche tu».
Eno non ne vedeva la ragione.
L’albino sorrise lievemente. «Neanch’io ne vedevo la ragione... oh, molto tempo fa. Ne riparleremo. Ora ci fermeremo per la notte. Ho del cibo per te. Dell’acqua. E finirò di curarti, se lo vuoi».
Eno annuì debolmente. Non capiva, ma non aveva la forza di chiedere spiegazioni.
L’albino guidò il dromedario fino a un solitario fico. La bestia si inginocchiò e lui la prese sotto alle ascelle, tirandola fuori dalla sella senza nessuno sforzo. La appoggiò a terra e le ginocchia di Eno cedettero.
«Sei ancora debole. Resta seduta».
Lo vide prendere la tenda arrotolata dietro alla sella del dromedario e spiegarla. Poi non lo vide più. O meglio... era ancora lì, e si muoveva molto, molto velocemente, come il vento del deserto. Forse era diventato il vento del deserto. La tenda fu montata davanti ai suoi occhi da quella potenza sovrannaturale e si innalzò per magia davanti a lei.
Eno iniziò a piangere a bassa voce.
Era un jinn, dunque. Così li chiamavano gli uomini del deserto che l’avevano fatta schiava. E se ne avevano paura loro, che erano forti e duri, non avrebbe dovuto averne paura anche lei?
L’uomo le ricomparve vicino e la sollevò delicatamente da terra, portandola dentro a quella tenda magica. Eno chiuse forte gli occhi, spaventata a morte.
«No, non capisci» mormorò l’uomo, posandola su una coperta. Doveva essere una coperta, comunque. Era troppo buio per vedere. «Non intendo farti del male».
Forse sentendo che l’oscurità le faceva paura, l’albino accese una piccola lucerna, la cui luce debole e giallastra sembrò restare bassa.
Si tolse la shemagh grigiastra che portava sulla testa e attorno al viso, rivelando dei lunghi capelli candidi, intrecciati in piccole trecce e tenuti fermi con delle mollette d’osso.
Aprì una bisaccia e la fece bere da una borraccia di pelle. Acqua tiepida che a Eno sembrò un nettare.
Restò lì, su quella coperta, appoggiata su un gomito, mentre lui la nutriva. Le diede datteri e fichi, e un po’ di carne essiccata. Le diede altra acqua.
Eno mangiò dalle sue mani, docile. Se anche era vero che la lasciava libera... dove avrebbe potuto andare?
«Posso toglierti il velo?» chiese lui.
Eno si strinse nelle spalle. Quando era tra la sua gente non portava nessun velo. Non portava nemmeno quei lunghi vestiti che portavano gli uomini che l’avevano fatta prigioniera.
L’uomo prese un pettine d’osso e iniziò a pettinarle i capelli neri e crespi, impastati di polvere e sudore. Le sue mani erano gentili e delicate. Le faceva ancora paura, ma meno di prima.
«Bene» disse lui.
Non sorrideva mai, pensò Eno, guardandone il viso. Un viso affilato, dal naso stretto e strano, come quello degli schiavi rosa.
«Sì, vengo dal nord. Dal vero nord, sai. Ma neanche lì passo inosservato». Le acconciò i capelli in modo che non si impolverassero troppo, intrecciandoli attorno alla sua testa con dita veloci ed esperte. «Adesso finirò di guarirti. Sto andando a ovest. Continuerò lungo la costa, fino in fondo. Poi attraverserò il mare e andrò nelle terre iberiche. Al-Andalus... ne hai sentito parlare?».
Eno scosse la testa.
«Mh, non importa. Se vuoi venire con me devi essere in forze».
Lei annuì.
«Non ti spaventare, ora».
L’albino si portò una mano alla bocca ed Eno vide i suoi denti. Zanne come quelle dei leoni. Si ritrasse leggermente. L’albino si punse la punta di un dito con i denti, facendone sgorgare qualche goccia di sangue. La ferita in quanto tale si richiuse immediatamente.
«Lecca» le disse, mettendole il dito davanti alla bocca.
Incerta, Eno aprì le labbra. L’albino le sfiorò il labbro inferiore, depositando lì quelle gocce di sangue. Eno le sentì sulla lingua, formicolanti.
Come già era successo in precedenza, il formicolio si diffuse a tutto il suo corpo, dandole una sensazione piacevole.
«Ancora» disse lui, tornando a mordersi.
Questa volta Eno leccò via il sangue dalle sue dita.
La sensazione piacevole aumentò. Il formicolio la invase completamente, percorrendola come un brivido.
Eno chiuse gli occhi. Non avrebbe voluto abbandonarsi a quella sensazione, ma era così gradevole...
«Ancora» ripeté la voce di lui e lei aprì la bocca.
Altro sangue salato e bruciante sulla lingua. La sensazione di piacere cresceva e cresceva.
Eno scoprì di sentirsi languida e stordita. I capezzoli le si erano induriti e aveva qualcosa di umido tra le cosce. Respirava più velocemente e aveva voglia di qualcosa che non sapeva bene che cosa fosse.