Capitolo III-1

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Capitolo III Sacro e profano Milano, venerdì 12 settembre 2008, ore 7.00 am. Alle sette della mattina aprii gli occhi svegliato da un energico calcio nel culo assestatomi dal prevosto più grosso che si fosse mai visto nella storia della curia milanese. Ero un assiduo frequentatore della chiesa di San Bernardino alle Ossa, ma mai prima di quel momento avevo avuto il dispiacere di incontrare un culturista travestito da seminarista. Di travestiti ne avevo incrociati molti sul mio cammino, ma mai nessuno così pregno di testosterone e di sermoni: un mix micidiale. – Pace e pene, fratello – biascicai tentando di mettere a fuoco l’uomo nero che per tutta risposta mi stava trascinando lungo la navata dell’ossario per sbattermi fuori. – Barboni di merda. Fate schifo! E puzzate d’alcool da fare venire il voltastomaco! – ringhiò il buttafuori della parrocchia propinandomi il suo anatema salutista e dimenticando ogni forma di creanza. Effettivamente avevo scolato una bottiglia di Campari per sostenere la riunione serale che era diventata notturna. Colpa del silenzio serrato del mio interlocutore e della minchiaggine dell’energumeno in sottana che all’ora di chiusura della chiesa non si era accorto della mia presenza. Il tutto era cominciato la sera prima. Dopo un’estenuante giornata trascorsa in galleria a risolvere alcune beghe precipitatemi addosso come guano riversato in caduta libera da un piccione incontinente, mi ero diretto verso il Verziere, il vecchio quartiere all’ombra della Madonnina, dove sorgeva la mia chiesa preferita. Avevo un bar preferito dove fare l’aperitivo: Princi di via Ponte Vetero. Avevo un aperitivo preferito: il Bitter Campari spruzzato di soda. Avevo una chiesa preferita dove trovare conforto: San Bernardino alle Ossa, famosa per avere le pareti ricoperte di omeri, tibie, crani in gran quantità. Non che fossi un uomo di chiesa, tutt’altro: da sempre infatti ero un acerrimo nemico dei canonici, delle canoniche e dei metodi canonici. Preferivo in genere i metodi poco canonici e poco ortodossi. In pratica mi ero costruito un credo decisamente personale. Ma non per questo evitavo le chiese. Anzi avevo eletto la chiesa-ossario di San Bernardino a luogo di riunione quando avevo bisogno di starmene da solo per parlare a quattrocchi col Padrone di casa. Ero entrato la sera precedente con i migliori propositi: accendere una candela alla memoria delle persone amate che non c’erano più e farmi un aperitivo in compagnia del Grande Vecchio: Dio. Non era la sera adatta per infilarmi in qualche bar per un happy hour. Di happy nell’aria di Milano c’era ben poco. Nel sottoscritto ancora meno visto che era tutto il giorno che scoreggiavo brutalmente un’aria mefitica degna di una fogna thailandese. Stavo attraversando uno di quei periodi difficili dal punto di vista personale e intestinale. In apparenza non avrei avuto di che lamentarmi: la mia galleria d’arte andava a gonfie vele, i miei romanzetti noir vendevano discretamente e Luciano Lanna, direttore del “Secolo d’Italia”, mi ordinava di scrivere quotidianamente articoli per il giornale. Solo ultimamente, quando mi aveva proposto di andare in Iraq come corrispondente di guerra, mi era sorto il dubbio che volesse eliminarmi. O semplicemente era per accontentare le mie aspirazioni da emulo del defunto Montanelli di cui conservavo ancora una lettera inviatami in giovane età. Fin da adolescente soffrivo della sindrome dello scrittore in erba, pur non fumando m*******a. Da quella prima lettera mandata all’Indro nazionale, avevo messo in luce infatti tutto il mio spirito proibizionista e reazionario. A parte questi dettagli, arrivato alla soglia dei trentun’anni, soffrivo della sindrome del fuggitivo pur senza essere Harrison Ford nel film di Andrew Davis con Tommy Lee Jones: mondanità, apparenza e arroganza erano i tre grandi mostri con i quali avevo a che fare ogni giorno. Dimessi i panni del gallerista di fama, il mio ego soffriva in silenzio, costringendomi a funeree manifestazioni degne di un Socrate prima di trangugiare il veleno. Con la sola differenza che alla morte rapida della cicuta preferivo ancora quella lenta del Campari. E nelle mie lunghe agonie etiliche mi rendevo conto di essere l’antitesi in persona della Milano da bere, nonostante ultimamente trincassi come una spugna. Ero il nemico giurato di una città erede del magna magna socialista, oggetto di speculazioni dei peggiori immobiliaristi, vittima sacrificale del circo della moda. In questo idilliaco quadro lassativo non mancavano i Vip che spadroneggiavano in città, idolatrati da folle beote. Io stesso risiedevo non lontano dal famigerato balcone di Largo La Foppa dal quale Fabrizio Corona pontificava dopo l’esperienza penitenziaria. Una vicinanza che mi faceva rimpiangere la distanza che stava tra casa mia a Milano e il balcone di Palazzo Venezia a Roma dal quale sessant’anni prima si affacciava “mascellone” a incantare le folle. Tragedia per tragedia, al presunto fascino dell’inventore dell’agenzia Corona’s preferivo quello del dittatore di Predappio. Questione di nostalgia, ma anche di stile. Peccato che i nostalgici come il sottoscritto fossero in piena estinzione, surclassati dai cloni della nuova era in cui sei fashion-victim o più semplicemente victim. Nel secondo caso eri fottuto. Ero dunque la mosca bianca, un minorato in una minoranza, un cane sciolto ribelle e anticonformista. E ancora l’inclassificabile, l’asociale, l’antiborghese, l’eversivo. Questo ero io, Leonardo Fiorentini, mercante d’arte milanese, dopo una notte di sbronza nell’ossario di una chiesa nel tentativo di ritrovare me stesso. Il sole di un mattino di settembre ancora maledettamente caldo mi scovò impietoso insieme all’ipertrofico prevosto. Tentai comunque di darmi un’aria presentabile sul sagrato della chiesa. Ero frastornato non tanto dalle rivelazioni rilasciatemi dal buon Dio la notte precedente, quanto dall’azione energica del forzuto custode della chiesa che si era accanito sul mio fondoschiena. Ero troppo provato dall’esperienza notturna per tentare una reazione nei confronti dell’energumeno. Giurai che sarei tornato prossimamente a fargli visita armato di intenti poco pacifici. Per il momento non mi restava che battere in ritirata. Trovai sostegno e conforto su un panettone di cemento. Mi ci sedetti sopra nel tentativo di fare il punto della situazione. Non ricordavo che giorno fosse e quali impegni mi attendessero. Ma prima di tutto dovevo risolvere una situazione impellente che rischiava di travolgermi con risultati devastanti: avevo un bisogno assoluto di svuotare la vescica. Il Campari aveva sorprendenti effetti diuretici, ancora più della blasonata Acqua di Fiuggi. Un motivo in più per preferirlo a quest’ultima. Radunai le forze per raggiungere i sifilitici giardinetti che facevano da confine tra via Larga e la mia amata chiesa. Incrociai qualche sparuto studente che divenne spaurito nell’incrociare il sottoscritto. Avevo un aspetto poco rassicurante a metà strada fra un cowboy metropolitano e un reduce della guerra del Vietnam. Raggiunsi un cespuglio dove cambiai l’acqua alla caldaia. Fischiettai “Giovinezza”, l’amato inno fascista, tanto per darmi un tono. – Leonardo! – mi chiamò uno spettatore divertito. Feci un giro a trecentosessanta gradi tenendo ben stretto l’idrante e sfidando il cambio di direzione del vento. Per poco non mi pisciai addosso. Misi a fuoco il biondo figuro che mi guardava sghignazzando dal finestrino di una berlina inglese parcheggiata sul marciapiede. Dovevo aspettarmelo, considerata la vicinanza della chiesa ad alcuni dei migliori night della città. Era Andrea Grossi, una faccia amica da quasi vent’anni. Da quando in un caldo pomeriggio d’agosto, durante un’escursione sulle montagne dell’Aprica, aveva tentato nel sonno di sodomizzarmi con una piccozza da montagna e poi di darmi fuoco. Fortunatamente non ci era riuscito. Dal quel fallito attacco alla mia verginità anale era nata una lunga amicizia che resisteva coriacea. Andrea Grossi aveva venticinque anni. Vantava lineamenti da putto con capelli riccioluti biondo-castani, il tutto associato a tendenze da satiro. Nell’ultimo lustro si era dato all’esplorazione di tutti i migliori locali notturni italiani ed esteri. Studiava da avvocato, ma aveva la vocazione del puttaniere. In attesa della laurea scorazzava in lungo e in largo per la città su una Bentley Continental verde, sempre in cerca di ragazze facili. – Innaffi i fiori? – mi chiese compiaciuto. – Certo. Sai che ho sempre avuto il pollice verde – confermai rimettendo in gabbia il pennuto. – Come mai da queste parti? – gli chiesi cambiando argomento. Non avrei potuto fare una domanda più banale. Aprì la portiera dell’auto dalla quale fece capolino una bionda che teneva in mano un calice di champagne. Considerato che indossava solo tacchi a spillo e un perizoma lillipuziano dubitai che fosse un’enologa. – Sali che ti dò un passaggio – fece il playboy originario di Inzago, un paesino alle porte di Milano. Non dissi di no. Raggiunsi la fuoriserie accomodandomi sui sedili posteriori. Forse la giornata non era così funesta come mi era sembrata all’inizio. Una rossa, non di Maranello, ma a occhio e croce di Praga, agghindata come la sua collega, mi abbracciò come un vecchio amico. Allungai le mani sperando che dall’amicizia nascesse qualcosa di più. Per un attimo pensai che, dopo una notte di ritiro in chiesa, il Signore avesse voluto giungermi in soccorso e che quello fosse un segno tangibile della sua benevolenza. – Leonardo vacci piano. Queste due me le sto portando a casa. Mi ci è voluta una notte per conquistarle, se permetti – protestò il Grossi conoscendo la mia fame atavica e temendo che gliele consumassi. – Figurati – dissi rinfoderando la lingua che la rossa mi aveva arpionato alla sua. Cercai di ricompormi. – Vuoi che ti porti in galleria? – mi chiese Andrea che faticava non poco a tenere a bada le due pantere dell’est. Ebbi un flash. Quella mattina avevo un appuntamento al Circolo della Stampa di corso Venezia. Andrea diede ordine all’autista. Il sosia del tenente Kojak, ma fornito di un’espressione ebete, con un sorriso compiaciuto mise in moto il motore degno di un aereo e s’infilò nel traffico della città. Nell’apprezzare la comodità del macchinone i cui sedili in pelle mi massaggiavano lascivamente le chiappe contratte, ebbi un secondo flash. – A proposito, quando pensi di recuperarmi la macchina? – chiesi ad Andrea che da un mese mi aveva promesso di trovarmi un mezzo a quattroruote che sostituisse la mia vecchia Alfa Romeo Zagato definitivamente spirata. – Stai tranquillo. Ho in arrivo la macchina per te – mi rassicurò guardandomi beato tra le bocce e un calice di champagne. – E sarebbe? – Una magnifica Porsche 996 Turbo Coupé blu scuro, super equipaggiata. Non è d’epoca come la tua Zagato, ma è scalpitante al punto giusto. Una macchina su misura per te. Andrea era un gran collezionista di auto, nel senso che guidava tutte quelle di suo padre e nel corso degli anni mi aveva fatto provare tutte le migliori fuoriserie esistenti sulla faccia della terra. – Speriamo bene – bofonchiai rimandando le questioni automobilistiche a più tardi in nome di quelle giornalistiche che urgevano. Il Circolo della Stampa non era una mia meta usuale, ma la presentazione di un nuovo libro su Milano reclamava la mia stanca presenza. Luciano Lanna era stato irremovibile nonostante il mio sepolcrale silenzio di fronte alla sua proposta che equivaleva a un ordine. Luciano era famoso per la durata delle sue telefonate. In media una decina di secondi: il tempo di salutarti, chiederti come stavi, dirti cosa fare e risalutarti. Il giorno prima Luciano mi aveva concesso infatti dieci dei suoi preziosi secondi per spedirmi alla presentazione di Milano sotterranea e misteriosa, un saggio che prometteva emozioni soporifere. Non ero in vena di sorbirmi una conferenza a base di storia meneghina, scoperte archeologiche e Indiana Jones all’italiana. Purtroppo non avevo scampo. Eppure anche l’atmosfera della porno berlina iniziava ad andarmi stretta. Sentivo che non avevo più l’età per quegli incontri ravvicinati del terzo tipo. Ero sempre stato un tipo in bilico tra sacro e profano. Il profano così sventolato cominciava a farmi sentire quasi in imbarazzo. Mi augurai che fosse una crisi passeggera e che non stessi diventando un bieco e pudico bigotto. Arrivammo al numero civico 16 di corso Venezia, di fronte a Palazzo Serbelloni. Era la prima volta che mettevo piede in uno dei templi della cultura milanese. Mi augurai che fosse anche l’ultima. Presso il Circolo della Stampa erano passati nel corso degli anni tra i migliori e più celebrati giornalisti italiani, scrittori, uomini di cultura. Insomma, mancava solo il sottoscritto. La Bentley accostò con il suo variopinto carico di occupanti ebbri di champagne e di bernarda. Un nugolo di paparazzi, curiosoni, ficcanaso e body guard microcefali si spostò per fare largo a noi. Kojak scese per aprirmi lo sportello. La notizia si sparse tra i presenti come un morbo contagioso che li elettrizzò fino a mandarli in corto circuito. – È arrivato Vittorio Sgarbi! – farneticavano alcuni facendo scattare i flash. – Ma no, è il sindaco Moratti – strillavano altri come capponi appena castrati. La portiera si aprì. Lo champagne offertomi dalle hostess di bordo sortì un effetto digestivo improvviso quanto dirompente. Detonai in perfetta simbiosi con l’apertura della portiera. I paparazzi scattarono immortalandomi nel primo rutto della giornata. Poggiai i miei stivali pitonati sul marciapiede notando il disappunto generale. Me ne fregai. Mi ficcai tra le labbra un torsolo di Toscano che tenevo nel taschino della camicia. M’infilai le mani in tasca ravanandomi. Gli addetti alla sicurezza presenti si allarmarono. Pensarono che fossi armato. Altri pensarono che mi stessi semplicemente grattando i gioielli di famiglia. In realtà stupii tutti con un Bic dalla fiamma portentosa. Appiccai fuoco al tabacco, allontanando dal sottoscritto i salutisti presenti. Salutai Andrea e il suo carico di souvenir dell’Europa dell’Est che dimostravano di essersi perfettamente acclimatate all’aria dell’Ovest. Dopo la mia irruzione sulla scena, accompagnata da un’eruzione gassosa, mi fiondai all’interno del palazzo lasciando ai giornalisti accorsi il compito di svelare la mia identità. Compito che nessuno si assunse. Di conseguenza rimasi completamente in incognito per tutta la durata della conferenza. Mi piazzai sul fondo della sala sperando in un posto tranquillo dove cadere in uno stato comatoso. Intorno a me fu la sfilata di inviati, inviate, imbucati, lobotomizzati vari e assortiti. Ce n’era per tutti i gusti, fuorché per il mio. Di rappresentanti del Comune di Milano neppure l’ombra, a eccezione di un consigliere di quarta segata che molto probabilmente era lì per caso. Nel tentativo di allungare le mie gambe indolenzite dalla notte da chierichetto impenitente, arpionai l’occupante della sedia di fronte alla mia.
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