Capitolo III-2

1501 Words
Nel tentativo di appoggiarmici affondai la punta dei miei stivali nel suo didietro che fino a quel momento non avevo neppure considerato. La mora, alta e bella come una fotomodella, e di conseguenza simpatica come una supposta all’uranio impoverito, saltò sulla sedia. Si girò verso il sottoscritto con l’aria di chi era pronto a saltarmi alla giugulare per farmi fuori. La guardai inebetito. – Ma come si permette? – osservò digrignando i suoi denti come un Marlin pronto a sbranarmi. Di pesci in vita mia ne avevo visti parecchi. La sconosciuta non sapeva che abitavo accanto a Claudio, la nota pescheria dei milanesi di via Ponte Vetero. Inoltre in più di un’occasione avevo collezionato con il gentil sesso la figura del pesce lesso. Non spiaccicai parola. – Ma cos’è, scemo? – insistette di fronte al mio mutismo degno di un affiliato a Cosa Nostra. Apprezzai il fatto che mi desse del lei come conveniva a un incontro formale. – No. E lei? – le chiesi certo che il suo forte non fosse l’equilibrio mentale. Lei incassò tenendo a freno la voglia di saltarmi addosso. – Guardi che se voglio la faccio sbattere fuori di qui! – mi minacciò non gradendo la mia totale indifferenza. – Mi farebbe solo un favore considerato quello che mi aspetta – le confessai, cercando di guardare oltre la mia interlocutrice fino al tavolo dei relatori. Erano in due e non avevano ancora iniziato a parlare. – Allora perché non alza il culo e se ne va? – Lo farei volentieri, ma il mio direttore non gradirebbe. E poi le confesso che ho il culo, come dice lei, decisamente a pezzi. Per un attimo temetti che mi scambiasse per un gigolò usurato dal suo stesso mestiere. Lei mi squadrò da capo ai piedi. Capì subito, a partire dal mio abbigliamento, che non ero un uomo da marciapiede, ma neppure un principe del giornalismo italiano. – Non mi dica che lei è un giornalista?! – Effettivamente ho poca considerazione della categoria alla quale lei sicuramente appartiene, ma purtroppo vi faccio parte. Seppur a modo mio. – E quale sarebbe il suo modo? – Il mio metodo di lavoro è semplice: rimorchiare le giornaliste come lei, le invito a cena e poi le circuisco convincendole a scrivermi dei pezzi sufficientemente dignitosi ai quali apporre il mio nome. L’Erin Brockovich all’italiana mi guardò inebetita. Le parti si invertirono. Fece per richiamare l’attenzione di qualcuno, ma gli oratori iniziarono con un beneaugurante “Buongiorno a tutti”. La mia agguerrita collega ebbe un attimo di esitazione. Perdersi quell’imperdibile conferenza per un irrecuperabile perditempo o rinfoderare gli artigli e darsi un contegno. Optò per la seconda ipotesi rimettendosi a sedere stizzita e regalandomi un “vaffa”. Sorrisi soddisfatto. Il ragazzo seduto alla mia destra, con la faccia da ragioniere e un abito pregno di sudore, mi lanciò uno sguardo carico di ammirazione tutta cameratesca per non essermi fatto infinocchiare da un perizoma e da due paia di meloni tenuti a bada da uno strettissimo top. Peccato che il mio vicino non sapeva che a furia di strapazzare le tipe con tutta la mia verve, la sera finivo per strapazzarmi in solitudine. La tavola rotonda sulla storia di Milano ebbe inizio. Un canuto tartarugone munito di occhiali spessi come fondi di bottiglia iniziò un’introduzione al libro che non prometteva nulla di buono. L’autore accanto a lui lo osservava impietrito, se non addirittura pietrificato dall’ipnotica oratoria di colui che doveva introdurlo. Sbirciai la copia del libro che il mio vicino teneva in mano. L’autore del mattone che avrei dovuto sorbirmi era un certo Padovan. Non lo avevo mai sentito. Certo che se presentava il libro al Circolo della Stampa forse qualcosa di interessante da dire doveva pur averlo. Peccato che al momento avessi altre cose per la testa. Innanzitutto attendevo la conferma da parte di un intermediario di essermi riuscito a comprare una bella veduta di Venezia di De Chirico alla quale facevo la corte da tempo. Era un quadro degli anni Quaranta, di ottima qualità, che ricordava nella sua dovizia di particolari una di quelle vedute settecentesche di Antonio Canal detto il Canaletto. In secondo luogo ero emotivamente avariato: la mancanza di una relazione fissa cominciava a minare il mio equilibrio mentale. Nell’ultimo mese, oltre a essere rimasto chiuso in chiesa accidentalmente, avevo vissuto la stessa esperienza nella toilette del Teatrino, tempio di perdizione voyeuristica milanese che bazzicavo allegramente quando volevo rifarmi la vista. Ero certo che sentir parlare dei misteri sotterranei di Milano non mi avrebbe aiutato a trovare una tipa con cui uscire. Mentre il relatore elencava date, episodi e vicende che si perdevano nella notte dei tempi il sottoscritto stava lentamente perdendosi nei meandri dei cazzi suoi. A destarmi dalle mie meditazioni di gallerista sull’orlo di una crisi di sonno, giunse la tonante voce di Padovan che prese la parola insieme al microfono. Dal tono ebbi l’impressione che fosse decisamente incazzato per quel prologo di mezz’ora che aveva messo a dura prova la platea. La masnada di giornalisti giaceva infatti nelle mie stesse condizioni: c’era chi faceva scarabocchi sui bloc notes, chi si scaccolava meticolosamente e chi fingeva di ascoltare pur pensando ai fatti propri. Il mio vicino ad esempio era concentrato sul filo del perizoma che usciva dai jeans della iena che mi stava seduta di fronte. I suoi occhi lucidi denotavano un sentimento di ammirazione misto a eccitazione. Sperai che non soffrisse di eiaculazione precoce visto che armeggiava pericolosamente nelle tasche dei pantaloni. Rabbrividii nonostante i trenta gradi estivi. – Pss! – mi fece nell’orecchio il maniaco per richiamare la mia attenzione. – Sai chi è quella? – mi bisbigliò accorgendosi che anch’io non ero insensibile alla vista dell’intimo, pur trattenendomi. – Una rompicoglioni – gli risposi. Lui trattenne una risata. – Non la conosci proprio?! – insistette lui ansimando. – Vuoi un fazzoletto di carta? – gli offrii temendo il peggio. – Grazie, molto gentile – lo prese lui, asciugandosi la fronte. Non era il sudore che temevo. – Quella scrive su “Vanity Fair”. Dicono che sia una gran maiala – mi spiegò quasi al culmine delle sue sordide manovre. – Strano. Pensavo che scrivesse su “Famiglia Cristiana” – dissi io quasi deluso. – Magari avessi in redazione una collega simile – commentò prossimo all’esplosione. – Comunque io mi chiamo Marco Maifredi – fece lui, tirando fuori la mano di tasca e porgendomela. Grazie alla mia prontezza di riflessi scattai in piedi. – Leonardo Fiorentini, “Secolo d’Italia” – mi presentai,salutandolo romanamente ed evitando spiacevoli contatti. Lui mi guardò divertito. A quelle parole la superstronza si girò dalla mia parte per guardarmi più allucinata che mai. Questa volta non ci sarebbe stato alcun oratore a salvarmi. Mi preparai a mandarla a quel paese e a lasciarla in compagnia del fan dell’onorevole Mele, il perbenista politico beccato a sniffare in compagnia di due troie. – Ma noi ci conosciamo! – proruppe addolcendosi nei toni e nelle intenzioni. Tentennai. – Due anni fa ti ho intervistato, ricordi? A quelle parole il mio alter ego fece scintille costringendomi a cambiare strategia e a rimandare la mia fuga da Alcatraz. Feci mente locale, ma con scarsi risultati. Come potevo essermi fatto sfuggire una tipa come quella? – Sono Marika. Ti avevo intervistato per la tua indagine sul pietrificatore di Triora. – Marika? – feci io inebetito. Effettivamente, a parte il colore dei capelli, l’abbronzatura e le tette rifatte, era lei. Non ero un gran fisionomista. Con la scusa che mi doveva intervistare l’avevo invitata a cena. Nel dopo cena ci avevo provato, ma mi aveva dato un bel due di picche. – Sì, sono io. Ma cosa hai fatto ai capelli? – domandò lei notando la mia recente pelata. – Sono stato investito da una mietitrebbia che attraversava la campagna a folle velocità – le risposi prendendola per i fondelli. A meno che non avessi avuto una calvizie fulminante, un po’ come la sua idiozia, era lampante che mi fossi tagliato i capelli. Sorvolai. Anche lei non era una gran fisionomista. – Fai ancora indagini? – Quando mi capitano, anche se preferisco di gran lunga vendere e comprare quadri. – E cosa ci fai qui? – Da un po’ di tempo faccio il giornalista a tempo perso. – Ma non mi dire! – Te l’ho appena detto. – Per il “Secolo d’Italia” se ho capito bene... – Sì. È l’unico giornale che mi pubblica. A eccezione di un settimanale pornografico per il quale scrivo racconti e tengo la rubrica “Coppie aperte” in cui rispondo ai lettori. – Interessante – commentò lei imbarazzata, ma non troppo. Senza che me ne accorgessi e potessi rimediare, il marpione che era in me prese possesso della situazione e si gettò nella mischia in cerca di una rivincita. – Perché non ci prendiamo un caffè insieme più tardi? – le proposi, certo di venire sedotto e bidonato per la seconda volta. – A dir la verità mi sono accaparrata un’intervista con l’autore del libro. – È un invito da collega a collega – puntualizzai, certo che mi si leggessero in faccia le mie porche intenzioni. – Se lo scrittore è d’accordo puoi unirti a noi. Potresti fargli un’intervista per il tuo giornale. – Che ottima idea! – esultai come un condannato a morte di fronte al plotone. L’idea dell’intervista mi riportò a qualche mese prima quando Luciano Lanna mi aveva spedito a intervistare lo scrittore Andrea G. Pinketts in occasione dell’uscita del suo romanzo Ho fatto giardino. Dopo l’intervista avvenuta allo Smooth di via Buonarroti ero stato portato via in ambulanza in coma etilico. Sperai solo che l’autore del libro su Milano non fosse un seguace del credo etilico di Pinketts del quale mi consideravo un blando discepolo.
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