Capitolo IV

1069 Words
Capitolo IV Il parà Pisa, Aeroporto Militare, giugno 1983. Seduto a gambe incrociate, imbracato a un ombrello di tela che avrebbe dovuto garantirgli il culo una volta fuori dall’aereo, Gerry guardava la fortezza volante muoversi sulla pista. Non aveva mai visto un aereo grosso come quello. Non a caso si chiamava Hercules, come il mitico semidio del Pantheon greco, e poteva alloggiare nella carlinga più di novanta paracadutisti armati fino ai denti. Per la verità su di un aereo non ci era mai salito, tantomeno per saltarvi in volo. Almeno fino a qualche giorno prima, quando era saltato da un G 222. L’esperienza stava per ripetersi. Guardava il sole torrido che martellava la fila di elmetti che coprivano altrettante teste. Probabilmente anche quelle logorroiche attese sulla pista dell’aeroporto contribuivano alla fama di “teste calde” conferita in genere ai paracadutisti. A questa considerazione ne seguiva un’altra: che i più calienti di tutti dovessero essere allora le teste di cuoio che, come raccontava Gerry, venivano sottoposte alla terrificante prova del mocassino, di cuoio appunto, calzato in testa sotto un sole rovente, per fregiarsi appunto del loro nome. Una cazzata che Gerry raccontava quando qualcuno gli chiedeva notizie sulle forze speciali, parà e affini. A quel punto non aveva più freni inibitori; la descrizione di prove disumane tra cui le quotidiane nuotate nella piscina della caserma Gamerra, ospitante sabbie mobili e alligatori, era il suo forte. Gerry si fumava una Marlboro per sedare l’adrenalina nascente. Ripensò a come fosse finito a rosolare su quella pista di asfalto in mezzo al nulla. Colpa di un’alzata di mano ai fatidici “tre giorni”, le selezioni per il servizio obbligatorio di leva. Quando avevano domandato chi volesse entrare nei parà, lui si era fatto avanti. Come a scuola. Girolamo De Moro, in arte Gerry, sentiva di avere i numeri per farlo. A quel tempo non immaginava neppure cosa lo aspettasse. Per lui entrare nei parà significava dimostrare di che stoffa fosse fatto, pur non avendo ispirazioni da sartina. Qualche mese più tardi lo avevano spedito in treno a Pisa dove lo attendevano caporali psicopatici, massicce dosi di calci nel culo, marce forzate, salti nel vuoto da torri di ferro che parevano dovessero crollare da un momento all’altro e un corso accelerato di canti del Ventennio fascista. Tutta roba che avrebbe placato, anzi sedato, il patriottismo dell’implacabile Sergente Hartman di Full Metal Jacket. Gerry però, che di patriottismo e film americani se ne fotteva allegramente preferendo di gran lunga i film porno, si era acclimatato in quella gabbia di matti dove il tempo pareva essersi fermato all’estate del 1942, quando la Folgore era stata mandata a El Alamein. Dal mattino alla sera cantava inni dell’Italia degli anni Trenta, si addestrava alla guerra e la sera regalava calci nel sedere ai giovani pisani dell’estrema sinistra. Il nome della sua compagnia allievi era già tutto un programma: Decima Compagnia Veleno del Secondo Battaglione Poggio Rusco. Ogni sera, prima della libera uscita chiamava a casa per tranquillizzare la madre. – Qui mamma sto benissimo. Non facciamo niente tutto il giorno. È un po’ come a scuola. E poi i pisani sono gente ospitale – la rassicurava, nonostante le mega risse in cui dispensava botte da orbi. – Non fare tardi la sera. Non ti allontanare troppo dalla caserma – si raccomandava lei, mentre lui infilava il tirapugni in tasca e pensava alle imprese degli Arditi italiani. – E i lanci? Per l’amor di Dio, Gerry... – Stai tranquilla, mamma. Mi hanno esonerato dai lanci. Dicono che ho una costituzione esile. Tra i suoi camerati si era conquistato l’appellativo di Pinocchio. Ora l’odore di kerosene gli faceva sentire le gambe molli come un budino. Aveva paura. Il rito si stava per ripetere. Anche la voglia di raccontare barzellette sconce gli era passata. Guardava l’azzurro del cielo di Pisa che non era diverso da quello della sua Sanremo. Sorrise, cercando di pensare a qualcosa di bello, intenso e soave. Si sforzò di materializzare nella sua mente un’immagine di quelle che ti danno serenità e amore per la vita: la coniglietta di maggio di “Playboy”, una rossa maggiorata particolarmente fotogenica. Prima che il suo bazooka cominciasse a rianimarsi nella mimetica, fece un ultimo tiro di sigaretta pensando agli eroi di El Alamein, annullando così ogni attività “balistica” in corso. Si riempì i polmoni di tabacco fregandosene di ogni etica salutistica. Il portellone del C130 si aprì come una gigantesca balena pronta ad ingoiarli. Gli venne da pensare a Pinocchio, considerato il fatto di avere in comune col burattino di Collodi una predisposizione naturale a raccontare balle. Il rombo dei motori lo riportò alla realtà. – Sveglia paracadutisti, all’imbarco! – tuonò il direttore di lancio, sbraitando dalla carlinga aperta come un tenore posseduto dal demonio. Salirono in due file ordinate. La pista tremava sotto il passo cadenzato dei soldati. Gerry ripeteva le istruzioni impartitegli fino alla nausea. All’uscita dall’aereo. Testa bassa, gambe tese e unite, mani sull’emergenza. Una volta fuori contare da milleuno a millecinque, sguardo a est, sguardo a ovest. E prega il tuo Dio se ne hai uno. Sempre che tu ne abbia il tempo. Ci si buttava da mille metri; il rischio che la preghiera s’interrompesse a metà era alto. “Come Folgore dal cielo, canta il motto della gloria, come Nembo di tempesta, precediamo la vittoria” aveva cantato a squarciagola fino al giorno prima sulla piazza d’armi. Ora la cantava più convinto. Con lui gli altri paracadutisti. L’aereo iniziò a rullare sulla pista. Dentro ballava tutto come in un frullatore. – Speriamo che stia su – pensò. Fottuto destino. Nel frattempo il bestione guadagnava quota. Le facce dei suoi compagni erano tese, gli sguardi serrati. C’era concentrazione. Gerry avrebbe voluto una bella hostess scosciata che gli offrisse un drink. La Quarantaseiesima Brigata Aerea non si distingueva per comfort, ma solo per viaggi rapidi. Bello schifo. Fissò il moschettone della fune di vincolo alla carlinga. Pensò alla sua ragazza lasciata a Sanremo. Magra consolazione. Preferì il pensiero di Erika, l’ultima tedesca rimorchiata sotto la torre pendente di Pisa. Con l’immagine delle sue natiche marmoree “made in Monaco di Baviera” si levò in piedi. Luce rossa. Il direttore di lancio era in attesa di istruzioni dalla cabina di pilotaggio. Pochi secondi alla zona di lancio in località Altopascio. La tedesca si dileguò lasciandolo solo. Luce verde. Grondava sudore come un cammello. Non ebbe il tempo di vedere se avesse pezzato la mimetica. Un vortice d’aria lo risucchiò. Il paracadutista che lo precedeva era già sparito. Lui dietro. Fuori! Il silenzio lo risucchiò strattonandolo. La fune aprì la vela. Gerry vi era appeso dondolando nel vento. Urlò dalla gioia. Ebbe l’impressione di essere l’uomo più felice del mondo, lassù nel cielo, a pochi passi dall’infinito.
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