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EMMA
Frammenti di vetro mi trafiggono il cranio. Stringo forte gli occhi per resistere al dolore. Faccio un respiro profondo e balbetto qualcosa. L’aria è come fango: densa, viscosa, maleodorante. Come se mi fossi addormentata in un cassonetto; anzi, peggio.
In nome di Dio, dove sono?
Con estrema riluttanza, cercando di fare respiri meno profondi e di ignorare il pulsante mal di testa, sollevo le palpebre.
Sto sognando... be’, sto avendo un incubo. Sto avendo le allucinazioni, ecco. Non è possibile che questa sia la realtà.
Non può essere.
Sono in una gabbia. Una vera gabbia. Una luce cupa si riflette sulle sbarre. La rete metallica sotto di me affonda nel mio sedere nudo. Mi sposto e altre fitte di dolore mi trafiggono la testa. Mi lacrimano gli occhi mentre mi premo una mano sulla fronte e piagnucolo.
Il fetore di questo strano posto mi fa pensare a un logoro panno umido che mi copre il viso. Con movimenti lenti, agito la mano davanti al naso. Mi fanno male le braccia, come se avessi fatto un centinaio di flessioni. Ho anche un forte mal di stomaco. Ricordando che ho sempre delle medicine nella borsa, le cerco. Non le vedo da nessuna parte. Non vedo nemmeno le mie scarpe. Devo aver perso sia le une sia le altre venendo qui. Fanculo!
Afferro le sbarre, soffocando e ansimando. E resto di pietra.
Non sono sola. Intorno a me ci sono forme che non potrebbero mai essere definite "esseri umani". Creature? Alieni? Prodotti della mia immaginazione, in ogni caso. Stanno grugnendo tra di loro in una lingua che non potrei nemmeno sperare di pronunciare, figuriamoci capire, e mi premo una mano tremante sulla bocca per soffocare l’urlo che minaccia di sfuggirmi.
Non sta succedendo questo. Sto solo vivendo un terribile, vivido incubo. Tra un minuto mi sveglierò e mi ritroverò nel mio morbido e soffice letto.
Dopotutto, è quella la vita reale. Non è possibile che io sia davvero in una gabbia, sorvegliata, a quanto pare, da una mezza dozzina di cose che assomigliano a ciò che otterresti se King Kong si fosse accoppiato con un T-rex.
Alti quasi due metri e mezzo, hanno corpi enormi e musi luccicanti e piatti. Una spessa pelliccia nera copre i loro torsi e braccia, mentre le loro metà inferiori sembrano più... "lucertolose", con scaglie e code spesse, lunghe e smussate. Le braccia sono piuttosto corte, ma con dita dotate di artigli.
Non ho mai visto niente di così terrificante. Nemmeno nei film.
Inspiro un’altra volta profondamente ed emetto un colpo di tosse-borbottio-gemito. Al diavolo questa strana aria aliena. C’è un pugno, intorno ai miei polmoni, che li stringe. Non riesco a prendere abbastanza ossigeno.
Grandioso! Soffocherò nel bel mezzo di un bizzarro incubo.
Le creature devono avermi sentito. All’unisono, girano tutte la testa per guardarmi, inclinandola di lato come fossero uccelli.
Le fisso a mia volta. Devo avere un’immaginazione davvero impressionante, se dissemino così tanti dettagli in un sogno. Le creature si muovono con grazia fluida, contraendo le code dietro di sé.
Una di loro grugnisce qualcosa ad un’altra. La seconda si dirige a un tavolino in un angolo e torna tenendo in mano, gioia delle gioie, un’enorme siringa.
Odio gli aghi. Li detesto proprio. E questo quando vengono utilizzati da un essere umano preparato e professionale in ambiente medico, per la mia salute, non quando un ago di grandi dimensioni viene brandito contro di me da un’orribile creatura aliena mentre sono intrappolata in una gabbia.
Il panico, che già è a un livello mai raggiunto prima, aumenta di un’altra tacca.
“No!” urlo, facendo sbattere le sbarre della gabbia in un patetico tentativo di... fare cosa, esattamente? Piegarle o romperle, così da poter scappare? Spaventare queste enormi creature? “No, per favore, non infilarmelo dentro, per favore... Farò qualsiasi cosa... Voglio solo andare a casa”.
Un’enorme mano con la punta ad artiglio mi afferra un avambraccio e mi tira su contro le sbarre. La forza della creatura è innegabile. Se decide di non lasciarmi andare, non andrò da nessuna parte...
Mentre punta la siringa al mio collo, le mie dita dei piedi, nude e ancora incrostate di fango secco, raschiano il freddo pavimento di pietra.
Aspetta un attimo. Il mio collo?
“Non mi vorrai conficcare quella cosa nel collo!” Dico con tutta l’autorità cui posso fare appello. “Scordatelo! Non. Succederà”.
La cosa grugnisce. Sento una puntura acuta nel punto sensibile sotto l’orecchio destro, e poi, per la seconda volta in quella che presumo sia la stessa sera, tutto si oscura.