Capitolo 2
“Ner” Vophion Ioviu Attidiu era un nobile, anzi… il nobile, visto che lui era l’unico Ner di Trifu Attides.
Aveva 35 primavere alle spalle ed era figlio unico, né fratelli né sorelle, solo alcuni cugini che abitavano in un altro “Trifu” a non molta distanza dal suo villaggio.
I suoi genitori morirono molto presto; il padre, “Ner” Phisiu Ioviu Attidiu, cadde in battaglia combattendo contro i “Tuscer”, acerrimi nemici della “gens saphina”. Il suo corpo non fu mai recuperato; rimase sul campo con la gola aperta e l’armatura coperta di sangue, divenendo cibo per corvi e vermi.
Non si seppe mai più niente di lui.
Si narra che, qualche giorno dopo aver saputo della scomparsa del suo amato consorte, la sua compagna, presa dalla disperazione, cercò di raggiungere il luogo dove si era tenuto il tragico fatto d’arme, fatale per il nobile Phisiu, con l’intento di ritrovare e riportare nel proprio villaggio il di lui corpo senza vita, per dargli una onorevole sepoltura nel “Tumulos” della sua famiglia.
Non trovò mai il corpo martoriato del congiunto. Avvilita e presa dalla disperazione, sulla via del ritorno si suicidò, gettandosi in un dirupo.
Ancora oggi, nell’alta Sabina, esiste un dirupo, che la tradizione popolare chiama “Lu burrò della spusa” il burrone della sposa, dove vuolsi accaduta tale sciagura “de li tempi antichi” come dicono i contadini della zona nel loro dialetto locale.
Aveva dieci anni quando accadde tutto ciò, e, da allora, solo e senza esperienza, il Ner Vophion divenne il capo indiscusso e legittimo del “Trifu” di suo padre.
Solo il suo “magister” gli era al fianco, che completò egregiamente la sua istruzione di vita, di politica e di guerra.
I servi della “domu”, il castellare ligneo e turrito, la residenza ereditata involontariamente dalla sua famiglia scomparsa, situata al centro del villaggio, lo accudivano e lo proteggevano come fosse un loro figlio.
Mangiava con loro, beveva il latte di capra del fedele Luphu e si istruiva diligentemente con il suo precettore, un “veiro”, cioè un uomo libero non appartenente all’autorità del “Ner”.
Era un uomo molto vecchio dai capelli bianchissimi e lunghi, fin sopra le spalle.
Pur non appartenendo al “Trifu” di Vophion, abitava là da moltissimi anni, dai tempi di suo nonno che lo aveva conosciuto nelle rumorose vie di Reat e lo aveva scelto come “magister” per la sua prole e per tutti i giovani del villaggio.
Parlava l’incomprensibile lingua dei “Tuscer” e conosceva il dialetto degli “Ombrikos”, situati a nord.
Sapeva anche scrivere utilizzando un alfabeto particolare, ideato molti anni prima da un sacerdote safino della valle e, avvalendosi dei sassolini di fiume chiamati “calx”, utilizzati come fossero cifre numeriche, sapeva fare conti molto difficili.
Tutto questo lo aveva insegnato al giovane nobile orfano Vophion. Morì che il ragazzo aveva quindici anni; lui aveva superato gli ottanta – una rarità per l’epoca, considerando che la vita media era di circa quaranta-cinquant’anni.
Il nobile “Ner” crebbe sano e forte; aveva molte doti, ma più delle altre spiccavano l’intelligenza e la bontà d’animo.
I suoi occhi verdi emanavano una luce particolare; erano occhi furbi e calcolatori ma anche caldi e radiosi.
Aveva i capelli castani chiari, quasi biondi, lunghi fin sulle spalle e mossi con ciuffi ribelli che gli cadevano sul viso regolare e pulito.
La pelle era scura, abbronzata dalle lunghe permanenze all’aperto e dal clima secco presente negli altipiani appenninici.
A quindici-sedici anni cominciò a sviluppare la sua muscolatura: spalle larghe, vita stretta e gambe forti caratterizzavano il suo portamento piazzato e marziale.
Era un vero Adone, aveva cosce dure e nerborute ben proporzionate, braccia vigorose e bicipiti possenti, pettorali molto sporgenti e ben formati.
Era il sogno proibito di tutte le ragazze del villaggio e oltre. Una volta, quando aveva una venticinquina d’anni, fece perdere la testa alla stessa moglie dell’“Uhtur” di Reat, il quale, avendo scoperto il “fattaccio”, lo fece imprigionare.
L’infedele moglie venne esiliata; nulla più si seppe di lei, mentre lui, accertata la sua innocenza, venne perdonato e liberato.
Fu addestrato nell’arte della guerra direttamente dal “Gran maestro d’arme “del Battaglione Sacro della città”, e fin dal principio mostrò notevoli doti di guerriero indomito.
Maneggiava il “Kladiu”, la tipica spada italica a margini rialzati, con destrezza e determinazione.
Aveva la rapidità di un felino nell’assestare colpi tremendi e mortali, non dava scampo all’avversario: le sue stoccate erano imparabili.
Con il suo “saunion”, il giavellotto alato di origine “samnites”, era preciso e letale e non da meno si comportava con la lancia, chiamata in lingua safina “Teretes Aclydes”, per un’appendice lungo l’asta di cui tutt’ora si ignora la reale funzionalità.
Il suo fisico atletico lo avvantaggiava anche nel corpo a corpo e nei combattimenti stretti, dove si usava il “matreu”, un coltellaccio italico a lama ricurva simile alla “sica” di epoca romana.
Era un vero Achille italico.
Dopo aver salutato Luphu il pastore, si diresse con tutta fretta verso casa, dove lo attendevano un bel bagno caldo, una cena a base di agnello, miele e noci e un bel massaggio rilassante e tonificante che solo la sua serva prediletta Sephra sapeva fargli.
Arrivò sul ponticello retrattile di legno, salutò la sentinella con un cenno della mano e finalmente entrò nella sua dimora.
Due servi lo aiutarono a togliersi la “spongia”, l’armatura trilobata di bronzo tipica dei “Neres” safini, dopodiché gli sfilarono la “Mitria”, un protezione di cuoio per l’addome e infine gli schinieri.
L’elmo crestato non lo aveva: per fare esercitazioni non serviva, lo portava con sé solo durante le battaglie. In verità non amava molto indossarlo, gli limitava la visuale e, anche se poteva salvargli la vita, cercava sempre di farne a meno.
Entrò nella sala da bagno dove altre due ancelle lo attendevano per lavarlo e asciugarlo ai bordi di una piccola vasca incassata nel pavimento al centro della stanza.
L’acqua era calda e profumata, vapori aromatici invadevano l’aria già satura e una sensazione di benessere e pace pervase il giovane nobile quando si immerse fino al collo.
Venne insaponato e sciacquato diverse volte; alzava le braccia, allargava le gambe e si rigirava su se stesso proprio come un bambino piccolo.
Le due ragazze lo trattavano con molta professionalità e lui si lasciava fare, immerso com’era nel suo stato di assoluta quiete.
Aveva diverse cicatrici sul suo corpo statuario, ricordi di sanguinosi duelli e aspre battaglie, che gli conferivano un aspetto più virile e vissuto.
Alla sua età, aveva già partecipato a diversi eventi bellici, che andavano dalle spedizioni punitive contro gli odiati “Naharca” alla difesa dei confini dai temuti “Tuscer”.
Si era sempre distinto bene sul campo, tanto che, una volta, venne anche premiato dal “Uhtur” di Reat con un “Ansihitu”, uno speciale congedo da obblighi militari della durata di un anno da trascorrere nella lussuosa reggia del grande capo safino, per averlo salvato da un’imboscata che gli sarebbe costata la vita.
Combatté valorosamente in quell’occasione; venne anche ferito piuttosto gravemente da un dardo nemico, ma ne uscì vittorioso.
Venne il momento di uscire dalla vasca. Le due serve presero ad asciugarlo.
Iniziarono dalle spalle per concludere con le caviglie; i movimenti delle loro mani erano delicati e attenti, soprattutto quando dovettero asciugare le parti intime, ma la cosa veniva loro automatica; erano anni che lo facevano.
Vophion non aveva mai avuto da ridire sui loro modi e lui stesso era sempre educato e gentile nei loro confronti, tanto che a volte le invitava nella sua mensa.
Finita la cena, consumata piuttosto frettolosamente, andò a sdraiarsi su una specie di triclinio sistemato su una terrazza che dava verso la rumorosa città turrita e, sorseggiando del buon vino novello, si mise a contemplare il cielo stellato che faceva da sfondo a quella remota valle appenninica.
Era una cosa che faceva spesso, quella di godersi la frescura della notte dopo una giornata faticosa e calda.
Lì poteva riflettere e prendere decisioni senza il caos della servitù, in assoluta calma e lontano da tutti.
Quello era il suo momento mistico e nessuno lo doveva disturbare.
Quella sera aveva dei pensieri che lo assillavano; riguardavano la preparazione militare dei suoi “Iovies” e la “Lustrazione del Esercito” che si doveva fare a primavera.
La “Lustrazione del Esercito” era un’antichissima cerimonia a carattere religioso nella quale ogni “Trifu” safina della vallata schierava i propri armati di fronte ai sacerdoti di Reat, e quest’ultimi, con liturgie e riti propiziatori, benedivano gli armati infondendo loro forza e vigore, e li rendevano immuni dai nemici a loro volta maledetti.
Alla fine della cerimonia, i “Neres” e le loro “Kateres” di “Iovies” si esibivano in spettacolari evoluzioni militari e dimostrazioni marziali di varia natura.
I migliori venivano infine scelti dal grande Maestro d’Arme del Battaglione Sacro, il corpo di élite di tutto l’apparato militare della “Tutaper Saphina”.
Ner Vophion non voleva sfigurare davanti agli occhi del “Uhtur”, anzi, in cuor suo sperava ardentemente di poter fare ancora parte della prima Katera dell’esercito, come era già successo altre volte, ma era conscio che l’impresa sarebbe stata ardua.
I suoi Iovies erano molto giovani e privi di esperienza, non avevano mai preso parte a un combattimento reale all’infuori di pochi e Ner era consapevole che nella valle c’erano “trifu” che possedevano armati di gran lunga migliori dei suoi.
Era preoccupato, inutile nasconderlo, e, dopo aver bevuto il poco vino che era rimasto nel suo “Kantharos”, una coppa nerastra finemente lavorata con due manici laterali, decise che per rendere maggiormente competitivi i suoi giovani guerrieri era meglio farli esercitare tutto il giorno in una specie di caserma, lontani da qualsiasi distrazione.
Detto fatto, si alzò dal triclinio e andò a letto, soddisfatto della sua decisione.
Venne l’inverno, con le sue nevi e i suoi freddi, venne la primavera, con i suoi primi raggi di sole e l’odore dell’albicocco in fiore, e venne il giorno del grande evento: la cerimonia della “Lustrazione dell’ Esercito”.
Il principe di “Trifu Attides” e i suoi giovani uomini d’arme avevano lavorato bene nei freddi mesi invernali: si erano addestrati con determinazione e dedizione assoluta, avevano raggiunto ottimi livelli, sia nel combattimento individuale che in formazione.
Ce l’avevano fatta, e il Ner poteva essere fiero di aver trasformato figli di pastori, contadini e artigiani in perfetti opliti armati di tutto punto e disciplinati come si conviene ad una vera Katera.
Erano tutti là al Campo Marzio del villaggio, allineati e vestiti di cuoio e bronzo, con lance e spade vere e gli scudi imbracciati; aspettavano Vophion Ioviu Attidiu, il loro “Ner”, a cui dovevano obbedienza assoluta.
Il villaggio intero era davanti a loro che li ammirava; c’era un certo orgoglio nel vedere quel fior fiore della gioventù del “Trifu”, e tutti, alla grande cerimonia religiosa e militare avrebbero fatto il tifo per loro.
D’un tratto, dalla folla, si aprì un varco, seguito da un gran vocio e frasi di incitamento. I guerrieri si voltarono tutti da quella parte e, alzando la lancia, la micidiale “Teretes Aclydes”, lo salutarono.
“Ner! Ner!... Ner!!!” ripeterono per tre volte.
Il principe apparve in pompa magna, sfolgorando un bronzeo elmo crestato con crine di cavallo nero, che lo faceva sembrare più alto di quello che era.
La “Spongia” trilobata, lucidata a nuovo e decorata con nastrini rossi, gli cingeva anatomicamente il petto e, sopra di essa, due cinture borchiate di cuoio assicuravano il fodero del “Kladiu”, la spada corta e del “Matreu”, il coltellaccio a lama ricurva, sui rispettivi fianchi del corpo.