Capitolo 1
Valle di Reat, 13 giugno 532 a.C.
Luphu, il pastore, scendeva dalla montagna con il suo gregge di pecore. Con passo cadenzato e claudicante lasciava i freschi pascoli del monte Kuretos guidando l’armento giù per il ripido passaggio.
Conosceva bene quel sentiero e, benché lo avesse percorso fin da quando era tra le braccia di sua madre, i suoi occhi neri come la notte non smettevano mai di guardare per terra, analizzando attentamente tutte le asperità del terreno, cercando di non inciampare sulle sporgenze rocciose o tra le radici dei rovi che crescevano lungo la via.
Da secoli intere famiglie di pastori avevano percorso quel tratturo con le loro mandrie di vacche o pecore, per usufruire dei verdi pascoli delle montagne dell’alta Sabina.
La transumanza era praticata da tempo tra i popoli appenninici locali; il padre di Luphu, suo nonno e tutti i suoi antenati si servivano di quel passaggio accidentato per raggiungere la cima del monte Kuretos, sacro agli abitanti della valle.
All’inizio della stagione calda era usanza, tra i pastori della valle di Reat (la città rocca che emergeva con le sue mura megalitiche di arenaria tra i pioppi del meandrico fiume di Himella e i castagni delle colline circostanti), seppellire un “ex-voto” una volta raggiunta la sommità del monte.
Le offerte per la dea Kure, la dea della salute e guaritrice dei mali nonché protettrice delle mandrie, erano costituite da amuleti in bronzo o in piombo raffiguranti animali da pascolo o parti anatomiche umane come braccia, gambe o teste.
Anche Luphu aveva contribuito con il passare delle stagioni all’arricchimento della già copiosa stipe votiva.
Quando si era ammalato un montone, quando i lupi avevano sbranato e dimezzato il suo branco di pecore, quando si era fratturato una gamba cadendo da un scala posta a ridosso del fienile e per molte altre occasioni, si era rivolto sempre alla grande dea guaritrice, pregando, in solitudine, sulla cima erbosa del monte Kuretos, tra i venti gelidi di tramontana settembrini e i temporali improvvisi primaverili, incurante del freddo, della fame e della pioggia che picchiava insistente sul suo viso abbronzato.
Luphu era vecchio, nato da una famiglia di pastori. Per tutta la vita aveva condotto bestie al pascolo e fatto formaggio.
Non aveva una compagna, solo un fratello malaticcio e gracile che poteva dargli ben poco aiuto nel lavoro.
Quando portava le pecore al pascolo, lo lasciava a casa assegnandogli mansioni meno gravose ed impegnative.
Voleva sempre andare con lui, ma il vecchio pastore dagli occhi neri come la notte sapeva che la montagna era cosa dura e pericolosa, e lui teneva alla salute del fratello sfortunato, gli voleva bene e per questo lo lasciava a casa.
Oltre alle pecore, gli unici compagni di viaggio, fedeli e coraggiosi erano tre cani bianchi e pelosi di media taglia: Larku, Narku e la dolce Niche.
Niche aveva otto anni ed era la madre di Larku e Narku che avevano invece quattro anni; Larku era un po’ più grande di Narku, aveva una macchia bianca sulla fronte ed era molto geloso del fratello quando lo vedeva giocherellare con il proprio padrone.
Niche era molto più dolce e mansueta e se ne stava sempre al fianco di Luphu, leccandogli le mani in segno di affetto e proteggendolo dal freddo, come fosse una coperta quando dormivano all’aperto riparati da una grande quercia secolare o rintanati in una delle tante grotte carsiche esistenti sulle montagne sabine.
Tutti e tre prendevano il cibo direttamente dalla mano del vecchio pastore e, ora trotterellando e,annusando l’aria, lo seguivano in quella ripida discesa verso casa.
Ogni tanto si fermavano. Le ginocchia di Luphu non erano più quelle di una volta, e la gamba menomata lo costringeva a rallentare e riprendere fiato.
Quando camminava in salita non aveva grossi problemi, ma la discesa era una autentica “via crucis” per lui. Il peso del corpo gravava tutto sulle gambe e, scendendo, il contraccolpo dei passi, più l’irregolarità del tratturo, indolenzivano le sue ginocchia consumate dall’artrite.
Mancava poco per arrivare al suo villaggio adagiato sulle sponde di un piccolo ruscello chiacchierino, specialmente a primavera, durante il periodo del disgelo.
Mentre camminava, sognava a occhi aperti il suo comodo giaciglio e un bel pasto caldo; erano mesi che mangiava carne secca e pecorino duro ed erano mesi che non parlava più con nessuno, a parte qualche altro pastore come lui che incontrava tra le montagne, appartenente ad altri villaggi sparsi nella grande e verde valle di Reat.
Riposandosi, appoggiato sul suo bastone di faggio con l’estremità ricurva e scolpita, ammirava lo spettacolare panorama che aveva sotto di sé.
Il monte Kuretos era molto alto, il più alto tra tutte le montagne che circondavano la rigogliosa e fertile valle abitata dalla sua gente, e la visuale che si poteva avere da quell’altezza era veramente straordinaria.
La rocciosa Reat dominava la valle con i suoi bastioni possenti e le porte ciclopiche sorvegliate di giorno e di notte da guardie armate fino ai denti. Le si potevano scorgere da lontano, con le loro corazze di bronzo scintillanti fare la ronda sulla cortina turrita e difendersi dal freddo dei mesi invernali accanto a degli scoppiettanti falò.
Il “Palatium” dell’ “Uthur”, l’autorità suprema della città, sovrastava il resto del centro urbano; era il simbolo del potere militare e civile, cuore pulsante dell’intera valle, punto di riferimento della “civitas” stessa. Vi abitava con tutta la sua famiglia e la sua corte; da lì, di continuo, entravano e uscivano staffette portaordini e araldi di altre “nationes” vicine.
Reat, però, non era solo questo, ma anche un intreccio di viuzze rozzamente pavimentate e storte pullulanti di artigiani, fabbri, commercianti di ogni tipo e genere, e di bambini schiamazzanti.
Il nome completo del vecchio pastore che stava scendendo dalla montagna era Luphu Attidiu, pastore del “Ner” Vophion Ioviu Attidiu, principe guerriero della “gens Attides” consacrata ad Atys, dio del Sole.
Ogni “Ner” aveva una sua “gens”, costituita da una moglie, figli, fratelli minori, parenti e servi. Tutti insieme formavano un clan detto “Trifu”, che possedeva terre e armenti e che, anche se indipendenti tra di loro, formavano però una federazione molto solida al servizio dell’autorità suprema della città.
Quando l’“Uthur” di Reat dichiarava la guerra, i Neres erano obbligati a parteciparvi e, in caso di assedio, erano tenuti a difendere la città stessa a discapito dei loro villaggi lasciati alla mercè del nemico.
In battaglia, il principe guerriero doveva essere assistito da una schiera di “Iovies”, uomini di rango sociale inferiore, reclutati solo per l’occasione e quindi con poca esperienza militare che, formando la “Katera”, avevano il compito di respingere il nemico e di ospitare, al riparo dietro la schiera, il loro “Ner” stanco o ferito.
Ogni “Trifu” veniva indicata con un gentilizio, che era poi quello della massima autorità del villaggio, il padre della tribù, nonché fondatore del clan.
Vophion era il padrone e Luphu il suo pastore, ma ambedue appartenevano alla:
- TOTA SAPHINES -
- NAZIONE SAFINA -
Dopo aver bevuto un goccio d’acqua dalla sua fiasca di pelle, Luphu e il suo gregge ripresero il cammino.
Il tratto più pericoloso oramai era passato e dimenticato, il vecchio pastore poteva camminare più comodamente e accelerò quindi il passo, ansioso di arrivare al “Trifu”, il villaggio, prima del buio.
Il tratturo si era fatto più pianeggiante e non mancavano che pochi chilometri ancora per arrivare alla meta finale.
Aveva bisogno di lavarsi e radersi; sei mesi di vita eremitica tra i monti lo avevano reso irriconoscibile. Maleodorava, il contatto prolungato con gli animali, il sudore e la totale mancanza di acqua, ad eccezione delle rigogliose e gelide sorgenti montane, molto utili per abbeverarsi ma poco pratiche per lavarsi data la loro temperatura glaciale, rendevano il vecchio pastore barbuto più simile a un orso risvegliatosi da un lungo letargo che a un essere umano.
Il suo corpetto di pelle di pecora era pieno di insetti e ingiallito dal grasso del corpo umano.
La mantella di lana nera di caprone era lercia e sgualcita; tanti erano i buchi che sembrava fosse stato trafitto da uno sciame di api giganti.
I calzari di cuoio che gli arrivavano fino alle ginocchia avevano la suola usurata dalle lunghe marce in terreni accidentati, e il pollice calloso del piede sinistro faceva capolino da un buco.
Aveva con sé un coltello di bronzo fissato con delle borchie dorate a una cintura di cuoio sul fianco sinistro, una sacca di pelle per l’acqua ormai vuota e una specie di zaino anch’esso di cuoio, nascosto sotto la mantella sgualcita in cui riponeva provviste ed effetti personali.
Questo era il suo fardello personale che fin da tenera età lo accompagnava per le sue peregrinazioni alla ricerca di verdi e freschi pascoli per le sue preziose pecore.
Gli animali lo ripagavano con del formaggio speciale, spesso richiesto anche dai notabili più alti di Reat.
Il nobile “Ner” Vophion aveva un’alta considerazione di lui, dei suoi prodotti caseari e dell’ottimo latte di capra appena munto che tutte le mattine gli faceva avere tramite un servo.
Pur presentandosi in modo cencioso, Luphu il pastore era molto amato nel suo villaggio; taciturno e schivo, era però sempre gentile e servizievole con tutti, creandosi così una buona reputazione.
La famiglia del Principe gli voleva bene, e, seppur relegato al rango di servo, era sempre stato trattato bene e con rispetto.
Il tratturo finiva innestandosi su una strada più grande, parallela al fiume Himella, che tagliava la valle in due e tangente al grande insediamento murato di Reat.
La strada costeggiava l’impetuoso corso d’acqua per una decina di chilometri, non era lastricata ma disconnessa e ciottolosa; in inverno era quasi impraticabile dopo le pioggie e le abbondanti nevicate che si avevano in quei luoghi remoti nel cuore dei “Apennines Montes”.
Era comunque l’arteria principale della valle, chiamata “Vea” dai Safini. I solchi lasciati dalle ruote dei carri, che non di rado vi transitavano, ne confermavano l’importanza.
Ora tutto il gregge del pastore dagli occhi corvini invadeva la sede stradale; i cani scodinzolanti in coda e il padrone in testa formavano una colonna lunga, un serpente bianco gigantesco che spezzava la monotonia del paesaggio circostante.
Si poteva sentire il rumore incessante del calpestio delle pecore, che al loro passaggio si lasciavano dietro un tappeto di palline nere, i loro escrementi, la firma del loro passaggio.
La grande città fortezza era alle loro spalle, a monte del fiume, nascosta da un grande sbarramento di pioppi e mimetizzata dal folto della vegetazione spontanea tipica delle sponde dei corsi d’acqua.
Diversa cosa erano i rumori che giungevano da quella direzione, vocii, zoccoli di cavalli, incudini e cani irrequieti che davano energia cinetica a tutta la valle.
A mezz’ora di cammino, in direzione opposta, c’era invece “Trifu Attides”, il villaggio di Luphu il pastore, con le sue abitazioni povere tipiche di una società rurale sparse intorno alla “Domu” del nobile “Ner Vophion”, circondata da un aggere irto di pali appuntiti ed un fossato senza acqua.
Il sole era ancora alto e, malgrado la stagione calda, era quasi al termine.
La strada era incorniciata da enormi alberi dai rami molto lunghi, i quali, data la loro mole, accompagnavano il viaggiatore con una buona ombra nelle infuocate giornate estive, e lo riparavano dalla pioggia nei freddi mesi invernali.
All’improvviso, il vecchio pastore claudicante notò una radura tra la carreggiata e il tumultuoso corso d’acqua; constatando che le sue scorte idriche erano terminate e considerando che le bestie non avevano più bevuto da molto tempo da quando si erano fermati sulla Fonte del Passero, a metà strada tra dove di trovava ora e la cima del monte Kuretos, pensò bene di dirottare il gregge verso quella radura, in modo da poter far abbeverare gli animali e riempire di nuovo il suo stomaco di acqua fresca e salutare.