Capitolo secondo

2912 Words
Capitolo secondo “Allora raga, io vado in branda o domani sono mazzate a scuola,” annunciò il Gianca fuori dall’Excelsior. “Facciamoci una sizza e poi via a casa” propose offrendo le sigarette dal suo pacchetto di Marlboro. Tutti accettarono. “Vi è piaciuto il film?” chiese ancora tirando fuori lo Zippo. Lo accese sfregandoselo sui jeans: una mossa da autentici “galli”, più eri veloce nell’aprirlo e nell’accenderlo in quel modo, più eri oggetto di ammirazione. “Mi ha fatto cagare,” sentenziò Lollo, eterno bastian contrario. “Sappiamo tutti che tu non capisci un cazzo di film. Solo un cina può andare a vedere con la sfitinzia Bianca di Nanni Moretti,” lo sfotté Gianca. “Mi ha portato lei. Mi sono fatto un pippone con quel film” si giustificò il ragazzo. “Ma va’ là che ti è piaciuto, cina… Comunque, ciulotti11, io vado in branda. Sogni d’oro” tagliò corto il Gianca salutando tutti con un cinque. Poi, rivolto a Totò e Massimiliano: “Voi due andate in vita, vero? Fate i bravi, specie tu calabrisella.” “Ma vaffanculo, Gianca,” fu la risposta di Totò. Il capobranco sorrise e si allontanò facendo il dito medio. La compagnia, senza di lui, si sciolse. Massimiliano e Totò puntarono verso piazza San Babila. Erano da poco passate le undici. “Al Primavera sarà deserto puro. Che facciamo?” chiese Totò che voleva vedere la reazione dell’amico. “Andiamo a berci qualcosa. Poi vediamo.” “Te pareva. A te basta che ci sia Cinzia,” concluse Totò ridendo. Arrivarono in via Verri dopo pochi minuti. Si presentarono all’ingresso del locale. Sulla porta c’era Armando, il solito buttafuori: cento chili di muscoli e un’espressione per nulla amichevole. In realtà di solito era molto tranquillo e interveniva raramente. Lavorava come istruttore di body-building in una palestra del centro. Accanto a lui c’era Giuseppe, il direttore del locale. I due ragazzi erano conosciuti ed entrarono senza problemi. La discoteca a quell’ora era ancora un mortorio. “Dove hai parcheggiato il ferrarino, Totò?” fece Giuseppe dal suo metro e novanta di altezza. Biondo e riccioluto, era esperto di karate. “Se ti dicessi che dopo che ci lavoro tutto il giorno non ci vorrei andare in giro, ci crederesti?” “Ma falla finita, va’…” scherzò Giuseppe che lo aveva in simpatia. “Siete venuti a bere a sbafo?” chiese strizzando l’occhio a Totò. Massimiliano arrossì e Giuseppe, che sapeva della nascente tresca con Cinzia, gli diede una pacca sulla spalla. “Entra, Cinzia è giù che ti aspetta! E tu invece paga, che hai il portafoglio con la grana,” disse a Totò considerandolo più scafato. Giuseppe conosceva tutti coloro che frequentavano assiduamente il Primavera, dal più importante degli stilisti all’ultimo sbarbato, Totò compreso. Sapeva bene che il ragazzo aveva fama di essere un po’ un zanza, un mandarino come diceva Giuseppe in gergo. A parte questo, non era cattivo. Era ambizioso come tanti ragazzi di strada che in quegli anni sognavano la bella vita. Non c’era nulla di male, anche se Totò aveva sicuramente più pelo sullo stomaco rispetto a Massimiliano. Questo lo aveva fiutato fin dalla prima volta che lo aveva visto. “Agli ordini, capo,” rispose Totò ridendo. Con Giuseppe bisognava rigare dritto. Una volta, fuori dal Primavera, lo aveva visto sistemare dei tipi strafatti e molesti: nasi rotti e denti spaccati a volontà. “Non corrompere il tuo amico che è un bravo ragazzo,” gli disse Giuseppe tra il serio e il faceto. “Ma per chi mi hai preso?” fece risentito Totò, con un ghigno stampato in faccia. Nel frattempo Massimiliano era già sceso diretto verso il guardaroba, lasciando indietro l’amico. Dal locale proveniva Africa dei Toto. Solo dopo la mezzanotte il deejay entrava nella postazione e si cominciava a ballare con musica a tutto volume. “Ciao Cinzia,” disse Massimiliano, raggiungendo la ragazza che in quel momento stava appendendo il capo di un cliente. Lei gli sorrise e gli fece cenno di aspettare. Sistemò il giubbotto nel guardaroba, poi diede all’uomo il gettone numerato. “È un po’ che non ti fai vedere…” disse visibilmente contenta. Capelli castani, occhi azzurri, un ovale perfetto e un sorriso vagamente malizioso rappresentavano per Massimiliano un anticipo di paradiso. “Sai com’è, l’università e il lavoro... Non ho mai tempo…” rispose cercando di apparire meno impacciato del solito. “E tu invece?” “Io lavoro. Lavoro e sempre lavoro. Di giorno al bar e la sera qui. Lo sai,” disse lei con aria vagamente rassegnata. “Ci vorrebbe il principe azzurro che mi portasse via da qui,” scherzò, stuzzicando Massimiliano che non si decideva mai a chiederle di uscire. Lui parve rimanerci male. “Ma che faccia fai? Piuttosto perché non mi offri una volta tu da bere?” disse lei, allungandogli due fiche valide ognuna per una consumazione al bar. “Era proprio quello che stavo per chiederti,” balbettò lui emozionato. “Però te l’ho chiesto io… Non penserai che sono una poco di buono, vero?” “No, io… ma figurati!” rispose lui arrossendo. “Domani sera, magari?” propose incurante che fosse venerdì. Il Primavera “viveva” dal giovedì alla domenica sera. “Se vuoi uscire a bere alle cinque del mattino sì… Qui chiudiamo tardi.” “Già, che idiota. Non ci avevo pensato. Lunedì?” “Sì, lunedì. La sera più moscia della settimana... Ti va bene lo stesso?” “Ma certo! Dove ci vediamo?” “In San Babila alle sette?” propose lei. “Perfetto.” In quel momento sopraggiunse un altro cliente, intromettendosi tra i due ragazzi che stavano parlando. “Tenga anche il mio, signorina,” disse con fare mellifluo fissando Cinzia. Le lasciò il proprio giubbotto. “Aspetti, il gettone..” disse la ragazza, mentre lui si allontanava per raggiungere l’amico che lo aveva preceduto. Lui non si girò neppure, ma si piazzò al bancone con il compare. “Cafone del cazzo,” disse lei infastidita. “Mi tocca pure portarglielo,” aggiunse uscendo dal guardaroba per raggiungere l’uomo. Poco dopo tornò da Massimiliano. “E adesso vai a berti qualcosa anche tu, anche se è l’ora dei matusa,” disse lei riferendosi ai due che avevano preceduto Massimiliano. Avevano circa quarant’anni e l’aria da ruffiani in cerca di ragazzine. Le notti milanesi pullulavano di simili soggetti. Massimiliano avrebbe voluto darle un bacio, ma si vergognava. La salutò e andò anche lui a bere. Poco dopo lo raggiunse Totò, in uno stato di palese fibrillazione. “Dov’eri finito?” “Ero rimasto fuori a tenere d’occhio la situazione.” “Sì, certo.” “Allora, avete fissato la data delle nozze, piccioncini?” “Ti hanno mai detto che sei uno stronzo?” “Sì, tutti i giorni!” confermò Totò divertito. “Offrimi da bere, gino! Scommetto che hai un gettoncino anche per me, vero?” “Sì, come al solito.” “E non fare quella faccia da zombi. Allora ci esci o no? Glielo hai chiesto?” “Ma fatti gli affari tuoi…” “Dai, non fare il pirla e dimmelo.” Massimiliano sapeva che Totò non gli avrebbe dato tregua. “Usciremo. Lunedì sera.” “Cazzo! Dobbiamo festeggiare! Tu lunedì devi farla sentire una principessa. Vedrai che ti trovo il cavallo giusto sul quale presentarti.” Il barista servì loro due gin tonic. Totò scrutò la situazione nel locale. Calma piatta. “A quest’ora non si tacchina. Cala nel gargarozzo la medicina che c’è qualcosa di meglio da fare. Vedrai che non ne resterai deluso,” promise galvanizzato. “Che cosa hai in mente?” “Ti fidi di Totò?” “Siamo in una botte di ferro,” scherzò Massimiliano, per nulla convinto. “Appunto. Quindi bevi e seguimi,” gli ordinò l’amico scolando il cocktail fino all’ultima goccia. “Ma come fai a berlo tutto d’un fiato?” “Sei proprio un pivello,” rispose Totò sghignazzando e appoggiando sul bancone il bicchiere vuoto. Poi fece un cenno a Massimiliano. Quest’ultimo non comprese. Totò sbuffò. “Li vedi quei due arterio12 più in là? Hanno un mezzo da draghi, roba per intenditori. Vieni a vedere e poi dimmi. Anche un gino come te mi darebbe ragione.” “Cosa me ne frega della macchina…” abbozzò Massimiliano, che non aveva voglia di uscire visto che erano appena arrivati. “Dai, cinque minuti. Che cazzo ti costa? Dammi una soddisfazione.” “Ma perché?” “Non puoi capire… Dimentica la tua Cenerentola per cinque minuti. Poi ti prometto che torniamo giù! Eddai.” “Cazzo quanto rompi, Totò,” rispose l’amico con il tono rassegnato di chi non sa dire di no. Massimiliano si sforzò di bere il suo gin tonic. Ne avanzò metà. “Bravo, mollalo e seguimi.” Uscirono dal locale. Massimiliano salutò Cinzia mentre risaliva velocemente le scale del Primavera. “Esco un attimo. A dopo,” la rassicurò. All’ingresso c’era una comitiva di persone che si apprestava a entrare. Da lì a poco la discoteca si sarebbe riempita, secondo un rituale collaudato. I due amici sgattaiolarono fuori, passando inosservati alle spalle di Armando e Giuseppe, impegnati a far entrare i nuovi clienti. Totò si avviò lesto verso via Sant’Andrea. “Dove stai andando? Me lo dici?” insistette Massimiliano, perplesso. Quando Totò partiva in quel modo, la serata poteva prendere qualsiasi piega e la cosa non gli piaceva. Eppure non riusciva a dirgli di no. Totò non gli rispose ma allungò il passo. Arrivarono all’altezza del civico 11. Solo allora Massimiliano comprese le intenzioni dell’amico. Si sentì improvvisamente a disagio. Aveva paura di quello che Totò stava per fare. Si augurò che lo avesse trascinato fuori dal locale solo per lustrarsi gli occhi. A quell’ora la via era deserta. “Mentre ero fuori con Giuseppe sono passati davanti i due arterio. Ne ho vista una solo qualche anno fa. Ma ti rendi conto del mezzo?” La Jaguar E nera parcheggiata davanti a loro era un sogno ad occhi aperti, la leggendaria auto di Diabolik. Totò non poteva crederci. Massimiliano comprese l’eccitazione dell’amico. Era una macchina tanto rara quanto bella da perderci la testa. Anche lui rimase ad ammirarla. “Adesso che l’hai vista, possiamo tornare indietro?” domandò Massimiliano impaziente. L’amico parve non averlo nemmeno sentito. “Io vado. Se tu vuoi rimanere qui, fai come ti pare,” azzardò Massimiliano temendo il peggio. Totò scivolò accanto alla fiancata. Si guardò intorno. Trafficò vicino alla portiera. “Porca puttana, ma cosa fai…” borbottò l’universitario. Avrebbe voluto allontanarsi, ma non riusciva. Totò girava con in tasca quelli che chiamava “i ferri del mestiere”. Pochi secondi e scomparve nell’abitacolo. In parte era fatta. Ora doveva solo riuscire a metterla in moto. Dal marciapiede, Massimiliano lo guardava impietrito, incapace di ogni reazione. Salivazione azzerata, mani due spugne e paura a mille, come un patetico Fantozzi. Che cazzo stavano facendo, si chiese, sentendosi protagonista anche lui del misfatto. Un attimo prima era a parlare con Cinzia e a contare le ore che lo dividevano dal tanto sospirato appuntamento e ora era complice di un ladro d’auto. Pregò che la macchina non partisse, che Totò non riuscisse nel suo intento. In fondo era una macchina che non conosceva. I secondi si dilatarono diventando lunghi come minuti. La strada continuava a essere deserta, nessuno in vista. Il motore ruggì inconfondibile. Totò uscì dal posteggio. “Sali gino, cazzo fai?!” Massimiliano lo guardava inebetito. Poi, contro ogni buon senso, si piegò alla situazione e alla volontà dell’amico. Non riusciva a parlare. Passò davanti alla macchina e vi salì come un automa mentre tutto gli pareva un sogno. La situazione era folle e irreale, esattamente come le altre volte che lo aveva seguito nelle medesime imprese. “Cazzo, è fatta… è fatta! Andiamo gino… Questa sera non la dimenticherai mai!” proruppe Totò, che quasi non credeva di essere riuscito a rubare la Jaguar. Aveva tra le mani un autentico gioiello, come le Ferrari su cui lavorava in officina. La Jaguar sgommò e Totò lavorò di volante per tenerla in strada. Percorsero la restante via Sant’Andrea e tirarono dritti oltrepassando via Senato. Imboccarono la buia via San Primo. “È meglio che ce ne andiamo dal centro. Questa non è la solita cazzo di Giulia taroccata. È una iena da tenere a bada.” “È una cazzata, meglio lasciarla da qualche parte” mugugnò Massimiliano in preda a un cattivo presentimento: quella macchina non sarebbe passata inosservata. Se avessero incrociato la “madama” sarebbe andata male. Due pischelli al volante di una Jaguar E non si vedevano tutti i giorni. E poi non avevano le facce da figli di papà. Massimiliano iniziò a sudare freddo. Continuava a guardare nello specchietto retrovisore. Avrebbe voluto chiedere a Totò di farlo scendere ma si vergognava. Non riusciva a opporsi all’amico, a prendere in mano la situazione. “Ma ci pensi se lunedì vai all’appuntamento con questa? Quella te la dà la sera stessa,” scherzò Totò. “Sei pazzo se pensi che mi metta a guidarla. Dai, adesso che l’hai provata, molliamola da qualche parte e torniamo indietro! Ti prego, Totò…” Totò sembrava non ascoltare l’amico. “Non è una macchina facile, la tieni in strada con delicatezza. Devi essere deciso. Scoda che è un piacere e la prima non è sincronizzata” gli spiegò sfoggiando le sue conoscenze in materia. “Se non la vuoi provare, ok. Ma questa ci può far guadagnare parecchia grana. Cosa ne dici? Non dirmi che ti farebbe schifo portare Cinzia in qualche posto di lusso. Non fare il cina!” “Be’, quello magari…” mormorò Massimiliano che non vedeva l’ora di scendere dall’auto. Era la più bella sulla quale fosse mai salito. Probabilmente questa sarebbe stata la prima e ultima volta. La corsa dei due ragazzi si fermò in Città Studi, vicino a piazza Leonardo da Vinci. Massimiliano si sentì sollevato nel vedere l’amico che si fermava e accostava. Lì iniziava via Celoria, la strada dove erano soliti prostituirsi i travestiti. Di notte, le vie del Politecnico si animavano di queste presenze e dei loro clienti. Massimiliano se ne rese conto praticamente subito. “Che cazzo facciamo qui?” domandò incerto. “Cos’è, non ti piacciono i travoni?” scherzò Totò guardandoli dall’auto mentre passeggiavano sotto gli alberi agghindati e truccatissimi. “Gino, ascoltami bene. Devi fare quello che ti dico. Un’occasione così non ci capita più. Adesso ti porto indietro alla fermata dei taxi. Ne prendi uno e ti fai portare in centro. Prendi l’Abarth e mi raggiungi qui. Così mi accompagni a casa.” “Ma io non voglio guidarla, ho la patente da poco,” si giustificò Massimiliano. “Basta che vai piano, cazzo. E poi non c’è in giro nessuno a quest’ora. Non fare il coglione.” “E se la rovino?” “Minchia che gino che sei... Perché dovresti? Non posso lasciarla in centro, altrimenti domani mattina come cazzo vado a lavorare! E poi se non la riporto a Cesare quello mi apre la testa.” Il tono di Totò era quasi supplichevole, senza Massimiliano sarebbe stato nella merda. “Cazzo, farebbe bene Cesare a dartele. Vatti a fidare...” “Dai, non fare lo stronzo. E poi siamo soci in affari! Tu fai come ti ho detto e poi mi ringrazierai.” “Sì, soci… bel socio…” “Quindi? Deciditi oppure sparisci che è meglio…” “Va bene. Ma dopo non ne voglio più sapere, ok?” “Bravo gino!” Totò accompagnò l’amico in piazza Ascoli dove c’era un posteggio dei taxi. Massimiliano salì su una Fiat 124 gialla. Dopo mezz’ora si sarebbero incontrati di nuovo in via Celoria. Una volta sul taxi il giovane universitario riprese fiato. In quel momento perfino la macchina col tassametro che ritmava cadenzato il percorso gli sembrava più bella della Jaguar. Con le strade deserte raggiunsero corso Europa in dieci minuti. Arrivati a destinazione, pagò il tassista. Era la seconda volta che saliva su un taxi. La prima volta lo aveva preso per andare in stazione con sua madre e suo fratello. Entrò nell’Abarth con le mani che gli sudavano. Sapeva guidare, ma dopo le lezioni non aveva più ripreso la macchina. Attese qualche minuto, poi mise in moto. Guidò con addosso la paura che si aggiungeva all’ansia e ai timori frutto della serata. Si tranquillizzò dopo pochi minuti, convinto che ce l’avrebbe fatta. Una volta riaccompagnato l’amico a casa, la serata si sarebbe finalmente conclusa. Si augurò solo di non essere stato visto durante il furto. Ne era quasi certo. In caso contrario sarebbe stata la fine. Con questi tormenti arrivò in via Celoria. La Jaguar era ancora lì parcheggiata. Vicino c’era una bella di notte intenta a parlare con Totò. “Ma che cazzo sta facendo?” si domandò allibito Massimiliano, nel vedere la spontaneità con cui l’amico si intratteneva con il travestito. Non poteva sapere che Totò, per ingannare l’attesa, si era fatto fare un lavoretto sui sedili della sportiva inglese. Aveva voluto festeggiare il colpo in modo particolare. “Andiamo?” gli urlò Massimiliano strombazzando il clacson e accostando davanti a lui. Totò improvvisò una specie di saluto militare per dire che era pronto. Mise in moto. Salutò Lola, un metro e novanta di mascolinità occultata da calze coprenti e parrucca biondo platino. Arrivarono in piazza Corvetto, a quell’ora disabitata. Massimiliano era abituato a Brera dove grazie ai bar, alle trattorie, ai circoli e ai night poteva prolungare la sua vita notturna. In periferia, tutto sembrava abbandonato, quasi sinistro. Totò si infilò nel passo carraio di una vecchia casa di corte dall’aspetto malconcio. Lì aveva preso in affitto un garage abbastanza grande dove, nel tempo libero, metteva a posto le macchine degli amici. Entrò nel cortile a luci spente e si affrettò ad aprire la porta di ferro del garage. Una volta dentro con la macchina, spense il motore, scese e la coprì accuratamente con alcuni teli. Massimiliano rimase sulla Ritmo, fermo nel cortile sterrato. “Spegni il motore, gino! Vuoi svegliare tutti?” sibilò Totò. Massimiliano prese una sigaretta dal pacchetto che Totò aveva lasciato sul sedile e l’accese dopo essere sceso dalla macchina. Aveva le gambe che gli tremavano e sentì di averne bisogno, anche se non fumava volentieri. Al primo tiro tossì violentemente. Dopo cinque minuti Totò fece capolino dal garage illuminato dalla luce di un neon. “Ti riporto a casa. Dammi un minuto che chiudo” disse spegnendo tutto e scrutando il buio verso i ballatoi interni della casa. Sperava che nessuno avesse notato l’arrivo della macchina. Nel quartiere tutti si facevano gli affari propri, non era una zona facile, ma qualche occhio indiscreto poteva sempre esserci. Meglio stare in campana. “Salta su che per te è il coprifuoco. Butta però la sizza che Cesare odia il fumo,” disse Totò mettendo nuovamente in moto la Ritmo. “Non so come si faccia a fumare…” mugugnò Massimiliano buttando per terra la sigaretta e spegnendola sotto le scarpe. Ripartirono verso il centro. “Domani chiamo un amico. Lui sa come piazzarla. Ci facciamo un bel gruzzolo. Fifty-fifty, ci stai?” Massimiliano non disse nulla. Non aveva voglia di parlare. “Cazzo, non fare quella faccia da funerale! Ti fa schifo la grana? Eddai, che anche se la porti a casa non guasta. Fai un bel regalo a tua madre e non ci pensi più,” lo tranquillizzò Totò. “E se ci avessero visto mentre la rubavi?” “Ma piantala che non c’era nessuno… Ragioni come un ciulotto!” lo zittì l’amico. Massimiliano non riusciva a togliersi dalla testa che qualcosa potesse andare storto e non aggiunse altro. Nello stesso tempo era sicuro che l’amico avrebbe saputo come piazzare la macchina. Non era il caso di farsi troppi scrupoli e decise di allontanare dubbi e timori. Accese la radio e per un po’ i due amici non parlarono. Totò era il ritratto della serenità, già pregustava i quattrini. Arrivati a casa di Massimiliano si salutarono. “Se non ci vediamo domani, ti telefono. Ok socio?” “Va bene, buonanotte,” fece il ragazzo scendendo dalla macchina. Totò lo salutò ripartendo in sgommata. Massimiliano rimase per un attimo sul marciapiede a guardare l’auto che scompariva in fondo alla via. “Quello è tutto sciroccato” mormorò. Poi si avviò verso il portone. Era mezzanotte passata. Una luna quasi piena occhieggiava appena sopra il palazzo di fronte. L’aria era ancora tiepida. Ripensò a Cinzia e si sentì felice.
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