Capitolo primo Milano, settembre 1984

2844 Words
Capitolo primo Milano, settembre 1984 “Cazzo, sei proprio un gino1. Tutto casa e lavoro!” esordì il nuovo arrivato con fare canzonatorio. Capelli ricci, quel sorriso sfacciato che si ha solo a vent’anni, quando si pensa di avere il mondo in pugno. Il ragazzo si sedette su uno degli sgabelli al bancone. Due ragazze accanto a lui bevevano Coca-Cola. Erano universitarie della vicina Cattolica. Lui le guardò degnandole di uno sguardo da uomo vissuto. “Ma falla finita, Totò,” fece Massimiliano da dietro al bancone, strizzando l’occhio alle due. Venivano spesso al bar ed erano sempre gentili, e lui voleva evitare che l’amico se ne venisse fuori con una delle sue uscite. Totò non era cattivo, ma a volte non si rendeva conto di esagerare o, peggio, di sembrare ridicolo. “Hai finito o vuoi lasciarmi qui a fare la muffa con la gola secca?” “Piantala, ti do da bere solo se paghi…” disse sottovoce il giovane barista, e aggiunse: “C’è il capo alla cassa che ti sta guardando. Ci siamo intesi?” “Ma chi, il matusa?” “Appunto. Abbassa la voce, cretino.” Totò sghignazzò, ma poi si trattenne. “Dammi una birra, va’. Ma ne hai ancora per molto?” “Venti minuti. Arrivi sempre presto, pistola.” “Gino, io lavoro, produco e schizzo come una mina. Oggi il capo mi ha congedato prima. Gli ho tagliandato una 308 a tempo di record…” raccontò Totò ostentando la sua soddisfazione. Massimiliano scosse la testa divertito e gli spillò una birra. “Tieni, sparatela nel gargarozzo e taci,” scherzò Massimiliano, imitando l’accento calabrese dell’amico e il suo esagerato gergo da paninaro. “Che si fa stasera?” lo incalzò quello. “Sei tu quello che programma le uscite…” “Gino, senza di me saresti perso. Andiamo a tacchinare al Burghy poi cinemino? Qui fuori ho la car giusta. Te gusta?” “È tutto il giorno che preparo panini… Vorrei mangiare come si deve” rispose Massimiliano, sconsolato di fronte alla prospettiva di mangiare hamburger e patatine fritte. “Non fare il bamba2! Lì si va per le panozze, mica per mangiare. Oppure preferisci mangiare da mammà?” domandò Totò ridendo. “Non cambierai mai…” commentò Massimiliano rassegnato, ma divertito. “E poi a quell’ora magari troviamo la tua Cinzia… Vedi come ti faccio passare la voglia della pastasciutta di mammà!” Totò alludeva alla ragazza per cui l’amico aveva preso una cotta. Lei faceva la guardarobiera al Primavera in via Verri, mentre di giorno lavorava come cameriera in un bar dietro corso Monforte. L’aveva conosciuta una domenica al Burghy di piazza San Babila. Era un anno più grande di lui. Avevano amici comuni, ma lui non si era ancora fatto avanti ufficialmente. “Dai che è la volta buona che la inviti a uscire e poi... Taacc! È fatta,” disse imitando il Renato Pozzetto del film Il ragazzo di campagna, da poco uscito nelle sale cinematografiche. “Mi sa che non ti sopporta. Se mi vede con te, non me la darà mai.” “Bamba, vola basso. Sbrigati che ti faccio vedere il mezzo di stasera.” “L’autobus, immagino…” “Pirletta, in autobus ci vai tu stasera. Abbiamo la macchina… e che macchina!” “E dove l’avresti recuperata?” “No, non pensar male,” lo fermò il ragazzo mettendosi sulla difensiva. “Non l’ho zanzata3, è pulita. Me l’ha prestata Cesare, il proprietario dell’officina. Si fida di me, dice che sono in gamba.” “E cos’è?” “Ritmo 125 Abarth. Con quella cucchiamo alla grande.” “Se lo dici tu...” “E poi guarda qui!” “Ma cosa?” fece Massimiliano non capendo. Totò sollevò leggermente il bomber grigio griffato Avirex. “Sveglione, non fare quella faccia! Mica l’ho ciucciata! L’ho pagata una gamba4 a un amico che aveva bisogno di soldi. È nuova di trinca.” Anche Massimiliano avrebbe voluto una cintura El Charro, ma era fuori dalle sue possibilità. Con il lavoro part-time da cameriere al bar Reale di corso Magenta riusciva a pagarsi gli studi di giurisprudenza all’Università Statale e a togliersi qualche sfizio. Sua madre, vedova, con lo stipendio da portinaia, era sempre riuscita a garantire lo stretto necessario a lui e a suo fratello. “Mica vado in Montenapo a spararmi la fila fuori dal negozio come i bamba…” “Beato te!” “Dai, che se capita una giusta anche per te, ti avviso.” *** Massimiliano e Totò erano coetanei, tra loro c’erano solo quattro mesi di differenza. Il primo sognava di diventare un bravo avvocato e, un giorno, di sistemarsi. Studiava sodo e aveva pochi grilli per la testa. Stava vivendo gli anni della Milano da bere come tanti altri ragazzi, pieni di speranze e di illusioni. Tutto appariva a portata di mano con poco. Lavorava e gli piaceva stare in mezzo alla gente. Totò, al secolo Salvatore Morabito, veniva da una famiglia calabrese trasferitasi al Nord negli anni Cinquanta. Madre casalinga, padre operaio all’Alfa di Arese, viveva in una casa popolare in via Polesine, nei pressi di piazzale Corvetto, insieme ai genitori e ad altri due fratelli più grandi di lui. Aveva lasciato gli studi per la passione dei motori e adesso lavorava come meccanico, in un’officina di auto sportive. Portava a casa un ottimo stipendio e frequentava i locali del momento: il Primavera, il Nepentha e altri. Aveva solo un vizio: rubare auto. Quando vedeva una macchina che gli piaceva, non resisteva alla tentazione di farsi un giro. A volte si limitava a provarle, poi le abbandonava dove capitava. Altre volte invece le portava da chi le avrebbe riciclate, per farne pezzi di ricambio o mezzi per la malavita. Massimiliano a volte si lasciava tentare e lo seguiva nelle sue prodezze, provando l’ebbrezza del proibito. In Totò Massimiliano vedeva quello che anche lui avrebbe voluto essere: un po’ ribelle e guascone. A parte i millantati successi con le ragazze, era simpatico, in apparenza spaccone, ma generoso. Si erano conosciuti al Burghy di San Babila e avevano legato subito. “Allora, sbrigati! Sono già le sette passate…” insistette Totò spazientito. Guardava l’ora mentre il bar cominciava a riempirsi per l’aperitivo. “Calmati. Mica posso darmela a gambe…” sbuffò l’amico che aveva voglia di uscire, ma attendeva il “via libera” ufficiale del padrone, il signor Franco, che troneggiava dietro la cassa. C’era sempre un incrocio di sguardi. Metodicamente il signor Franco alzava la testa dalla cassa, guardava il grande orologio appeso, poi controllava l’orologio al polso, come fosse un rito scaramantico, infine scrutava il giovane barista. Gli faceva un cenno con la testa. Massimiliano a quel punto poteva andare. Era quasi un anno che il ragazzo lavorava al bar Reale, e se solo avesse voluto lo avrebbero assunto definitivamente, perché era sveglio, veloce e sempre gentile con tutti. Anche quella sera il signor Franco congedò il barista nel solito modo. “Finalmente. Adesso spicciati se no facciamo notte,” sbuffò Totò guardando con aria di sfida il signor Franco, che non lo vedeva di buon occhio. “Non fare il bamba, Max!” gli gridò dietro l’uomo mentre il ragazzo usciva dal locale con l’amico. “Stia tranquillo! A domani, signor Franco,” rispose Massimiliano, pronto a godersi la serata appena iniziata. Il mese di settembre portava ancora vivo nelle sue sere miti il ricordo dell’estate appena trascorsa. Era come se la bella stagione potesse continuare ancora a lungo e le sere milanesi si potessero prolungare vivendo la città all’aperto. Era giovedì, il giorno perfetto per vivere la movida milanese. “Allora, senti un po’ il programma: Burghy, poi ci spariamo un cinemino e salto in disco per sgranchirci le gambe. Ci stai?” “Ho alternative?” “Certo che no.” L’Abarth sgommò in mezzo al traffico già congestionato. “Tira di bestia. Non è una Ferrari, ma spinge. Senti qua, gino!” Totò tirò apposta le marce non appena il semaforo di via Santa Sofia, all’angolo con corso di Porta Romana, divenne verde. “Per essere una Fiat viaggia…” osservò Massimiliano, tranquillo nonostante la guida spavalda dell’amico. “Sì, ma gino, questa è un’Abarth. Accensione elettronica e doppio carburatore. Senti che rombo!” specificò scendendo in dettagli tecnici. “Pura libidine.” Massimiliano era galvanizzato dalla passione che Totò aveva per i motori. Sognava a occhi aperti, lui che non si poteva permettere neppure una Cinquecento e che per andare in vacanza da sempre prendeva il treno. Senza Totò non sarebbe mai potuto salire su un’auto così. Il giovane universitario accese la radio. Trasmettevano Hungry like the wolf dei Duran Duran. “Alza a palla! Arrivano i cucadores!” gridò Totò gasatissimo, guidando al limite e attirandosi le ire degli altri automobilisti. “Ma se fai il ciocco?5” “Bamba, per chi mi hai preso? Guarda che manico che sono.” In dieci minuti arrivarono in piazza San Babila. “Che piena!” commentò Massimiliano notando che il Burghy era come al solito affollato di paninari veri o presunti tali. Tra i presenti sperò di vedere Cinzia, ma c’era troppa gente. “Scendiamo e facciamoci un giro” disse Totò parcheggiando di fortuna in corso Europa. “Se passa il ghisa6 mi fa il culo. Sto sulle strisce.” “Vuoi cercare un altro parcheggio?” “Negativo. Sei fuori di melone? Scendi e speriamo bene.” I due si avviarono verso il locale dove si conoscevano tutti. Totò faceva l’impossibile per frequentare l’ambiente della “Milano bene” di quegli anni. Tentava di celare le sue origini meridionali, ma l’appellativo di “calabrisella”, datogli da qualcuno a cui stava sulle palle, ormai era divenuto un marchio di fabbrica e si diffondeva come la peste. “Arriva il calabrisella”, dicevano quando lo incontravano. Totò un po’ se ne fregava, ci rideva su e rispondeva per le rime al “polentone” di turno. Altre volte invece la sua anima calabrese prevaleva sulla ragione. “Ti ripasso con la lama, cacanebbia” era la sua risposta. Era risaputo che Totò girava con il coltello, e in genere il galletto di turno abbassava la cresta. I due amici entrarono nel locale e salutarono alcuni dei presenti. C’erano Giancarlo “Gianca”, considerato un capobranco, Lorenzo “Lollo”, Dario e Giorgio Vergani “il Vergani”, secondo l’usanza milanese di appellarsi per cognome. Erano tutti aficionados del Burghy, con le loro ragazze al seguito. Indossavano la perfetta divisa del paninaro: felpa Best Company, stivali Durango per i tipi più tosti, Timberland d’ordinanza, jeans Levi’s, camicia Armani, cintura El Charro. Tra le ragazze spopolavano gli accessori Naj-Oleari e Fiorucci. Erano milanesi veraci. Qualcuno frequentava l’ultimo anno del collegio San Carlo, altri il primo anno di università, naturalmente Bocconi o Cattolica. Erano figli di liberi professionisti o industriali della Milano che contava. “Sei in giro con il Vespino?” li accolse il Gianca, sorridendo sornione a Totò. Accanto a lui c’era Giada, una biondina che faceva gola a tutti. Aveva già fatto delle pubblicità per una tv privata e l’anno dopo sarebbe andata all’università. In realtà sognava una carriera da fotomodella o come soubrette nel mondo dello spettacolo. “Vespino? Non sono mica come te che vado in giro su due ruote per risparmiare,” gli rispose Totò scherzando. La garanzia che il Gianca fosse al Burghy, la sua seconda casa, era la Kawasaki verde tre cilindri parcheggiata sul marciapiede. “Sentiamo con cosa sei arrivato. Magari col ferrarino ciulato in officina?” ironizzò Dario, che non sopportava Totò e non perdeva occasione per ricordargli le sue umili origini. Massimiliano lo squadrò con aria incazzata. Il capobranco intervenne energicamente per ristabilire l’ordine. “Calma, Dario. E poi tu sei l’ultimo che può parlare, visto che il tuo papi ha la Ferrari degli operai,” lo zittì il Gianca che amava pungolare Totò, ma sapeva anche tenere a freno la lingua dei suoi sottoposti. “La Mondial è la Ferrari pacco. Lo sanno tutti tranne suo padre,” aggiunse il Gianca strizzando l’occhio a Totò. Quest’ultimo rise. Tra i due c’era un buon rapporto. Il Gianca si teneva buono Totò quando aveva bisogno di farsi fare qualche lavoretto alla moto. “Ho una Ritmo Abarth stasera. Da zero a cento km in sette secondi.” “Poco più della tua Mondial,” commentò Lollo con aria distratta per lanciare la frecciata a Dario. “Vaffanculo, Lollo,” ribatté il ragazzo sorseggiando la sua Coca-Cola. “Noi stasera andiamo al cinema,” disse Totò cambiando argomento. Intanto Massimiliano si guardava intorno nella speranza di vedere Cinzia. “Indiana Jones?” “Lo danno all’Excelsior alle nove,” rispose Totò. “Si può fare. Ma prima devo passare da casa. Vieni con noi?” domandò il Gianca a Giada. “Mio padre mi ammazza se esco anche stasera” sospirò lei dispiaciuta. “Allora ti do uno strappo fino a casa” fece lui. Lei gli sorrise e lo baciò. In quel momento era il maschio più invidiato del locale. Anche Massimiliano sperava di fidanzarsi un giorno con Cinzia. Avrebbe solo dovuto trovare il coraggio di invitarla a uscire. Magari glielo avrebbe chiesto quella sera stessa. Se fossero passati al Primavera sul presto, prima che cominciasse la serata, avrebbe potuto parlarle. L’ideale sarebbe stato poterlo fare senza Totò, che lei non sopportava. Quando andavano in discoteca lui si fermava sempre a scambiare quattro chiacchiere con la ragazza, e lei di nascosto gli allungava sempre le fiche delle consumazioni, che le spettavano come dipendente del locale. Cinzia non era una bevitrice, al massimo prendeva un’aranciata. Le piaceva Massimiliano per i suoi modi. Era un ragazzo semplice, normale, anche un po’ imbranato rispetto ai vari galletti più o meno giovani che ci provavano con lei. Quel suo essere quasi impacciato la intrigava. *** Massimiliano e Totò rimasero per un po’ ai tavoli del fast food. Presero due panini con patatine fritte e Coca-Cola ghiacciata. Mangiarono in compagnia di altri amici e conoscenti. Quel posto, mai deserto, era una garanzia per i ragazzi milanesi. “Ci facciamo un caffè alle Tre Gazzelle?” propose Massimiliano. “Ok, fammi parcheggiare la car meglio o mi blindano.” Si avviarono verso il parcheggio, Totò salì in macchina e pilotò l’auto verso un posto migliore, nei pressi di largo Corsia dei Servi; poi tornò dall’amico. “Andiamo a vedere due zinne prima del caffè?” gli propose mentre passeggiavano di fronte al Teatrino, lo storico locale di spogliarelli. “Cazzo, mi vergogno.” “Sei l’unico gino che arrossisce di fronte a una fregna. E dai, c’è il mio amico Roberto che ci fa entrare. Un po’ di arrapation non guasta,” continuò Totò, che ormai aveva deciso e voleva entrarci a tutti i costi. “Sei sempre infoiato!” “Certo! Mica sono innamorato di Cinzia come un bambascione che conosco,” scherzò Totò, che non vedeva l’ora di entrare a rifarsi gli occhi. Erano gli anni in cui si esibivano a rotazione anche le pornostar. Totò trascinò l’amico riluttante fino all’ingresso del locale, e i due entrarono. Massimiliano si sentiva in imbarazzo. Roberto era un lontano parente del padre di Totò, che il ragazzo chiamava “zio Robi”. Quando era in zona guardava se Roberto era lì a lavorare e gli chiedeva di farlo entrare nel locale a scrocco. In cambio, la domenica gli faceva qualche lavoretto di ordinaria manutenzione alla macchina. “Zio Robi, ci fai entrare?” chiese Totò presentandosi. Nel riconoscere la voce del ragazzo l’uomo alzò gli occhi al cielo. Dietro i tendoni scuri alle spalle di Roberto si celava un mondo proibito e inimmaginabile per i ragazzi della loro età. Lì potevano entrare gratis e godersi gli spettacoli, senza offrire da bere a spogliarelliste e ragazze di vita, una consuetudine tipica dei night. Il pubblico del Teatrino era molto âgé, quasi tutti pensionati che si dividevano fra questo locale e i restanti cinema a luci rosse sparsi in città. “Sempre voi due rompicoglioni… Ma non potete trovarvi la fidanzata?” esordì l’uomo dall’aspetto segaligno, la sigaretta in bocca e un paio di occhialini da vista calati sul naso aquilino. A Massimiliano facevano impressione i suoi denti gialli da incallito tabagista e il sorriso luciferino. Aveva labbra sottili, quasi femminee, sormontate da baffi neri come il carbone. “Eddai, zio, facci entrare… Cinque minuti! Dopo ce ne andiamo. Il mio amico non ha mai visto la fregna…” ironizzò Totò. “Piantala, cretino” sibilò stizzito Massimiliano, che si vergognava di essere lì dentro. Sperava che nessuno dei loro amici li avesse visti entrare. Peggio sarebbe stato se Cinzia lo avesse saputo. Massimiliano si sentiva a disagio e non vedeva l’ora di andarsene. “Dieci minuti, non di più. Poi sparite, questa non è la parrocchia” rispose l’uomo, mostrandosi infastidito. Alla fine, però, non gli negava mai l’ingresso. I due ragazzi si trovarono così a respirare quell’aria pesante di fumo e trasgressione che sopravviveva all’ombra del Duomo. I loro occhi erano puntati sul palco, dove si stava esibendo una bionda maggiorata che indossava solo un paio di sandali. Ballava, per così dire, al ritmo di una musica caraibica, non lasciando nulla alla fantasia dei presenti. Trascorso il tempo pattuito, Totò e Massimiliano si ritrovarono in corso Vittorio Emanuele. “Io non ci sto dentro. Ma l’hai vista quella? No, dico, ma tu come fai a preferire una come Cinzia a quella che abbiamo visto?” Massimiliano rideva. Ogni volta che uscivano dal Teatrino, Totò era come invasato e i suoi ormoni andavano a mille. “Una sera devo presentarmi in Ferrari e una così me la faccio al volo. Ci credi o no?” “Sì, magari la prendi in prestito in officina a qualche cliente che te la lascia per il tagliando… Tu sei fuori come una biglia” lo riprese Massimiliano, quasi certo che l’amico ne fosse capace. Si augurò che fosse solo una cazzata del momento. “Se non azzardi sei fregato, rimani al palo. A volte mi sembri un cina7, se non ti conoscessi.” “Un cina io? Ma falla finita. È solo che mi piace la tranquillità. Mi basterebbe Cinzia…” “Sì, tu sei un cina dentro. Finirà che verrò a prenderti in qualche casa delle loro… come si chiamano?” “Le comuni?” “Vedi che lo sai… Sei un cina camuffato, cazzo!” scherzò Totò. Arrivarono alle Tre Gazzelle e presero due caffè al bancone. Si guardarono intorno, il bar era deserto. Ritornarono in strada e guardarono le vetrine dei negozi. “Prossimo acquisto le Timberland e a dicembre mi faccio il Moncler. Dovrei starci dentro…” “Ti danno anche le mance?” “Ci sono due o tre clienti che mi hanno preso in simpatia, sono miei compaesani.” “Ecco svelato l’arcano! Chissà come li fai su con i tuoi giri di parole,” ironizzò Massimiliano che già immaginava i salamelecchi dell’amico per accaparrarsi le simpatie dei proprietari delle Ferrari. “Genza8, mica basta fare il simpa. Devi essere un gallo coi motori oppure ti sbattono fuori dall’officina…” Per l’ennesima volta Totò raccontò quanto fosse bravo e preciso quando si trattava di fare la registrazione delle valvole e come il suo orecchio fosse sintonizzato con i carburatori. Tirarono l’ora dell’inizio del film e si ritrovarono con il resto degli amici, come sempre tutti intorno al Gianca. “Allora, tarri9 che non siete altro, mancavate solo voi. Pronti per l’Indiana?” li accolse il leader del gruppo. Totò e Massimiliano si aggregarono agli altri, in fila fuori dal cinema. Qualcuno, tra coloro che erano già in coda, protestò vedendo i nuovi arrivati posizionarsi davanti. Gianca, che aveva la fama di randa10, mise a tacere ogni protesta. “Il primo che rompe, lo legno subito,” annunciò a nessuno in particolare mentre infilava una mano nella tasca in cui teneva il tirapugni. Le proteste erano comunque giunte da un gruppo di ragazzetti innocui e l’alterco si concluse lì. Dopo venti minuti erano tutti dentro al cinema.
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