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Non avevo buone intenzioni, nei confronti di Darien Ashtiaend. Oh, no, le mie intenzioni erano pessime. Volevo rubargli il segreto della sua longevità e delle sue ricchezze. O, in alternativa, volevo rubargli tutti i soldi, se non fossi riuscita a fare altro.
Ma cominciamo con le presentazioni.
Mi chiamo Lesdra Lawerban, ma tutti mi chiamano Les. Sarei una maga, se avessi studiato decentemente, ma non ho mai avuto i soldi per permettermi un maestro, né trovato un maestro che volesse istruirmi per pura bontà d’animo. Crescendo, ne ho trovato un certo numero disposto a istruirmi in cambio di... certi servizi, ma capite da soli che un mago disposto a scendere così in basso da barattare la sua arte per un po’ di, ehm, intrattenimento privato, non è mai quel che si suol dire un luminare nel suo campo. Anche perché i luminari hanno tutte le donne che vogliono, è un fatto assodato.
In ogni caso, in quel modo qualcosa avevo imparato, quindi fatevi pure i vostri conti. Devo aggiungere che nessuno dei miei “maestri” era affascinante. O giovane. O pulito.
Insomma, avevo imparato quel che potevo dai peggiori pervertiti in circolazione.
Ormai quasi venticinquenne, avevo rinunciato a un’istruzione formale e mi ero specializzata in quelle che potreste tranquillamente definire piccole truffe. Questo mi imponeva di cambiare città piuttosto di frequente e fu così che raccolsi una gran quantità di informazioni su Darien Ashtiaend.
Ashtiaend era il tipo di mago che mai avrei potuto avere per maestro, alla lettera. Sul suo conto c’erano più voci che fatti, ma solo i fatti verificati sono in grado di farvi capire che tipo fosse.
Quando su Aerte si abbatté la carestia, il re di quelle terre decise di investire un bel gruzzolo per la sua gente – già questo aveva del miracoloso – e comprarsi i servizi di Ashtiaend.
Che dalla sera alla mattina fece germogliare da capo tutti i campi del regno. Si mormora che le mele, quell’anno, ti si sciogliessero in bocca e ti facessero formicolare piacevolmente la pelle.
Tempo dopo, a Retraen si palesò un drago. Uno di quei grossi draghi squamosi che ormai sono quasi una rarità. La città ne fu devastata più volte e ben sei cavalieri persero la vita cercando di uccidere quella bestiaccia. Alla fine i nobili del regno misero una nuova tassa e chiamarono Ashtiaend.
Che arrivò a cavallo e se ne andò tranquillamente poco dopo sulla groppa del drago.
A Nemoe Ashtiaend salvò l’unica figlia del re da una maledizione letale (e, pare, fu ricompensato dalla giovane, oltre che da suo padre), a Erd Blith uccise un gigante con un singolo incantesimo che lo trasformò in pietra, a Ossenthen prosciugò un intero lago in modo da farvi entrare un’orda di orchi, per poi riempirlo di nuovo e annegarli tutti.
Questo negli ultimi vent’anni soltanto, ma le storie continuavano e continuavano.
Si diceva – e qua entriamo nel campo delle voci – che Ashtiaend avesse più di due secoli, anche se il suo aspetto era sempre lo stesso. E, per di più, non sgradevole.
Si diceva che fosse così versato nelle arti magiche che persino gli elfi ne rispettassero il potere. E noi tutti sappiamo quanto siano snob quei maledetti. Ma si diceva anche che Ashtiaend stesso avesse del sangue elfico. Non molto comunque, un ottavo o anche meno, e non sufficiente a spiegare la sua longevità.
Per spiegare quella, e le sue ricchezze apparentemente enormi, si diceva che fosse riuscito là dove ogni altro mago aveva fallito; che avesse cioè creato la famosa pietra filosofale che rende immortali e tramuta qualunque metallo in oro.
Quello che pensavo io era che fosse in circolazione da così tanto tempo da aver semplicemente accumulato il suo tesoro, un’avida parcella dopo l’altra.
Avrei proprio voluto mettere le mani sul segreto della sua longevità o, come dicevo, almeno sui suoi quattrini.
Sapevo che non sarebbe stato facile. No, anzi, sapevo che sarebbe stato un dannato problema. Per vostra informazione i dannati problemi non mi hanno mai dissuasa. Mi fanno solo venire voglia di provarci più forte.
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Ashtiaend viveva in una torre al confine con le Terre Fatate. Oltre quel confine, per la precisione, motivo per cui gli umani non potevano raggiungerla molto facilmente. I viaggiatori si perdevano nella selva che la circondava e finivano per vagarvi per giorni e settimane, prima di trovare provvidenzialmente un sentiero che li avrebbe portati fuori da essa.
Al limitare della selva, subito aldiqua del confine, c’era il cottage di quello che tutti consideravano Il Custode. Il ruolo passava di padre in figlio da qualche generazione, così si diceva. Chiunque volesse parlare con Ashtiaend doveva lasciare un messaggio al Custode, che l’avrebbe recapitato al più presto al suo signore.
Che cosa avvenisse nella torre non lo sapeva nessuno, ma è sbagliato supporre che nessuno vi entrasse mai. Al contrario, Ashtiaend apriva le sue porte una volta ogni cinque anni, per offrire una cena sontuosa ai principali maghi dei Regni e ad altri ospiti illustri. In quelle occasioni una larga strada appariva in mezzo alla selva, attraversandola completamente. Le carrozze potevano percorrerla in tutta sicurezza, purché non si allontanassero mai dal suo tracciato (c’erano stati degli... incidenti).
Ashtiaend si dimostrava un padrone di casa squisito, attento a ognuno dei suoi invitati, che talvolta erano... piuttosto bizzarri. Invitava maghi bianchi e oscuri, re sanguinari e sante eremite, goblin, elfi e spettri dall’oltretomba, che per una notte cenavano fianco a fianco, intrattenendolo e venendone intrattenuti.
Alla fine della serata gli ospiti se ne andavano e la strada scompariva.
Era precisamente a una di queste serate che io intendevo partecipare. Con l’unico problema che non avevo un invito.
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La mia idea più meno era questa: farmi caricare da qualcuno che era invitato e infrascarmi da qualche parte fin dopo che la strada fosse scomparsa di nuovo. A quel punto contavo, con le mie cospicue doti di persuasione, di poter rimanere lì per un po’.
Ora, detta così è semplice, no? Ma realizzare questo semplice piano richiedeva una notevole precisione, una notevole perspicacia e anche un notevole azzardo. Perché le cose potevano andare male. Potevano andare molto male per un bel po’ di motivi.
Per prima cosa la notte della festa lanciai uno dei pochi incantesimi che padroneggiavo davvero: quello dell’inconsistenza.
Non è proprio come essere invisibili (quello è molto più complicato), quanto... irrilevanti. Quando hai addosso un incanto di inconsistenza la gente non fa caso a te. Ci sei, ma è come se non ci fossi. Passi inosservato.
Per una truffatrice come me era uno strumento molto utile.
Mi resi inconsistente e passai davanti a quello che doveva essere il cottage del Custode. Era una bella villetta di mattoncini rossi, con una parte della facciata coperta di edera e il giardino ben curato. Era una vecchia casa, aveva almeno due secoli, ma era ben tenuta.
Proprio sull’orlo della selva.
La superai senza che nessuno facesse caso a me e aspettai che comparisse la strada.
Fu molto strano. Non comparve piano-piano, né di colpo. Semplicemente, a un certo punto mi accorsi che era là, una vecchia strada sterrata, ma ben tenuta, che si inoltrava nel bosco. Come se la strada stessa fosse stata incantata per essere inconsistente e a un certo punto l’incanto fosse stato sollevato. Forse era proprio così.
Ne percorsi un piccolo tratto, prima di appostarmi subito dietro a un albero. Non oltre, perché sapevo che non era bene uscire dal tracciato e non volevo perdermi nella selva.
Vi chiederete: perché non continuare a camminare lungo la strada fino a raggiungere la torre di Ashtiaend?
Risposta: davvero pensate che potesse essere così facile?
Ashtiaend era il più grande mago del mondo, così dicevano. Il mio trucchetto poteva fregare il Custode, ma di certo non avrebbe fregato la sua strada. E c’erano fin troppe storie sulle cose sgradevoli che potevano succederti se cercavi di sgattaiolare in casa sua.
No, il mio piano non prevedeva l’uso ulteriore della magia, a quel punto. Sollevai l’incanto di inconsistenza. Mi strappai la gonna in modo da mostrare buona parte delle gambe e la camicetta fino a restare pressoché nuda. Aspettai. L’aria era fredda, ma un po’ di brividi mi avrebbero solo aiutata nel mio piano.
Le carrozze degli ospiti iniziarono ad arrivare poco dopo il tramonto. Carrozze dalle fogge stravaganti o soltanto lussuose. Carrozze di maghi, re, esseri fatati, predoni, assassini sanguinari, cortigiane leggendarie e geni delle acque.
Lasciai passare un re con la sua scorta, non mi interessava. I maghi non facevano al caso mio: erano tronfi professoroni, sensibili solo al potere. Un assassino mi avrebbe soltanto uccisa, quindi lo lasciai passare.
Fu davanti al carro dei famosi Briganti Neri che mi lanciai.
Erano predoni che avevano saccheggiato i Regni per anni, con una ferocia e una violenza incredibili. Il loro nome spargeva il terrore ovunque.
Troverete forse strano che il grande Ashtiaend invitasse al suo desco dei pendagli da forca come loro, ma credo che quello che il mago stava cercando fosse l’insolito, la varietà.
Presi un bel respiro e mi gettai davanti al loro carro, supplicandoli di aiutarmi. Piangevo disperata, come se fossi appena fuggita, e a stento, a un’aggressione.
«Belle tettine» commento uno, sputando il legnetto che stava masticando.
«Belle gambe» commentò un altro, scendendo pesantemente dal carro.
«Vediamo com’è il resto» decise un terzo, estraendo la sciabola.
Ora, non crediate che non l’avessi previsto. L’avevo previsto. Era proprio quello che volevo, in effetti, ma me la feci sotto dalla paura lo stesso.
Quindi quando gridai e cercai di scappare di nuovo vi assicuro che fui completamente realistica, perché vedendo quei ceffi avevo deciso all’improvviso che di Ashtiaend non me ne fregava niente e preferivo restare in vita.
Il mio estremo tentativo di fuga non ebbe successo. Uno di loro mi acchiappò facilmente e altrettanto facilmente mi atterrò. Era pesante. Puzzava. Il suo alito era ripugnante. Le sue mani mi palparono fameliche. Strizzai gli occhi, continuando a singhiozzare e a implorare pietà.
Prima, prima di gettarmi in quell’impresa, avevo previsto tutto, ma in quel momento ero terrorizzata e basta.
Avevo previsto che fossero come minimo in cinque. Era un requisito fondamentale, in effetti. Cinque non è un buon numero, se devi violentare a turno una donna prima di sgozzarla. Poniamo anche che a uno non interessi, ne restano quattro. Gente che stupra e uccide per indole e per mestiere, che quindi non si lascia prendere dall’euforia del momento. No, gente che sa come trarre il meglio da uno stupro di gruppo, che sa come valorizzarlo, quasi. Gente, insomma, che se la sarebbe presa con calma.
Ma il fatto era che... non avevano tempo. La strada era aperta, ma non lo sarebbe rimasta per sempre e loro ovviamente volevano vedere il grande Ashtiaend. Ci sarebbe stato forse tempo per uno di loro.
Certo, poteva succedere. A mente fredda avevo deciso che avrei potuto sopportarne uno, se proprio dovevo. Dopo averli visti avevo cambiato idea, credetemi, ma a quel punto non avevo più scelta. Sperai solo che il mio piano funzionasse.
Sperai, cioè, che non riuscissero a mettersi d’accordo su chi avrebbe avuto il privilegio di infiocinarmi mentre gli altri restavano a bocca asciutta. Li sentii litigare per qualche minuto. Mentre litigavano continuavano a strapparmi pezzi di abbigliamento, finché non restai del tutto nuda.
Pensai che alla fine avrebbero rinunciato persino al banchetto... erano davvero carichi, credetemi. Ma erano anche dei professionisti della violenza. Sapevano capitalizzare. Mi legarono e mi buttarono nel retro del carro sotto a una coperta, con l’intenzione di tenermi per dopo.
A quel punto ero dove volevo essere, per quanto nuda e terrorizzata. Aspettai. Aspettai che il carro avesse percorso un bel pezzo di strada prima di mettermi di nuovo a gridare aiuto.
Uno dei Briganti mi colpì la tempia con l’elsa della spada e il mondo cessò di esitere.
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Quando mi svegliai la testa mi pulsava. All’inizio non capii dove fossi. Avevo freddo, ero nuda, legata ed era tutto buio. Lentamente capii che ero ancora nel carro, sotto alla coperta.
Sentivo i rumori lontani di una festa. Stoviglie che cozzavano, bicchieri che tintinnavano, grida e risate.
Cercai di allargare le corde, ma quei bastardi mi avevano legata davvero bene, con i polsi dietro alla schiena e le caviglie bloccate tra loro.
Mi vidi costretta a strisciare. Considerando lo stato di pulizia del loro carro, fidatevi, non fu gradevole. Mi graffiai e diverse schegge di legno mi si infilarono sotto alla pelle.
Alla fine riuscii a rotolare giù dal pianale, cadendo sul terreno. Che era duro e sassoso, per la cronaca.
In qualche modo riuscii a tirarmi in piedi. Non potevo camminare e il mio equilibrio non funzionava molto bene. Provai a saltellare e finii solo per cadere in un cespuglio.
Molto lentamente, un centimetro per volta, strisciai via. Nel farlo mi graffiai ulteriormente e ormai non contavo più i punti dove sentivo dolore, ma, insomma, ce l’avevo quasi fatta.
Strisciai e strisciai. Dovevo allontanarmi a sufficienza da rendere impossibile ai Briganti ritrovarmi, ma non abbastanza da finire nella selva.
Non osavo lanciare un incanto di inconsistenza, ma poi ci pensai meglio. In fondo a quella festa c’erano diversi maghi, nessuno avrebbe fatto caso a un piccolo incanto lanciato in un angolo, giusto?
Be’, lo speravo, perché la sola idea che i Briganti mi ritrovassero bastava a farmi preferire più o meno qualsiasi altra alternativa.
Mi trovai un cespuglio bello folto (non difficile dalla mia posizione livello-terreno) e mi resi inconsistente.
Poi, completamente esausta, mi addormentai.