Mitra e luccicanti schinieri completavano il suo equipaggiamento da difesa, il tutto coperto da un lungo mantello nero.
Anche Luphu il pastore, appollaiato sopra un muretto a secco, guardava con ammirazione il sopravanzare del suo padrone; l’inverno era oramai passato, e in quei giorni stava facendo i preparativi per portare di nuovo il suo gregge sui verdi pascoli del monte Kuretos.
Con il suo sguardo accompagnò il giovane principe fino al centro del Campo Marzio, dove giovani guerrieri irrequieti aspettavano con ansia di ricevere l’ordine di marcia.
L’ordine arrivò, accompagnato dagli applausi della gente presente.
I cento “Iovies”, ordinati e composti, si misero in marcia e mille sguardi li seguirono fino a che non sparirono all’ orizzonte.
Era una bella giornata, calda e assolata.
La turma di guerrieri, capeggiata dal giovane Vophion e accompagnata dal rumore delle loro armi, procedeva spedita per la sua strada.
Di tanto in tanto, qualche contadino curioso che stava lavorando i campi adiacenti alla “vea”, notandoli, li additava parlando sommessamente con dei bambini o strattonando altri che come lui si trovavano nei paraggi.
Reat non era molto distante da “Trifu Attides”: distava circa mezz’ora di cammino.
Bisognava costeggiare l’Himella per qualche chilometro, guadarlo attraverso uno stretto ponte di legno e risalire un costone tortuoso costeggiato da lunghe balze scoscese.
Arrivati in cima e superato l’ultimo tornante, si arrivava a un ampio altopiano ghiaioso, aperto e privo di vegetazione arborea.
Da lì, protetta da spesse mura megalitiche, la città dell’“Uhtur” dei Safini faceva la sua comparsa, imponente e orgogliosa.
Le sue torri, costruite con enormi blocchi di arenaria murati a secco e perfettamente intersecanti tra di loro, a distanza di cento passi l’una dall’altra, controllavano austere l’intera campagna limitrofa.
Arrivarono a circa cinquecento metri dalla monumentale porta fiancheggiata da due grandi torri quadrate, sopra le quali alcuni sacerdoti ed esponenti della milizia cittadina discutevano animosamente su come disporre le varie “Katere” per la cerimonia.
Gli “Iovies” di Ner Vophion dovettero pazientare un po’, prima di ricevere l’ordine di allinearsi su cinque file da venti guerrieri l’una.
Le dieci “Trifu” della vallata vennero disposte su due linee, cinque avanti e cinque dietro; ogni villaggio aveva mandato cento guerrieri, per cui in totale vi erano mille uomini, più i “Neres”.
Di seguito, la milizia del Battaglione Sacro e un piccolo esercito di varie autorità religiose.
Il popolo, da sopra gli spalti e dalle collinette a ridosso del grande pianoro, attendeva ansiosamente l’inizio della grande cerimonia, che sarebbe durata tutto il giorno.
Da sinistra verso destra c’erano la “gens” Etria, la Numisia, l’Attidia, la Stertinia e la Coccieia; dietro a loro la Essula, la Venecia, la Camuria, la Vielia e la Reta.
La Reta era la Katera di Reat, e l’avversario da battere per vincere la competizione militare; veniva addestrata direttamente dal Gran Maestro d’Arme.
La mattinata passò veloce, tra ordini e contrordini; un fugace pasto di mezzo dì ed eccoci all inizio della cerimonia, sancito da tre suoni di “tuba”, una sorta di tromba bronzea di forma molto allungata e senza ritorte, usata soprattutto in guerra.
Tutti i presenti si irrigidirono sull’attenti, aspettando disciplinatamente il seguire degli eventi.
Vophion, pietrificato come una statua, fissava il grande portone di quercia rinforzato con grandi borchie di ferro, dal quale da lì a poco sarebbe uscito il suggestivo corteo religioso composto dai sacerdoti augurali e dai banditori che indossavano la toga traversa del porporato.
D’un tratto, i battenti si aprirono; l’officiante e il suo seguito uscirono dalla città, e si disposero in cerchio intorno a un altare posizionato di fronte all’esercito safino, che attendeva impassibile.
Gli attendenti accompagnavano le sue orazioni con liturgie ancestrali ed esoteriche, mentre alcuni bambini vestiti di bianco correvano tra le Katere immobili, sventolando rami di ulivo e alzando un gran polverone.
Iniziò così la procedura della Purificazione Lustrale dell’Esercito.
L’officiante, attraversando tutto il campo e seguito da due inservienti, si recò sulle Rocce del Aruspice, uno sperone calcareo che sovrastava l’altopiano e la città stessa.
Ivi studiò il volo degli uccelli, quelli che gli arrivavano di fronte e quelli che arrivavano alle sue spalle, dopodiché si svestì e, seminudo, indossando solo la tracolla di cuoio, accese un piccolo fuoco in un vassoio portatile, custodito da uno dei due inservienti.
Fatto questo, formulò l’impegno con tutte le divinità safine, nominandole una per una e girandosi verso la città e la piana sottostante. Quindi, rivolto a tutti i guerrieri, esclamò:
“L’upupa è da destra: per voi e per la città di Reat… ‘Tutaper Saphina’!!!”
Poi scese dal Sacro Dirupo e, attraversando la via augurale, accompagnato dai banditori che indossavano la toga traversa del porporato e da tutti i Neres delle Katere, giunse nel piccolo tempio di Acedonia, situato alle spalle della città. Qui, dopo aver articolato sottovoce alcune frasi incomprensibili, alzando le mani e con fare minaccioso, lanciò anatemi contro i nemici del popolo safino...
“Che sia messa al bando la gente Tadinate, la nazione Tuscia, quella Japodica e i predatori Naharca!!!”
E continuò:
“Chiunque vi sorprenda un estraneo, lo faccia portare là dove stabilisce la legge, e gli faccia fare ciò che la legge stabilisce…”
I banditori ordinarono ai Neres di tornare dai propri guerrieri.
Una volta arrivati di nuovo sul grande pianoro, antistante la città, i banditori ordinarono a gran voce che tutti gli “Iovies” si ridisponessero secondo le loro tribù di appartenenza.
I giovani guerrieri, infatti, dopo la partenza dei loro comandanti per il tempio di Acedonia, avevano approfittato della loro assenza per rifocillarsi un po’, e per questo avevano rotto le righe creando un gran caos.
“Safini! Ordinatevi per curie e centurie!!!” gridarono a squarciagola.
Dopo un po’ di concitazione, ognuno riprese il suo posto, compreso Vophion che si fece scappare un sorriso malizioso dopo aver notato che i suoi si erano inquadrati prima degli altri, e se ne compiacque.
Una volta ristabilito l’ordine, i banditori con al seguito gli animali sacrificali iniziarono a fare dei giri intorno ai guerrieri, recitando delle preghiere sottovoce.
Fecero tre giri e ritornarono al fianco dell’officiante, ripercorrendo al contrario la medesima via.
Il grande sacerdote alzò le mani al cielo e, con voce tonante, disse:
“A voi... Dèi celesti e terreni!!! Siano offerti i doni...”
I giovani “Iovies”, in segno di approvazione, iniziarono a percuotere gli scudi con le lance.
Un fracasso assordante si espanse per tutta la valle, coprendo qualsiasi altro rumore circostante; i passeri smisero di cinguettare e i corvi di gracchiare, i cani smisero di abbaiare, nascondendosi con la coda tra le gambe, e cavalli e giumente arretrarono nervosi, impauriti da tanto fragore.
L’eco andava con il vento oltre le montagne della Sabina, al di là del sacro monte “Kuretos”; attraversava gole e valichi diffondendosi ovunque e dovunque.
A quel punto, i banditori portarono nel centro della grande area tre verri rossi e tre neri, che furono fatti salire sopra un grande palco ligneo sovrastante la gran moltitudine di armati sottostanti e tanto alto da poter essere visto da tutti gli abitanti della città e dell’intera valle ammassati sulle alture circostanti.
I tre animali vennero sacrificati a Serfo Marzio, dio primogenito dell’energia primordiale della vita e del vigore militare dei guerrieri, invocato in battaglia e osannato dai pastori delle montagne.
Macellati i sei animali, il grande sacerdote di Reat, seminudo, consacrò con la farina le loro carni e i vari prodotti della terra che venivano offerti man mano dai banditori.
Pregò in silenzio alzando le mani al cielo, mentre i giovani guerrieri, perfettamente allineati, seguivano la liturgia senza battere ciglio.
Poi venne invocata Prestota Serfia, un’altra divinità safina molto importante; vennero scannate tre porcelle nere e consacrate con il rito della fossa, funzione cerimoniale dove i tranci di carne degli animali sacrificati venivano seppelliti in un incavo sito nelle immediate vicinanze del piccolo tempio della Dea, sulla collina Rubinia.
Alcuni inservienti portarono via le scodelle usate per le consacrazioni precedenti e le cambiarono con altri recipienti neri e bianchi.
Venne gettata farina sulle Katere safine come segno di benedizione e vennero sacrificati altri animali per Torsa Serfia, la dea della pace e della tranquillità.
Tre vitelle vennero sgozzate e squartate.
Le carni furono cosparse di farina e, insieme ad altri prodotti della terra, vennero anch’esse consacrate secondo il rito della fossa.
Dopo diverse ore passate in piedi per la lunghissima funzione religiosa, Ner Vophion avvertiva dei piccoli crampi alle gambe.
Mosse le dita dei piedi per ravvivare un po’ la circolazione del sangue, fece una leggera smorfia di dolore nel constatare lo stato di torpore dei suoi arti inferiori, ma non si scompose e continuò a rimanere immobile fino alla fine della cerimonia.
Iniziò il rito dell’Offertorio nel quale una fila infinita di Safini oranti depositava in un sacello marmoreo piccole statuine schematiche di bronzo o piccole masse informi dello stesso metallo.
Altri inservienti cambiarono i recipienti sporchi di sangue con altri puliti.
Vennero sacrificate tre giovenche per Torsa Giovia, sorella della precedente dea, e le sue interiora riposte in bacili di bronzo che i banditori offrirono al Primo Ministro del Culto.
Finita la Santa Offerta e ritornato l’ordine nel campo, le interiora vennero macinate e cosparse di farina.
Tutto l’ordine sacerdotale presente, compresi i banditori e gli inservienti stessi, recitarono una preghiera.
Terminata l’orazione, venne tutto sepolto, sempre secondo il rito della fossa, insieme ad altri prodotti della terra.
Si era quasi alla fine dell’estenuante rito della Lustrazione dell’Esercito; non rimaneva che la liberazione e messa in fuga delle giovenche mature.
A un ordine prestabilito, i banditori fecero tre giri intorno alle Katere schierate dopodichè liberarono gli animali che si sparsero in tutte le direzioni.
Sul finire della stagione calda venivano poi ricatturati e condotti nelle stalle dei legittimi allevatori, i quali tutti gli anni erano tenuti a prestare le suddette bestie all’ordine sacerdotale di Reat per l’importante cerimonia.
Il nobile principe di “Trifu Attides” fece un sospiro di sollievo nel constatare che oramai si era alla fine.
Appena i religiosi lasciarono la piana rientrando con tutto il loro seguito nella possente città-fortezza safina, l’ “Uhtur” diede l’ordine del riposo e tutti gli uomini armati ne approfittarono per sgranchirsi un po’ e bere un goccio d’acqua.
Non faceva molto caldo ma il sole aveva brillato nel cielo azzurro per tutto il giorno e pur non essendo ancora estate i giovani “Iovies” si erano accaldati, infiacchiti anche dai lunghi ed estenuanti riti della Lustrazione dell’Esercito.
Vophion dapprima saltellò un po’, poi fece delle flessioni su se stesso per rivitalizzare le gambe irrigidite dalla prolungata immobilità.
Ora veniva la parte più congeniale al suo spirito guerriero, la competizione militare.
Bisognava dimostrare chi erano i migliori guerrieri della valle.
Iniziarono le prove, e i suoi si misero subito in bella evidenza, denotando disciplina e un’ottima preparazione tattica e dinamica.
Furono i migliori nelle varie evoluzioni e trasformazioni militari: formazione a cuneo, falange, cerchio, formazione a scacchiera e formazione d’attacco; passavano dall’una all’altra con rapidità e precisione maniacale.
Il giovane “Ner” impartiva ordini secchi e brevi, ai quali seguivano i movimenti immediati della sua “Katera”.
Il primo cittadino di Reat era compiaciuto di quel giovane comandante safino, e volle sapere da un suo attendente il suo nome.
Gli spettatori safini, appollaiati sulle alture circostanti, applaudivano o accompagnavano con degli assordanti fischi i guerrieri intenti nelle loro manovre.
Era un grande spettacolo ed erano accorsi da ogni angolo della valle per ammirare le finte battaglie di quei giovani opliti coperti di cuoio e di bronzo.
Per non parlare delle donne, e in special modo delle ragazze, occasione unica per loro di guardare con ammirazione il fior fiore della gioventù safina e di innamorarsi perdutamente di qualche bel principe con l’elmo crestato.
I guerrieri di Vophion erano giovani e forti ma, pur essendosi esercitati per un inverno intero, non avevano ancora la tempra e l’esperienza di altri più anziani di loro.
Il “Ner” lo sapeva, e non si adirò quando molti di loro persero svariati duelli all’arma bianca con guerrieri di gran lunga più rodati di loro, anzi, li rincuorava con una sonora pacca sulla spalla, assicurando loro che sarebbero migliorati con il tempo soprattutto partecipando a battaglie vere con nemici veri.
L’ira non era nel suo carattere, ma la comprensione sì e per questo i suoi “Iovies” lo avrebbero seguito fin in capo al mondo.
Le gare finirono; la Katera di Attides non vinse, ma si destreggiò bene eccellendo in diverse discipline fra cui il tiro con l’arco e il lancio del “Saunion”, il giavellotto safino.
Per la cronaca, fu la schiera della “Trifu Reta”, cioè della stessa Reat, che vinse il torneo; il loro addestramento era superiore a tutte le altre, e anche la loro preparazione fisica non era da meno.
Tra le loro fila figuravano veterani reduci di mille battaglie che mostravano le loro cicatrici con onore e vanto, prova del loro coraggio e del loro ardore marziale.
“Ner Vophion” comunque se ne andò soddisfatto. Anche se non aveva vinto la competizione, infatti, era consapevole di aver trasformato una banda di ventenni scapestrati e rozzi in una perfetta Katera che in battaglia si sarebbe fatta sicuramente onore.
La massima autorità politica dei Safini, finite le prove, aveva chiesto di lui, del suo nome e della sua “Trifu”; questo era già un premio, un’ottima gratificazione per il giovane nobile di “Attides”.