Capitolo II

1479 Words
Capitolo II L’uomo talpa Finale Ligure, una domenica di agosto del 1987. Frazione di Perti. Le spiagge le sfiorò appena guardandole con una certa invidia. Si chiese se non fosse davvero un coglione come gli aveva detto il giorno prima Barbara dandogli un ultimatum. O me o la speleologia. Peccato che la ragazza non avesse fatto i conti con la durezza granitica di lui che aveva fatto di geologia, storia antica e discese in grotta la sua passione. Gianluca conosceva le rocce meglio di chiunque. Lui stesso col tempo si era indurito come una roccia. Una sorta di processo di osmosi tra uomo e ambiente. Dunque era normale per lui ricongiungersi con quell’elemento naturale di cui era fatto. La domenica era l’occasione per riempire la macchina di moschettoni, corde, caschi. Tutto l’occorrente per andare alla ricerca di antri sotterranei da esplorare. Non c’erano pomeriggi al cinema o gite sul lago che tenessero. L’avventura e il senso della scoperta valevano per lui più di ogni altra cosa. Che cosa cercasse nessuno lo sapeva. Neppure lui. Era la ricerca in se stessa a bastargli. Un po’ come quei cavalieri erranti che nel medioevo partivano senza una meta, ma saldi nel loro usbergo di ferro e in pochi semplici principi. Il mettersi alla prova in rischi e pericoli era il fine del loro cammino. Gianluca era diventato speleologo all’età di nove anni, a casa dei suoi genitori, a Verona. Quel pozzetto presente in giardino prometteva incredibili segreti. In realtà ci guadagnò solo l’alluce schiacciato. Di segreti non ne trovò, ma la passione per scoperchiare tombini cominciò a perseguitarlo. Gli anni passarono e in breve ne fece la sua seconda professione. A vent’anni, il sabato sera andava a caccia di tombini per Milano. Li sollevava di nascosto e vi spariva dentro. In settimana studiava vecchie piantine, libri, e formulava ipotesi su cosa ci potesse essere nel sottosuolo. Ora di anni ne aveva ventotto. Negli ultimi otto aveva esplorato clandestinamente buona parte dei navigli milanesi coperti, i passaggi sotterranei di chiese, palazzi e ricoveri antiaerei. Di giorno invece, munito delle debite autorizzazioni, il Comune lo spediva al massimo a fare la planimetria di qualche pozzo di epoca medioevale o di qualche cantina fatiscente sotto i lustri palazzi dell’amministrazione. Quel passato e presente di ricerche sotterranee gli si era incollato addosso. Gianluca si trovava quasi perso alla luce del sole. Anche quella domenica di fine agosto si era digerito quasi duecento chilometri per scendere sotto terra. La sua Lancia Thema, da lui ribattezzata Speleomobil, esalò il penultimo respiro all’ombra della chiesa dei cinque campanili. Era a Perti, una frazione di Finale Ligure. Vi era già stato qualche anno prima quando aveva passato al setaccio Castel Govone, un imponente castello in parte crollato che dominava la costa. A Perti si respirava un’aria desolata. La sola trattoria del posto era chiusa. Intorno, poche case coloniche dai cui muri fessurati facevano capolino le lucertole. Le cicale frinivano nel sole d’agosto. Il primo pomeriggio in posti come quello era pura solitudine. Lo speleologo si trascinò fuori dalla macchina. Annusò l’aria. Silenzio. La lamiera del cofano bolliva ticchettando come una sveglia da tavolo. Non c’era ombra sotto la quale ripararsi. Lui se ne fregò. Si caricò in spalla l’attrezzatura sorridendo. Era nel suo habitat naturale: nessuno scocciatore intorno e la possibilità di scovare un buco inesplorato da secoli. I suoi capelli argentei a spazzola, nonostante la sua giovane età, rilucevano al sole conferendogli un’aria da guerriero nordico. Vestiva come un perfetto boy-scout, aria paciosa a parte. Era di corporatura snella, con i muscoli che guizzavano sotto la pelle tesa. Non era bello, ma aveva il fascino dell’uomo avventuroso. Sul suo cammino non incrociò anima viva. Solo sassi e polvere. Il sentiero s’arrampicava tra muri a secco dirupi, terreni inariditi, ulivi contorti e secolari. Questa era l’essenza della montagna ligure, quella evitata dai turisti e abbandonata dai contadini. Pochi ne rimanevano ad abitarla, ancor meno quelli che la coltivavano tra fatica, sudore e bestemmie, lottando contro l’avarizia dei raccolti e la perenne siccità. Gianluca avanzava in quel moncone di Liguria arso e dimenticato. Risaliva a testa alta, imprecando di tanto in tanto. Neppure un alito di vento. La strada era un reticolo di rughe, segno di remote e scarse precipitazioni. Pensò che l’avarizia dei liguri fosse proporzionale a quella della loro terra e dunque giustificata. Un fruscio e un tonfo. Un cinghiale sbucò da un anfratto avvolto dai rovi. Il lanuto quadrupede scartò il bipede, tagliandogli la strada. In pochi secondi scomparve tra gli ulivi. Gian bestemmiò per lo spavento. Poi rise. Si sentì un pirla. Avanzò verso il Castrum Perti con il sole che gli bombardava la testa come una fortezza volante statunitense sull’Europa hitleriana. Lui resisteva indomito, sperando di arrivare a destinazione prima di fare la fine di Dresda. Iniziò a inerpicarsi lungo il fianco brullo della montagna. Dopo una mezz’ora di scalata in cui pensò a tutto fuorché a tornare indietro, arrivò al fantasma di una cinta muraria. Ci voleva un occhio clinico da archeologo per riconoscerla. Qualche pietra qua e là in mezzo a cespugli di mirto. Subito dopo ne rinvenne un’altra. Pietre accatastate diventate buone per ospitare serpenti e scorpioni. Ecco cosa rimaneva della secolare fortezza. Il mozzicone di una torre d’avvistamento, una chiesa romanica ancora in piedi e un’altra ridotta a rudere. Le sue intuizioni erano esatte. Ora doveva solo cercare un buco, anche solo una semplice fessura nella quale calarsi. Una parola. Iniziò a vagare a testa bassa. Cercò d’immaginarsi come potesse essere quel luogo secoli prima, chi lo abitasse, com’era la vita tra quei sassi erosi dal sole e dal vento. Le sue considerazioni s’interruppero bruscamente. La chiesa in rovina conservava ancora uno spettro d’altare. Vi s’inginocchiò. Non era certo andato fin lassù per officiare messa. – Eccolo – sussurrò come se temesse di essere sentito. Intorno a lui il nulla. Non riusciva a staccare gli occhi da quel buco che s’infilava dritto nella montagna. Che fosse il preludio a una grotta? Ci sperò intensamente. Mollò lo zaino all’ingresso dell’anfratto. Si munì solo di una torcia elettrica. Un’ultima occhiata intorno prima di scomparire dentro. Il passaggio era stretto, ma recava ancora le tracce dell’uomo. Affioravano tratti di muratura, segno che quel passaggio non fosse naturale, bensì scavato dall’uomo. Dopo qualche metro, sulla sinistra, intravide un ambiente più ampio, ingombro di terra dal quale spuntavano resti umani. Pensò all’antico ossario della chiesa. Tirò dritto. Non voleva aver a che fare con i morti. Nella sua carriera di speleologo aveva sempre preferito evitare posti come quello. Non per paura, ma per precauzione. I morti vanno lasciati riposare o possono risultare decisamente incazzosi e vendicativi. Il passaggio portava dritto a un pozzo. Gianluca vi si affacciò. Era sgombro da macerie. Azzardò. Vi scese senza difficoltà sempre solo con la torcia elettrica. Il materiale calcareo di cui erano fatte le pareti si sbriciolava come un biscotto. Il fascio di luce illuminò un dente fossile di squalo. Gianluca lo esaminò. Doveva essere il primo a mettere il piede in quel posto da tempo. Si chiese dove sarebbe arrivato. La risposta giunse dopo quattro metri. L’accolse una sala terminale ricca di concrezioni frutto del lavoro dell’acqua piovana filtrata durante i secoli. Gianluca si rannicchiò. Rimase a studiare l’ambiente che aveva di fronte. Si sentiva incredibilmente bene. Sollevato nello spirito, quasi rilassato. Gli accadeva raramente. Era come se quel posto emanasse un’energia positiva. Individuò una condotta ormai fossile. Un tempo vi doveva essere scesa parecchia acqua: era evidente una colata calcitica a forma di dorso di balena punteggiata da numerose vaschette. Una zona attirò l’attenzione dello speleologo. Rispetto alle altre risultava completamente liscia come se qualcuno ci avesse dormito per lungo tempo. Vi si avvicinò. In prossimità della colata calcitica era stata scavata una vasca per raccogliere l’acqua che vi colava. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Ora tutto esulava le sue ricerche. Aveva raggiunto il suo scopo. Di quel luogo aveva letto in un vecchio libro. Vi si narrava la presenza di un eremita che in epoche remote era vissuto nella chiesa di Castrum Perti. Quello era certamente l’anfratto che aveva accolto il mistico per anni. Lo speleologo si distese nell’incavo calcareo sentendo il contatto con la nuda roccia. Chiuse gli occhi. Nel silenzio sentiva solo il battito del suo cuore. Lento. Cadenzato. Regolare. Pensò a se stesso, ma non vi riuscì. Milano, il lavoro, la sua donna. E ancora lo stipendio, la fatica di guadagnare. Tutto gli scivolò di dosso. Come un vestito. Si sentì galleggiare in acque calme dominate dal crepuscolo. Non si chiese dove fosse perché non aveva alcuna importanza. Una barca immaginaria guidata da uno sconosciuto nocchiero. Lui sopra. Intorno il nulla. Si sentì sempre più piccolo fino a diventare minuscolo. Forse stava morendo. O forse nascendo. In entrambi i casi non era importante, trattandosi di un passaggio da uno stato all’altro. Lo speleologo aveva sempre pensato alla morte così. Una semplice trasformazione. Come l’acqua che aveva eroso quel rifugio sotterraneo: piovuta dal cielo, infiltratasi nella roccia per raggiungere le profondità fino a una sorgente sotterranea. E poi il ciclo sarebbe ricominciato. Cielo, terra, mare. Un ciclo continuo, eterno. Tutto scorre, la vita scorre. E noi con essa.
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