Capitolo V

2023 Words
Capitolo V La giornalista, lo speleologo, il puttaniere Milano, 12 settembre 2008 ore 12.30. Marika era la classica ragazza milanesotta così deficientemente miscelata: cinquanta per cento fashion victim, trenta per cento impegnata a far carriera, venti per cento diviso fra vacanze in mete esotiche, sesso e un po’ di sballo controllato. Milano sfornava tipe come lei in gran quantità, un po’ come la Fiat ai tempi della Uno. Generalmente questi cloni facevano coppia con i loro omologhi al maschile: liberi professionisti, esperti della comunicazione, geni del marketing, venditori di prodotti bancari e tutti i derivati avariati che potevi incontrare nei locali alla moda della città. Il sottoscritto, che mirava alla fica della super giornalista, era già un escluso in partenza, ma considerata la fame che avevo, non temevo lo svantaggio. E poi sapevo di avere dalla mia parte una carta vincente di cui la maggior parte dei coglioni in circolazione non disponeva: il menefreghismo. Ero un tipo che se ne fregava delle convenzioni e questo a volte, purtroppo sempre più raramente, faceva presa su quel tipo di ragazze nei radi momenti di lucidità che avevano. Tanto valeva tentare di redimere Marika e darle una seconda possibilità di conoscere un uomo vero. La tavola rotonda durò circa tre ore con un effetto sorprendente. A parte il tartarugone che aveva introdotto Padovan regalando dosi di Talofen camuffate da parole, l’autore si rivelò più interessante del previsto. Nonostante non portasse un tanga di pizzo nero come Marika e non fosse il mio tipo, le sue teorie mi conquistarono. Per due ore riversò sulla platea delle storie da far accapponare la pelle. Vicende che spaziavano da un Ufo caduto su Milano nel 1933 e nascosto dal regime fascista in un bunker sotterraneo alle porte della città, fino ai Rettiliani, alieni mezzi uomini e mezzi pesci che sguazzavano nell’ipotetico terzo livello sotterraneo della Stazione Centrale di Milano. Convenni che nel grigiore meneghino che impestava ogni forma di vita, c’era ancora qualcuno che dava i numeri in modo simpatico e costruttivo, magari scrivendo un libro sul sottosuolo di Milano e ficcandoci dentro ogni genere di follia. Sempre meglio quello che i libri di Bruno Vespa o di Emilio Fede che tenevo a portata di mano quando mi finiva la carta igienica. Raggiunsi la mia bella preda di fronte all’ingresso del Circolo della Stampa, in mezzo a una folla che andava lentamente dissolvendosi come merda secca spazzata dal vento. Evidentemente le teorie di Padovan erano piaciute solo a me e a pochi intimi. Marika era già con lui. Mi feci avanti sotto lo sguardo incuriosito dello scrittore. – Eccole il collega di cui le ho parlato – mi presentò lei mentre stringevo la mano al padovano di ghiaccio, considerato il colore dei suoi capelli a spazzola e il suo luogo d’origine da me supposto in base al cognome. Gliela strinsi certo di non incorrere in pericolose contaminazioni come con l’inviato di “Famiglia Cristiana”. – Piacere, Leonardo Fiorentini – mi presentai, serrandogliela in una morsa degna di un tavolo da falegname. – Piacere, Gianluca Padovan – contraccambiò lui, stringendomi i suoi artigli d’acciaio. Doveva essere un tipo tosto. Già per questo mi piaceva. Aveva un sorriso schietto, aperto, sincero. – Per che giornale scrive Dottor Fiorentini? – mi chiese, appioppandomi un titolo che non avevo. – La ringrazio per il dottore, ma non mi sono mai laureato – gli risposi mettendo le cose in chiaro. – Collaboro con il “Secolo d’Italia” – dissi sperando di non ritrovarmi a che fare con il solito trinaricciuto disposto a giocarsi un’intervista in nome della sua fede politica e del suo antifascismo militante. Per tutta risposta guadagnai una seconda stretta di mano e un sorriso a trentatre denti che equivaleva a un via libera. Evitai però per il momento di appellarlo camerata. – Se per voi va bene potremmo andare al bar Senato – proposi in nome delle mie vecchie abitudini, quelle dure a morire. Marika e lo speleologo acconsentirono non sapendo che la mia preferenza era di parte in quanto il bar Senato rappresentava la mia oasi gastronomica nelle pause pranzo quando chiudevo la galleria. Detestavo mischiarmi al pubblico del bar Cova, decisamente snob e cafone, seguito da quello dell’altrettanto dorato St. Ambroeus, che vantava lo stesso target di clienti, ma decisamente più in là con l’età. Rimaneva dunque il bar Senato, situato all’angolo tra l’omonima via e corso Venezia. Il bar da sempre attirava frotte di commessi per lo più gay, mancate modelle che lavoravano come commesse nelle boutique vicine e un pubblico di stranieri variabile a seconda degli eventi che si alternavano a Milano: Macef, Settimana della Moda, fiere varie. Attraversammo la strada sotto un sole impietoso. Eravamo un terzetto assortito. Ci sedemmo a uno dei tavolini all’aperto, protetti da una serie di asfittiche siepi che lottavano con lo smog. Uno dei simpatici camerieri che da anni mi servivano cotoletta alla milanese e Campari prese le ordinazioni: un caffè per Padovan, un Aperol Soda per Marika e un Crodino per il sottoscritto. – Non ti senti bene? – mi chiese il garçon, impallidendo di fronte alla mia richiesta analcolica. – Effettivamente ho visto giorni migliori – gli dissi tagliando corto, per evitargli le mie turbolenze mentali e intestinali. – Lo ha già letto il mio libro? – mi chiese Padovan cogliendomi da subito alla sprovvista. – No e sinceramente non so se lo farò. Questa mattina speravo di venire alla presentazione, farmi una bella dormita e tornare a casa con una copia del libro, possibilmente gratis o fregata a qualche collega. Per la recensione me la sarei cavata con un bel copia-incolla dal testo della quarta di copertina – confessai candidamente, ingurgitando l’analcolico biondo che fa impazzire il mondo. Padovan non perse il sorriso, dimostrando una flemma inglese che smentiva le sue origini venete. – Apprezzo la schiettezza – disse lo speleologo senza scomporsi. Marika sbiancò sprofondando sotto il tavolino. – Questo era il mio piano finché non l’ho sentita parlare – aggiunsi. – La storia di Milano e dei suoi segreti ha sollazzato i miei interessi non poco. Ma cosa c’è esattamente sotto questa città? – gli chiesi andando al dunque. Di sentire la storia della città dalla fondazione dei Celti o dall’invasione romana non me ne fregava niente. Ma se c’era qualcosa di interessante sotto i marciapiedi su cui mi trascinavo ogni giorno, volevo saperlo. – Sotto Milano ci sono cose che nessuno di noi tre immaginerebbe mai. La differenza è che io ho superato la fase dell’immaginazione perché le ho viste e ho pensato bene di raccontare la nostra città da questo punto di vista – mi stuzzicò lo speleologo. Sperai che non facesse parte di una strategia per rimorchiarmi e portarmi a letto. Un po’ come quando io andavo alle mostre museali, avvicinavo sprovvedute visitatrici e raccontavo loro di essere un noto collezionista. Nessuna mai però ci credeva. Marika si riprese dal mio incipit iniziale tornando al suo naturale color carbone, frutto di una recente settimana alle Maldive. Io sfoggiavo un’abbronzatura simile frutto di un fine settimana nel lodigiano ad aiutare mio padre nel lavoro in campagna. La risposta di Padovan non affievolì il mio interesse, ma lo rinfocolò. Prima che potessi subissarlo di domande, lui stesso passò al contrattacco: – Lei abita a Milano? – Sì. Perché? – In che via esattamente?- – In via Ponte Vetero. Perché? – A che altezza? – proseguì fregandosene dei miei “perché” che cadevano nel vuoto. – Più o meno a metà. Perché? – gli chiesi l’ultima volta, prima di cominciare a pensare che mi stesse prendendo per il culo. – Possiede una cantina? – mi chiese dimostrandosi un esperto in interrogatori. Mi augurai che di fronte a una mia eventuale reticenza non ricorresse a metodi brutali. – Naturalmente – lo accontentai, preparandomi a fornirgli anche i dati catastali dell’appartamento. – Si legga il capitolo del mio libro dedicato ai pozzi di Milano. Anticamente Milano era famosa per le centinaia di pozzi dai quali si attingeva un’acqua eccellente che soddisfaceva l’intero fabbisogno idrico. – Una roba del genere mi fa venire in mente tale Bonvesin de la Riva – sparai rispolverando le mie nozioni di storia liceale. Padovan si illuminò, Marika sbuffò non capendo dove lo scrittore volesse arrivare. A dir la verità neppure io. – Lei dove crede che siano finiti tutti questi pozzi? – mi chiese, scambiandomi per l’Assessore ai lavori pubblici o per uno storico della città. – Li hanno fatti sparire con qualche abuso edilizio – ironizzai. – In un certo senso è vero! – esclamò lui divertito. – Vede, Milano è una città che ha subito radicali e veloci trasformazioni nel tempo. È sempre stata una città che va di fretta e di conseguenza si è sempre costruito su quello che c’era in precedenza. I pozzi che un tempo erano in superficie sono finiti definitivamente nel sottosuolo. Gioielli di ingegneria vecchi di secoli, medioevali o precedenti, intercettano ancora oggi le fondamenta delle nostre case, i muri della cantine. – Vuol dire che sotto casa mia rischio di trovare un pozzo romano? – gli chiesi, già immaginandomi nelle vesti di un archeologo di quarta segata in cerca di tesori nel sottoscala del condominio. – Niente di più probabile. Pensi che proprio in via Ponte Vetero un tempo passava il naviglio che nel secolo scorso venne interrato. Qualche anno fa, visitando le cantine di un palazzo nella sua via, trovai un passaggio che portava direttamente al canale. Ne percorsi un tratto, ma poi dovetti rinunciarvi per la presenza dei topi. – Che orrore! – commentò Marika. La giornalista conviveva con l’incubo delle pantegane che assediavano il parcheggio della Darsena dove abitava. – Concordo. Sono animali poco socievoli, soprattutto se presi in gruppo e in qualche centinaio di esemplari concentrati tutti insieme – specificò Padovan. Iniziai a pensare sul serio che i misteri del sottosuolo non solo superassero la mia immaginazione, ma che dovessero rimanere consegnati alla viscere della terra. Eppure l’argomento iniziava a incuriosirmi. – Ma c’è ancora acqua in questi pozzi? – gli chiesi da perfetto principiante. – Raro. Quelli da me esplorati erano praticamente tutti in secca. Nel tempo la falda acquifera se in alcuni punti si è alzata, in altri si è abbassata. – E come faccio a capire se ho un pozzo in cantina? Nello sguardo dello speleologo lessi tutta la soddisfazione di aver infiammato tanto interesse in un profano. – A volte per individuarli basta una semplice sporgenza nel muro. Anche dietro una volta di mattoni murata si può nascondere un pozzo. Perché stasera non si fa un giro in cantina? E poi mi saprà dire se ha scoperto qualcosa o meno. – Ci conti. Se scovo qualcosa la chiamo. Chissà che non ne venga fuori un bell’articolo per il giornale – gli dissi augurandomi di non finire la serata a vagare come uno stronzo armato di pila nelle cantine di casa mia. – Bene, se adesso vogliamo lasciare da parte i pozzi per parlare del libro, posso iniziare a farle l’intervista – proruppe Marika brandendo un aggeggio che aveva l’aria del registratore. Padovan aveva voglia di continuare a parlare di pozzi, ma non si tirò indietro di fronte alla proposta. Ne approfittai anch’io per carpire qualche ulteriore notizia che potesse risultare interessante, tipo la collocazione di qualche reperto di inestimabile valore magari nella tromba dell’ascensore del mio palazzo. Non ci ricavai nulla di tutto questo. Dopo un’ora di confessioni speleologiche dovetti rassegnarmi a tornare in galleria. Il cinquantennale spaccio di preziose tele dell’Ottocento italiano e non solo fondato da mio nonno reclamava la mia presenza. Mi congedai a malincuore dai miei nuovi amici. Il camerata speleologo mi aveva comunque ispirato un buon pezzo da rifilare al “Secolo d’Italia”, Marika invece mi ispirava da ogni punto di vista. Ci scambiammo l’indirizzo e-mail con la scusa di tenerci a contatto per qualche collaborazione giornalistica. La scusa fu mia. Lei accettò. Al limite l’avrei sempre potuta invitare a casa mia per vedere la mia collezione de La storia d’Italia dell’indimenticato Indro Montanelli o peggio la terribile Storia d’Italia a fumetti del defunto Biagi. – È stato un piacere – mi confessò l’eroe del sottosuolo, riproponendomi la sua stretta d’acciaio. Io gli avrei proposto un Patto d’Acciaio tanto per essere politicamente corretto. – Anche per me. Se scovo qualcosa in cantina ti chiamo – gli dissi accettando il suo biglietto da visita e dandogli del tu. Era un tipo che mi ispirava fiducia. – Io e te ci sentiamo presto – dissi a Marika, regalando anche a lei una virile stretta di mano. Girai i tacchi e scomparvi tra la folla di colletti bianchi in libera uscita, gruppi di giapponesi, uomini d’affari e di malaffari. Io preferivo di gran lunga le donne di malaffare. Sfortunatamente la mia galleria d’arte non era un catalizzatore di questo tipo di frequentazioni. Mi dovetti accontentare della compagnia di mia madre, della mia segretaria, dei miei fattorini. Chi si accontenta gode. Così si dice.
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