Luphu esclamò: “Hopa, Hopaaaaa!!! Siac!!!”
All’unisono, i tre cani iniziarono ad abbaiare, spingendo le pecore nella direzione della radura e il gregge composto e disciplinato si allineò lungo le rive del fiume per abbeverarsi.
Lo stesso fece il loro padrone che, inginocchiandosi, riempì la sacca di pelle e se la porse sulla bocca nascosta dal folto della barba bianca e incolta, sorseggiando con soddisfazione allietato dalla sensazione di frescura che l’acqua gli lasciava nella gola placando la sete.
Sistematosi infine la borraccia alla cintura, si voltò verso un moro selvatico e con un lungo respiro espulse dal suo corpo i liquidi indesiderati.
Riprese il viaggio, provato dalla fatica della lunga marcia; si sentiva però rigenerato, dopo aver bevuto avidamente, e le sue gambe malconce sembravano andare meglio.
Il villaggio era ormai prossimo; si intravedevano le prime case con il loro intonaci bianchi come la neve e i tetti rossicci.
Il fiume, in prossimità dell’abitato, si allargava rallentando il suo corso e formando delle pozze d’acqua profonda e calma.
Da sopra un masso, bambini seminudi e schiamazzanti vi si tuffavano, spingendosi come forsennati, senza badare al pericolo che vi si poteva celare cadendo male o battendo la testa su altri massi circostanti.
Luphu sorrise nel vedere tanta spensieratezza e felicità. Ripensò per un attimo alla sua fanciullezza, quando anche lui, insieme al suo fratellino minore e agli altri suoi coetanei, si lanciava con acrobatici tuffi nelle limpide acque del’Himella.
Larku e Narku, istintivamente, lasciarono il branco e, scodinzolando con le orecchie alzate, si affacciarono sul parapetto del fiume, abbaiando ogni volta che uno di quei fanciulli, con un gran tonfo, capitombolava nell’acqua sollevando spruzzi da tutte le parti.
La dolce Niche, sempre al fianco del suo padrone, si limitava a osservare la scena e a controllare i due suoi figli irrequieti.
La sua calma venne disturbata solo quando, con ordini secchi tipici di chi è abituato a vivere con i cani, Larku e Narku vennero richiamati nel branco.
Sbiascicando rumorosamente, dapprima diede un’occhiata fugace al vecchio pastore, poi, con aria disinteressata, si avvicinò agli altri due cani, riprendendo tutti insieme la marcia.
Erano quasi arrivati; l’intreccio di rami che sovrastava la strada e le grandi querce che la costeggiavano. D’un tratto sparirono per fare posto a uno scenario idilliaco, completamente diverso.
Campi lavorati, donne supine e contadini grondanti di sudore che battevano vacche soggiogate dal peso del vomere, creavano un’atmosfera georgica molto familiare al vecchio pastore.
C’erano le umili case dall’intonaco bianco e crepato, più o meno allineate lungo la via principale ed altre sparse tutt’intorno alla “Domu” fortificata del “Ner”.
C’erano recinti di pietra che nascondevano maialini e scrofe occupati a sgranocchiare mele selvatiche e ghiande di quercia, e c’erano anche le chiassose galline che sbecchettavano qua e là, sempre controllate da un gallo impettito e colorato di vedetta sopra un muretto.
L’odore della carne arrostita, uscendo dalle piccole finestre di quelle umili dimore, invadeva i cortili e le irregolari e larghe vie.
Luphu, il pastore, era felice, e mentre rifletteva, assorto, su quale dono doveva fare al solare dio Atys per ringraziarlo di averlo fatto ritornare a casa sano e salvo, avvertì una mano pesante appoggiarsi sul suo vecchio pugnale di bronzo che portava sempre al suo fianco:
“Salute, vecchio caprone spelacchiato!!!”
“Salute a te, nobile guerriero...” rispose il pastore riconoscendo il volto del suo padrone Vophion.
“Quanti lupi hai scannato quest’anno con questo giocattolo?”
Si guardarono per un attimo negli occhi. Poi, sorridendo, si abbandonarono a un caloroso abbraccio.
“Non ce n’è stato bisogno” replicò ironico il vecchio pastore “è bastato il mio odore a tenerli lontano…”
“Non ne dubito, vecchio matto di un pastore! Hai tanto di quello sporco addosso e tanta di quella puzza che non basterebbero tutte le acque del biondo Himella per ripulirti!”
Risero di nuovo e, malgrado l’odore decisamente caprino di Luphu, i due si riabbracciarono di nuovo, dandosi delle pacche sulla schiena in segno di amicizia.
“Sei sempre tu, padrone mio scellerato. Non cambierai mai… Eheheh, con i tuoi modi così delicati potresti rapire il cuore della stessa Kure, scatenando l’invidia di tutti gli Dei celesti...”
“Sì, amore mio…” sogghignò il “Ner” “...e magari ti potresti innamorare anche tu…” aggiunse malizioso, stiracchiandogli la barba lanosa e bianca.
I due risero ancora. La loro era un’amicizia vera, antica e pura. La differenza di età e la diversa estrazione sociale non intaccava minimamente il loro affiatamento.
Anche i cani, scodinzolando, fecero le feste a Ner Vophion che contraccambiò accarezzandoli a lungo e solleticandoli sul collo, cosa che gli animali apprezzarono di molto.
“Ma dimmi…” ricominciò il pastore dagli occhi corvini “cosa ci fai in giro da queste parti, fuori dal recinto della tua lussuosa reggia e vestito di metallo?”
“Ancora continui a giocare alla guerra? Non sei un po’ troppo cresciuto per fare queste cose?”
Il nobile uomo d’arme dapprima ridacchiò un po’ per la frecciatina velenosa, poi, con un’ espressione grave ma finta, inarcando un sopracciglio rispose:
“Bisogna tenersi sempre allenati e pronti all’azione…” guardò verso una radura dove un gruppo di “Iovies” stavano simulando, in modo molto scomposto, una “Katera”.
“Questi giovani di oggi sono molto indisciplinati, caro mio… e poi…” concluse con aria più ironica “chi ti proteggerà il culo mentre, zoppicando, fuggirai per i monti con la coda tra le gambe, braccato dai nemici venuti da occidente?”
L’effetto di quella battuta ironica aveva lasciato il povero Luphu alla mercè delle battutacce da osteria del “Ner”, che ora si apprestava sempre scherzosamente a bombardarlo di aggettivi volgari.
I due se ne dicevano di tutti i colori, fino a quando un grido che fece abbaiare i cani per la sorpresa non mise fine a quella diatriba briosa e molto colorita.
Si voltarono verso il Campo Marzio, dove i giovani opliti si stavano esercitando e notarono che uno di loro, ingiuriando contro tutti e tutto, si massaggiava la fronte.
Doveva aver preso una bastonata in testa da un commilitone, mentre simulava un duello con delle lance prive di punta.
“Hai visto che roba?” mugugnò Vophion “Si potranno mai respingere le schiere disciplinate dei Tusci o difendersi dalle razzie dei Naharca con questi smidollati?”
Il vecchio pastore abbassò lo sguardo, grattandosi l’orecchio sporco e peloso; fece finta di niente, alzò le spalle e con aria sufficiente sussurrò: “Che ci vuoi fare… sono giovani... non so se riuscirai a trasformare questi docili agnellini in guerrieri esperti e disciplinati, ma una cosa è sicura… ne avrai per un bel po’…”
Dopodiché, con un fischio, richiamò quelle pecore che nella sosta si erano allontanate un po’ troppo, seguito dai tre cani che, abbaiando, le ricacciarono nel branco.
Ner Vophion, senza distaccare lo sguardo dallo sfortunato fante, si diresse verso di lui per assicurarsi che non vi fosse nulla di grave.
Lo chiamò a se, lo fece inchinare un po’ per meglio controllare l’entità del trauma e lo rimproverò per non aver eseguito alla lettera un’azione di difesa tramite la lancia senza punta, errore che gli era costato caro.
Mentre lo tastava nel punto in cui aveva preso la botta, constatando che non era nulla se non un timido e violaceo bernoccolo, dava istruzioni agli altri “Iovies” su come si doveva maneggiare correttamente l’arma.
Tutti lo ascoltavano in silenzio stretti intorno a lui, memorizzando quelle parole che avrebbero potuto salvare loro la pelle in battaglia.
Con i larghi scudi oplitici rinforzati da coloratissimi dischi di bronzo e appoggiandosi sulle loro lance da esercitazione senza punta, se ne stavano lì, immobili come statue, coperti di sudore e oramai stanchi dopo un’ intera giornata di esercitazioni.
“Bene! O giovani lance safine… per oggi abbiamo finito. Tornate nelle vostre case, rifocillatevi e fate un bel sonno, domattina al cantar del gallo vi voglio tutti qua, al Campo Marzio!”
E aggiunse:
“Prima del sopraggiungere della stagione fredda, dovrete imparare a manovrare quel lungo bastone appuntito che si chiama lancia, come si conviene ad un esperto Iovie… Allora sì che potremmo formare una invincibile Katera!!!”
Salutati i suoi giovani guerrieri, ritornò da Luphu il pastore, che, assorto nei suoi pensieri, se ne stava appoggiato al suo lungo bastone, aspettandolo.
“Non ti starai mica annoiando, per tutti gli Dei!… Su con il morale…!”
Quelle parole lo fecero sussultare e quell’aria impassibile che aveva prima, d’un tratto sparì.
“Certo che no!” rispose il vecchio “Sono solo stanco e non vedo l’ora di coricarmi sul mio giaciglio… tutto qua.”
“Non sono più quello di una volta, nobile Vophion… e ogni anno che passa le mie membra si indeboliscono sempre di più… non ho né moglie né figli… Chi prenderà il mio posto quando non ci sarò più?”
E continuò: “Sarai costretto a trovarti un altro pastore, padrone mio… sai benissimo che mio fratello è debole e malaticcio, non può fare questo lavoro, non sopravviverebbe un mese, da solo, sul monte Kuretos…”
“Troveremo una soluzione al momento opportuno, vecchio mio... ma ora non ti affliggere per questo...” e, rincuorandolo, proseguì: “Porterai le bestie al pascolo per molte altre estati ancora, e al tuo ritorno avrai sempre modo di porgere doni sulla Favissa di Atys Solare!”
Al suono di queste parole, il cuore del vecchio pastore si ravvivò; Vophion era un “Ner” veramente speciale: sapeva metterti a proprio agio con battute piccanti come poteva toccarti il cuore con la sua grande umanità.
Dietro a quelle piastre di bronzo circolari che gli pendevano dal petto, c’era veramente un grande uomo.
I suoi genitori erano morti da tempo, e ora tutta la responsabilità del villaggio ricadeva su di lui.
Tutto ciò, però, non aveva inasprito il suo carattere, ma anzi lo aveva maturato prematuramente tanto che poteva considerarsi il “Ner” più giovane di tutta la valle.
“È tardi, giovane Vophion… il sole sta tramontando, incamminiamoci verso le nostre abitazioni…” battè il bastone sulla strada rozzamente lastricata e tutto il gregge all’unisono cominciò a muoversi.
“Hop!!! hoppa…sic!!!” I cani abbaiarono, le pecore belarono e finalmente entrarono nel caseggiato rurale.
Per un po’, i due marciarono spalla a spalla in silenzio, poi Luphu il pastore se ne venne fuori dicendo:
“Sei nel pieno delle tue forze. Perché non ti prendi una ragazza in sposa? Molti Neres di villaggi vicini sarebbero ben lieti di offrirti una delle loro figlie o sorelle…”
Stava parlando molto seriamente, e si sforzava di trovare le parole migliori per convincerlo.
Le ragazze di questo e di altri “Trifu” limitrofe stravedevano per questo ragazzone abbronzato dagli enormi pettorali ma dal cuore dolce e dall’animo gentile.
Quando passava tra di loro, lungo le strette e scoscese viuzze che dalla sua “Domu” portavano al Campo Marzio, bardato come Achille in procinto di sfidare Ettore sotto le mura di Troia e bruciato dai raggi del sole estivo, manine fugaci femminili scivolavano sotto il suo gonnellino di cuoio, accarezzandogli i robusti glutei o i deltoidi tesi che si contraevano e stendevano mentre camminava.
Lui sorrideva taciturno, avvertiva la “libido” delle femmine che lo importunavano, ma procedeva innanzi senza fermarsi, facendole sognare e soffrire per non poter avere quel corpo di tale grazia e bellezza.
“La mia donna deve essere speciale, Luphu, e i suoi occhi devono fissare i miei, non le mie cosce...” rispose Ner Vophion.
“E tu, piuttosto, dimmi… con quale pecora ti accoppierai stanotte?” continuò ironicamente sdrammatizzando l’atmosfera.
Se non fosse che il vecchio pastore e la sua mandria erano arrivati a destinazione, avrebbero ricominciato a stuzzicarsi come due bambini.
Il fratello di Luphu aveva già aperto il cancelletto di legno dell’ovile, in modo che le pecore vi potessero entrare, e ora gli veniva incontro giocherellando con i cani.
Gli diede il benvenuto e salutò educatamente il nobile guerriero che, dopo un’ultima manata sulla schiena del suo vecchio servo e amico, continuò per la sua strada.
Finalmente a casa! Non fece in tempo a finire la prima vera cena calda, dopo mesi passati a formaggio e pane secco, che stramazzò sul suo morbido giaciglio, mezzo ubriaco e con la pancia piena, in un sonno talmente profondo che neanche se lo avessero preso a schiaffi si sarebbe svegliato...
Finalmente era a casa!