2.

2586 Words
2. Sbattei le palpebre, ancora abbacinata. Non appena ripresi a vedere decentemente mi resi conto che non ero più nel porto di Montreal. Ero in una stretta via costeggiata da case antiche, di pietra, una via affollata di gente che spingeva in una precisa direzione. La folla mi sospinse avanti che lo volessi o meno, senza lasciarmi il tempo di fare ipotesi su che cosa potesse essere successo. Non ho mai provato una sensazione più strana in vita mia. All’improvviso tutti i miei punti di riferimento erano stati spazzati via. Così, un distratto colpo di coda del Fato, e nulla di quanto conoscevo esisteva più. Pensai di essere svenuta. Era la cosa più logica. Pensai che la luce accecante che avevo visto fosse stata quella di un’esplosione. E ora ero svenuta. O in coma. O forse persino morta. Nulla di quello che avevo attorno poteva essere reale. Al di là del cambiamento di luogo... tutto mi era alieno. I colori, i rumori, le facce delle persone, l’odore dell’aria, il modo in cui era vestita la gente. Stavo sognando, non c’erano altre spiegazioni. Un sogno, un delirio, una visione... non la realtà. Ero... in una specie di ricostruzione storica. Le persone che mi spingevano avanti lungo quella stretta via erano conciate come i Padri Pellegrini. Cioè, no, i loro vestiti erano ancora più strani. Sembravano usciti dal Signore degli Anelli. Donne con delle cuffiette in testa, uomini dalle casacche strette in vita da cinture... la foggia delle acconciature, le bocche sdentate e gli aliti mefitici... e la lingua, la lingua che parlava quella gente non aveva alcun senso. Riuscivo a distinguere solo qualche parola. Era inglese? No, assomigliava di più al francese, ma era un francese stranissimo. Sembrava storpiato, mescolato a qualcos’altro... poteva forse essere esperanto? Non credevo. Era una lingua davvero curiosa, e non ero neppure certa che fosse una sola. Forse erano due o tre idiomi diversi. Era il sogno più assurdo che avessi mai fatto. La gente mi spinse avanti, premendo da tutte le parti. Era chiaro che quelle persone stavano andando da qualche parte, forse a uno spettacolo di qualche tipo. Erano frenetici. Sembravano fuori di sé dall’eccitazione. Persone di tutte le estrazioni (ma che ne sapevo io?) si accalcavano e spintonavano. Alla fine sbucai in una piazza. Tutto attorno, basse costruzioni di legno e pietra. Tetti appuntiti. Quella che sembrava una chiesa antica. Ma ovviamente quello che attirava l’attenzione era al centro della piazza. Ero più alta di molti dei presenti, così avevo una buona visuale, anche se ero distante. Sul momento non capii che cosa fosse. Un palco? Un palco di legno, o meglio di legna... O meglio, una pira. Una pira funebre, come quella dei vichinghi, ma... La donna in cima alla pira era viva. Una giovane vestita di bianco, con i capelli arruffati, gli occhi segnati... Solo allora capii. Era un rogo e quella giovane donna stava per essere bruciata viva. Era il sogno più spaventoso che avessi mai fatto. Perché... non poteva essere vero, giusto? Non bruciavamo più la gente sul rogo, da secoli. Da secoli. La donna parlava. Non sentivo le sue parole. Dalla legna iniziò a levarsi del fumo. La folla rumoreggiava, i cavalli nitrivano. Perché c’erano dei cavalli? Che cosa ci facevano dei cavalli in mezzo a una città? Il fumo era sempre più denso, si alzava in verticale dal rogo. La gente vociava e la donna... mio Dio, la donna gridava, gridava in modo orribile. Capivo che gridava “Gesù!”, poi solo il suo dolore. La sua agonia avveniva a diverse decine di metri da me, ma mi sembrava di esserle accanto. La sua voce sovrastava ogni altro rumore. Iniziai a retrocedere. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quello spettacolo disumano. Era l’incubo più orribile che avessi mai fatto. Nulla di quel che vedevo e sentivo poteva essere reale. Ero incosciente, forse in coma, forse persino morta... quello che mi circondava non era vero. Ma la giovane donna gridava forte, grida acute di dolore indicibile, odore acre di fumo. E poi... Una luce. Una luce accecante simile a quella che avevo già osservato al porto. Per un istante mi illusi che l’incubo stesse finendo, ma non ero io quella che la luce stava inghiottendo. Era la giovane donna sul rogo. La luce era una colonna, ora, un raggio verticale e brillante. La donna svaniva in esso. Terrorizzata, mi voltai e iniziai a correre, spintonando le persone dai visi attoniti, scavalcando chi si era gettato a terra per pregare. Mi feci largo in quella folla lurida, i gomiti come armi appuntite. Ripercorsi al contrario la via da cui ero sbucata, poi svoltai in una traversa, cercando di allontanarmi dalla calca. Dove ero finita? Che razza di visione era quella? E specialmente... perché non mi svegliavo? Tutto era così... reale. L’aria sembrava aria, se toccavo qualcosa sembrava ben solido. Iniziavo a temere che quello non fosse un incubo, dopo tutto. Ma non era possibile, per cui pensai che fosse uno di quei sogni così reali che al risveglio credevi che fossero successi davvero. Oppure ero impazzita e quello era un delirio vividissimo, il mio cervello che ingannava se stesso. Percorsi il vicolo che avevo preso per allontanarmi dalla folla. Era quasi deserto e per la prima volta potei osservare il terreno. Sembrava lastricato solo in parte, mentre molte aree erano decisamente melmose. L’odore non era un granché – a essere gentili. Credo che da qualche parte ci fosse della merda di cavallo o roba del genere. Proseguii fino a uno slargo. Davanti a me vidi un palazzo più alto, più imponente, di mattoncini scuri, dalle piccole finestre e dalla forma... elaborata, non saprei come altro definirla. Non era il classico parallelepipedo, insomma. Era più tipo una chiesa, ma senza essere una chiesa. Costeggiai quell’edificio, il cui lato lungo misurava quasi un centinaio di metri, finché non sentii delle voci. Voci che gridavano cose e un curioso rumore di metallo. Il mio istinto capì di che cosa si trattava prima che il mio cervello lo accettasse. Poi lo vidi anche con i miei occhi. +++ C’era un duello in corso. No, “duello” non rende l’idea, sembra quasi una cosa interessante. Della gente si stava ammazzando a colpi di spada, in una rientranza che poi era una via d’accesso secondaria a quel grande palazzo. Tre uomini erano già a terra morti, uno agonizzava, lamentandosi ad alta voce, con la pancia sbuzzata e piena di sangue. Un altro, ferito gravemente, cercava di trascinarsi verso la galleria che portava a un cortile interno o qualcosa del genere. Non avevo esattamente il tempo per mettermi a fare ipotesi sull’architettura di quel posto, ma era un passaggio e sembrava ragionevole supporre che portasse a un’altra zona aperta, visto che era fatto per lasciar passare i cavalli. C’erano anche dei cavalli, in effetti. Sul momento non ci feci molto caso, ma c’erano tre cavalli bardati (o come si dice), che nitrivano nervosamente, abbandonati a se stessi. Quando arrivai le uniche tre persone ancora in piedi e illese stavano provando a scannarsi a colpi di spada. Spade larghe e lunghe tipo “Shannara”, per intenderci, non simpatici, piccoli fioretti come quelli di “Lady Oscar”. Li guardai con gli occhi fuori dalle orbite e purtroppo successe quasi subito una cosa piuttosto negativa: uno di quei tizi si accorse di me. Gridò qualcosa come “ce n’è un altro!”. Il significato sembrava quello. Si lanciò su di me con lo spadone alzato. «Fermo, deficiente!» dissi io, in tono autoritario. Feci per prendere la pistola, ma la fondina era vuota. Merda. Schivai il suo attacco e usai il suo stesso impeto per farlo volare in aria, afferrandolo per un braccio. Sì, sono una judoka. Poi lo immobilizzai a terra premendogli un ginocchio sulla schiena e gli torsi il braccio, costringendolo a mollare l’arma. Lui si lamentò guaendo come un cagnolino. Mentre mi occupavo di quel tizio, il combattimento, alle mie spalle, non era cessato. Sentii un forte grido e un gemito, quindi mi voltai per controllare che cavolo stesse succedendo. Uno dei due (quello che prima li aveva entrambi contro) aveva scannato l’altro. Con “scannato” intendo che gli aveva piantato la spada di taglio tra collo e spalla e la lama era affondata per un bel pezzo. Il suo avversario era caduto in ginocchio e nulla gli avrebbe impedito di dissanguarsi a morte, ma neppure il “vincitore” era messo tanto bene. Il suo avversario doveva essere riuscito a toccarlo su un fianco, perché la sua casacca era stracciata e insanguinata, del sangue gli colava sulla calzamaglia aderente e lui si teneva una mano aperta sulla ferita. A parte questo, la cosa non sembrava turbarlo eccessivamente. Si avvicinò e mi disse “grazie” in una specie di francese. Sollevò la spada come se volesse piantarla nel corpo del tizio che continuavo a tenere bloccato. «Ehi, non puoi ucciderlo!» protestai io. Lo dissi in francese, come avevo parlato in francese anche prima. Per qualche motivo mi sembrava la lingua più adatta alle circostanze. Il sopravvissuto, lì, aggrottò la fronte seccato, ma poi decise di accontentarmi. Si limitò a dare al mio prigioniero una sonora spadata di piatto sulla testa. «Devo andarmene in fretta, e credo anche voi, se non volete essere qualcosa qualcosa» disse. O meglio, fu più o meno quello che capii. «Prendete un cavallo». Ora, questa è una riformulazione, è ovvio. Le parole erano tutte un po’ sbagliate, ma per lo più capivo il senso del discorso. Era una specie di francese, un francese in cui la parola “cavallo” assomigliava a “caballum”. Potevo capire il senso di quello che diceva, almeno in parte. E potevo prendere un cavallo, perché no?, ma poi che cosa avrei dovuto... Il tizio saltò in sella e spronò l’animale, facendolo voltare dalla mia parte. Prese per le redini un altro di quei... colossali, spaventosi, barcollanti animali, ora che dedicavo loro un po’ più di attenzione... e lo tirò dalla mia parte. «Non sapete cavalcare? Non avete una spada?». La risposta era la stessa a entrambe le domande, ma almeno uno di questi due fatti poteva cambiare facilmente. Presi la spada del tizio tramortito. Pesava un’enormità. Poi mi avvicinai al cavallo. «Ehm, come...» «Guardate che ora arrivano altri inglesi» disse il tizio, spazientito. Mi tirò su per un braccio e io scavalcai goffamente la sella, per poi aggrapparmi con tutte le mie forze a una specie di maniglia che aveva sul davanti. Il mio nuovo amico diede uno schiaffo sul culo al cavallo su cui ero e quello, purtroppo, iniziò a sgambettare fin troppo in fretta. «Prendete le qualcosa, dannazione!» mi sgridò il tizio. «Eh?». Poi ci arrivai e presi le briglie. Ora che le avevo in una mano (con l’altra continuavo a tenermi alla sella) non cambiava molto. Per inciso, Tal dei Tali, lì, continuava a sanguinare allegramente, ma non sembrava che gli importasse. Forse era una ferita molto superficiale, di quelle che perdono molto sangue ma non sono gravi. Tutto quello che fece al riguardo fu avvolgersi meglio nel mantello, in modo che non si vedesse che era ferito. «Qualcosa!» mi gridò, in tono di comando. Sospirai. «Che cosa avete detto?». Mi indicò una specie di lercia copertina che... Sospirai di nuovo. Cercai di aprire quella copertina senza cadere di faccia giù dal caballum, lì, e capii che era un mantello. In effetti dovevo avere un aspetto un po’ eccentrico, con la mia giacca di goretex leggero. Mi misi quell’affare sulle spalle, quasi ruzzolando giù dalla sella nel farlo, e cercai di coprirmi il più possibile. Il cappuccio, però, non me lo misi: sembrava lurido. A quel punto spuntavano giusto i miei jeans aderenti e i miei stivali. Non andavano bene, capite, ma non saltavano così all’occhio. «Ai qualcosa lasciate parlare me» mi ordinò il tizio, mentre procedevamo al passo lungo una strada. “Al passo” era già un filo troppo veloce per me, ma comunque potevo resistere. E il mio cavallo puzzava di cavallo, ma aveva anche un muso molto carino. Attorno a noi... niente, la solita allucinazione. Per essere un’allucinazione, un sogno o un delirio era piuttosto coerente, dovevo ammetterlo, ma che altro poteva essere? Eravamo in un borgo medioevale e sulla piazza avevano appena provato a bruciare una tizia. La gente che affollava le strade sembrava eccitata, agitata da qualcosa. Parlavano in una lingua ancora più incomprensibile di quella del mio amico, ma comunque in parte comprensibile. Antico francese, presumevo. Lingua d’oc o quel che era. O forse Lingua d’oïl. Per me non faceva una gran differenza. Arrivammo alle mura. Era ovvio che quel posto avesse delle mura. Anche quello era coerente con l’ambientazione. Per essere un parto della mia fantasia era tutto molto realistico. Non c’erano gigantesche farfalle colorate in cielo o colori psichedelici. Il mio amico si diresse verso il varco, che era sorvegliato da degli uomini armati. Controllavano chi entrava con molta attenzione, ma non sembravano troppo interessati a chi usciva. Il mio accompagnatore disse qualcosa e rivolse un cenno educato a una delle guardie, io mi limitai al cenno educato. Quello mi guardò con curiosità, ma non fece domande. Era chiaro che aveva altre cose di cui occuparsi. Ci trovammo... fuori. Fuori, su una specie di piazza sterrata dove molte persone aspettavano in coda di entrare in città. La maggior parte era a piedi, ma c’era anche qualche carro trainato da grossi asini (o forse erano muli). Le persone a cavallo, invece, saltavano la fila come nulla fosse, tutti impettiti, e nessuno sembrava trovarci nulla di strano. Forse erano “in lista” o qualcosa di simile. Osai dare un colpetto sui fianchi della mia cavalcatura. Ne parve seccata, ma fece una specie di corsetta in avanti, affiancandosi al cavallo del mio compagno. «Scusate...» dissi, cercando di usare il mio francese più elegante, «...voi avete un nome?». Mi lanciò un’occhiata infastidita. «Non lo hanno tutti?». Bene. Ottimo. L’amichevolezza personificata. Per non parlare del fatto che aveva sbuzzato un poveraccio davanti ai miei occhi e senza un moto di turbamento. Anche se il “poveraccio” stava cercando di ucciderlo, questo andava detto a sua discolpa. «Io mi chiamo Audrey Clark, comunque» ci riprovai. Anche se era solo un sogno, mi sembrava naturale voler conoscere il nome del tizio con cui stavo scappando da una città. Già che c’ero, aggiunsi: «Che città era, quella?». Mi lanciò un’occhiata confusa. Non aveva un bell’aspetto, per inciso. Era pallido e sudaticcio. «Rouen. Come fate a non saperlo?». Feci un sorrisetto imbarazzato. «Quando sono arrivata ero sbronza». «E che nome è Audrey Clark? Sembra inglese». «Non sono inglese» dissi. Non era mentire: sono canadese. «Ora posso sapere come vi chiamate?». «Parlate strano. Da dove venite?». Bene, bene. Se dovevamo giocare a quel gioco... chi era la poliziotta? «Anche voi parlate strano, alle mie orecchie. Da dove venite voi, quindi?». Socchiuse gli occhi. Sospettoso. «Non so se ho voglia di rispondervi, messere». “Messere”. Ottimo. No, davvero, era tutto perfetto. Ero caduta in un fottuto film in costume. «Sentite... il posto da cui vengo non vi direbbe nulla, sul serio, ma non ho cattive intenzioni. Vi ho salvato da quei tizi, ricordate? Avrei anche potuto scappare». Il suo sguardo si addolcì un po’. Fece un smorfia di dolore. Mi resi conto che continuava a tenere una mano sulla ferita, sotto al mantello. «Vero, avreste potuto scappare. Ma non sapere chi siete mi innervosisce. Non capire le vostre motivazioni». «Dovete curarvi» dissi io. Non ce la facevo più a vederlo così. Lui si puntellò sulla sella posando la mano sul quella specie di maniglia. «Avete ragione, ma non posso farlo qua». La strada che stavamo percorrendo era fiancheggiata da campi dall’aspetto un po’ stentato. Ogni tanto si vedeva una casupola. La via era piuttosto trafficata, tanto che incontravamo altri viandanti ogni pochi minuti, anche se per lo più nella direzione opposta. «Possiamo andare in una fattoria. Chiedere aiuto». «Una che cosa?». «Una di quelle case» dissi, indicandole. Lui socchiuse di nuovo gli occhi. Sospettoso. «Siamo in territorio inglese» disse, come se la cosa spiegasse tutto. Mi guardai ancora attorno. «Veramente sembra la Francia. Rouen è in Francia». «Shh! È ovvio che lo penso anch’io, ma non siate così stupido!». Sospirai. «Okay... be’, comunque dobbiamo fermarci da qualche parte. Curarvi, forse ricucirvi. Anche se non saprei come, ma in ogni caso non potete continuare a sanguinare senza fare nulla». Lui chiuse gli occhi. Quasi perse l’equilibrio. «Avete ragione» ammise. «Andiamo verso il fiume».
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