"Antefatto"

1471 Words
"Antefatto" Attiggio di Fabriano, 13 giugno 2010 d.C Cominciò tutto in un bel giorno di mezza estate… sembra il titolo di un film ma realmente, quella, fu un’estate particolare per me. Partiamo dal principio; la passione per l’archeologia è nata in me lo stesso giorno in cui sono venuto al mondo. Ho trascorso giornate intere tra le zolle di terra appena arata e slavata dalle piogge autunnali a raccogliere cocci e frammenti di tegole romane. Non mi sono laureato ma da perfetto autodidatta mi sono fatto una cultura niente male. Conosco molto bene la storia della mia regione e dell’Italia in generale; il mistero dei popoli passati che l’hanno abitata è il carburante delle mie ricerche senza fine. Ci sono ancora molti dubbi e molte ombre sulle civiltà preromane, la loro origine, la loro lingua e molto altro ancora; questo è ciò che mi fa sognare e rivivere quei tempi remoti... Cominciò tutto un bel giorno di mezza estate, come ho già scritto, in un piccolo paesino che non esiste neanche sulle carte, sito nella parte interna delle Marche, a ridosso degli Appennini. Si chiama Attiggio e, pur essendo sconosciuto al mondo intero, è però molto famoso nei salotti della Sovrintendenza archeologica delle Marche. Negli anni ‘60 furono condotti scavi archeologici che misero in evidenza un insediamento neolitico con frequentazioni posteriori, soprattutto del periodo piceno. Una decina di anni or sono iniziarono delle esplorazioni sistematiche dell’area in cui sorgeva un piccolo municipio romano che raggiunse il suo massimo splendore nel I-II sec. d.C. e che fu letteralmente spazzato via dalle orde di Alarico nel 409 d.C. Attiggio deriva dal nome dell’antico municipio romano “Attidium”, già nominato nella prima divisione regionale-amministrativa di epoca augustea e, se non fosse per l’incredibile storia che si cela dietro questo toponimo, si potrebbe definire come uno tra i tanti comunissimi “municipia” esistiti in epoca romana in ogni angolo dell’impero. Per quanto riguarda l’origine di questo antico insediamento, tutti i vari studiosi locali e non la collocano in una età molto remota e assai precedente alla conquista romana, esattamente agli albori della civiltà picena. Se comunque tutti gli storici sono concordi all’unanimità sull’origine picena del sito, altra cosa è invece per l’origine del suo nome, “Attidium”. Vi sono diverse teorie, fra cui due più accreditate: la prima riguarda un oscuro gentilizio di origine italico-romana e la seconda è l’incredibile storia che sto per narrare… Dopo due giorni di piogge monsoniche, in un bel dì, caldo e assolato, mi balenò in mente l’idea di fare una perlustrazione nell’area dove anticamente esisteva questa città romana. Quand la pioggia lava il terreno appena arato, dei cacciatori di reliquie come me possono avere delle belle soddisfazioni e quel giorno era l’ideale per scovare frammenti di ceramica “aretina”, monetine romane, marmi lavorati o laterizi con bolli di fabbricazione tra le zolle di terra ancora umide. Arrivai di mattina presto. Erano circa le 7.00, il sole all’orizzonte, ancora insonnolito data l’ora sicuramente insolita per svegliarsi, specialmente d’estate, quando la sera si fa tardi al bar, con gli amici del paese a bere e scherzare. Quella mattina trovai una situazione ottimale per la ricerca anche se si faticava un po’ a camminare nel campo reso melmoso dall’ultimo temporale. Le tasche del mio giubbetto verde, da cacciatore “cinghialaro”, come dicono i miei amici del bar, cominciavano a riempirsi di ogni cosa; la ricerca si stava rivelando molto fruttuosa, soprattutto per la quantità di oggetti rinvenuti, ma non speciale. Per speciale si intende un qualcosa che quando lo tieni in mano ti provoca un attacco di tachicardia, un brivido che ti attraversa il corpo e ti fa esclamare cose che non diresti neanche quando sei ubriaco, come l’oggetto mirabolante e ignoto che dissotterrai poco dopo. Bene o male, avevo setacciato attentamente la parte più pianeggiante dell’area archeologica e, dopo essermi rifocillato un poco, pensai di fare anche un’escursione in una zona periferica del municipio romano, esattamente sopra un pianoro alluvionale e ciottoloso a poche decine di metri dal fiumiciattolo che taglia la valle a metà e che nei tempi antichi doveva circoscrivere in parte l’abitato. Trovai pochi reperti e poco interessanti, frammenti di ceramica depurata grezza di colore rosso vivo, qualche tegola o piuttosto ciò che rimaneva di qualche tegola romana e una monetina tardo-imperiale consunta dal tempo e quindi indecifrabile. L’unica cosa che mi destava una certa curiosità era la colorazione del terreno, anomala per essere un terrazzo alluvionale. Normalmente il materiale di queste strutture terrazzate, residui di antichi depositi alluvionali pleistocenici, è costituito da ghiaie e ciottoli levigati dal passaggio dell’acqua, ma lì di fronte a me, alcune macchie di terra scura, più o meno equidistanti l’una dall’altra, mi indussero a ipotizzare che forse mi trovavo in presenza di un’area cimiteriale. L’aratro doveva essere andato più basso del normale toccando e asportando parte dei livelli sottostanti di quel terrazzo alluvionale. Di conseguenza, se vi erano delle sepolture, parte di loro era venuta in superficie creando quelle macchie di leopardo di terra scura e grassa, tipica delle tombe antiche. A quel punto decisi di setacciare con più attenzione la zona, soprattutto in corrispondenza delle macchie, dove, mescolati alla terra nerastra, vi potevano essere reperti molto interessanti, testimonianze delle antiche sepolture. Mentre ero chino in prossimità di una di queste, il mio ginocchio destro, che era appoggiato sul terreno, avvertì qualcosa di spigoloso che stava immediatamente sotto. Dopo una smorfia di disappunto per il fastidio causatomi dal corpo contundente, notai fuoriuscire dal terreno qualcosa di metallico dal colore grigio scuro. Estrassi l’oggetto e lo ripulii: era piombo. Pensai ad una comunissima grappa plumbea frequentemente usata in epoca romana per saldare grandi recipienti ceramici rotti o per stuccare buchi o fessure nei pavimenti o nei muri delle abitazioni. La stavo per buttare, quando, pulendola ancora a fondo, mi accorsi con grande sorpresa che si trattava di una rozza statuina di piombo rappresentante una figura umana di cui si potevano ben distinguere il volto, il corpo, un braccio intero l’altro a metà e parte delle gambe. Il braccio era alzato a quarantacinque gradi e anche l’altro doveva esserlo, le gambe leggermente aperte con il sesso leggermente evidenziato. Era lungo una decina di centimetri e largo circa 6 o 7. Tutta la struttura aveva una forma schiacciata, probabilmente ottenuta per martellatura, segno questo di una lavorazione piuttosto artigianale e sbrigativa. Tutti i particolari erano piuttosto schematici e sintetici, e l’ossidazione del piombo, insieme all’usura del tempo, conferivano alla statuina un aria primordiale e ancestrale. Non riuscii subito a datarla; era troppo grezza per appartenere ad un filone artistico ben preciso e da me conosciuto. Mi ricordo ancora l’emozione nel trovarla. Rimasi in apnea per diversi secondi, in preda allo stupore per quel misterioso oggetto. Come un bambino quando riceve un giocattolo nuovo, me lo giravo e rigiravo tra le mani. Stupore e panico aumentarono ancora di più quando, dopo averlo lavato con l’acqua dell’antistante fiumiciattolo, mi accorsi che c’era una scritta sul dorso della figurina plumbea; non era italiano, non era latino. Caratteri arcaici primeggiavano, staccandosi dal grigio fuligginoso del metallo ossidato dai secoli. Un’emozione immensa mi assalì in quel frangente. Ora ero consapevole di una cosa, di trovarmi di fronte non a un bel ritrovamento, ma a una cosa unica; non un oggetto da mettere in vetrina e da ammirare solo per il suo valore oggettivo, ma un reperto da studiare, un mistero da svelare, un viaggio nel passato… Tornai a casa ringraziando il Signore e tutti i Santi per avermi fatto trovare quell’oggetto incredibile. La sera, al bar, mi ubriacai. Grazie alla mia ottima cultura da autodidatta e ad alcune conoscenze preziose, non mi ci volle molto a decifrare quelle due parole di 7 lettere ciascuna. I caratteri appartenevano al “Piceno Meridionale”, un dialetto di origine Osco-Sabellica simile all’“Osco-Umbro” parlato in Umbria e nella parte settentrionale del Piceno. Questa lingua veniva parlata quasi tremila anni fa dalle genti italiche stanziate nell’alto Lazio, nell’Umbria e in tutta la fascia medio-adriatica. Tutt’ora rimane sconosciuta; solo alcune parole o frasi sono state tradotte e per lo più nomi di personaggi scolpiti sulle stele funerarie o su materiale fittile. La statuina di piombo che trovai si poteva ora datare, anche se con una certa approssimazione, ai primordi della civiltà picena. …E la frase, scritta sul dorso, era: T U T A P E R S A P H I N A che si può tranquillamente tradurre in “LA GENTE SAFINA”. Cosa vuol dire? Perché quella statuina picena si trovava nelle immediate vicinanze dell’antica “Attidium” piceno-romana? E perchè era così schematica come fosse stata forgiata da mani infantili? È una storia che merita di essere raccontata, ed è quello che proverò a fare nelle prossime pagine.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD