III
Ogni martedì Hélène invitava a cena il signor Rambaud e l’abate Jouve. Furono loro - nei primi tempi della sua vedovanza - a forzare la sua porta e a preparare la tavola, con un disinteresse degno di veri amici, per trarla ogni settimana almeno dalla solitaria reclusione in cui viveva. Col passare del tempo quelle cene del martedì erano diventate una ricorrenza. I commensali si riunivano come per un impegno solenne alle sette precise, e sempre con identica gaiezza.
Quel martedì, seduta alla finestra, Hélène lavorava a un vestito, profittando dell’ultima luce del crepuscolo, in attesa dei suoi ospiti. Viveva così le sue giornate, in una pace davvero dolce. Ogni rumore pareva destinato a estinguervisi. Amava quella stanza dalle vaste proporzioni, tanto calma e colma di lusso borghese, con i suoi palissandri e velluti blu. Quando i suoi amici l’avevano trasferita, senza che lei avesse a preoccuparsi di alcunché, un poco aveva sofferto, almeno nelle prime settimane, di quel gran lusso nel quale il signor Rambaud aveva finito per attingere ogni ideale d’arte e di confortevolezza, nonché della accesa ammirazione dell’abate - il quale, da parte sua, non se ne sentiva poi affatto all’altezza. Quanto a lei, finì per ritrovarsi assai felice in quell’atmosfera, nella quale avvertiva la solidità e la semplicità che portava in cuore. I pesanti tendaggi, i mobili cupi, sontuosi, favorivano non poco la sua tranquillità. Il solo svago cui permettesse di interrompere le sue ore di lavoro era una guardatina al lontano orizzonte, alla grande Parigi che faceva rullare sotto i suoi occhi il fragoroso mare dei suoi tetti. Il suo angolo si solitudine dava proprio su quell’immensità.
- Mamma, non vedo più bene, disse Jeanne seduta lì accanto su una bassa poltroncina.
Lasciò cadere il suo lavoro. Parigi annegava in ombre immani. Di norma lei, Jeanne, era chiassosa, e sua madre aveva il suo penare per deciderla a uscire. Su ordine espresso del dottor Bodin la conduceva due ore ogni giorno al Bois de Boulogne; era quella la loro unica passeggiata - in diciotto mesi non si erano mai spinte oltre. In nessun altro posto che in quella grande stanza bluastra la bambina si sentiva tanto felice. Hélène aveva dovuto rinunciare a farle imparare la musica. Nel silenzio del quartiere, la musica di un organetto le aveva dato quasi i brividi e inumidito gli occhi. Aiutava sua madre a cucire dei corredini per i poverelli dell’abate Jouve.
A notte ormai fatta Rosalie entrò con una lampada. Sembrava tutta compresa nella sua mansione di cuoca, che in quell’occasione si faceva così impegnativa e delicata. La cena del martedì costituiva infatti il suo avvenimento settimanale capace di mettere a soqquadro la casa intera.
- I signori non vengono dunque questa sera, Madame?
Hélène consultò la pendola.
- Sono le sette meno un quarto: arriveranno.
Rosalie era stata un regalo dell’abate Jouve. L’aveva presa alla stazione di Orléans il giorno in cui lei vi era sbarcata, sicché di Parigi non conosceva nemmeno un sanpietrino. A mandarla era stato un vecchio condiscepolo di seminario, curato di un villaggio della Beauce. Quanto a lei, era bassa, grassoccia, il viso tondeggiante sotto la cuffia attillata, capelli ispidi e neri e, per finire, un naso schiacciato sopra la bocca rubizza. Il suo trionfo personale erano le minuterie, dato che fu cresciuta al presbiterio, sua madrina la domestica del curato.
- Ma ecco il signor Rambaud! - esclamò Rosalie prima che avessero suonato, accingendosi ad aprire.
Lui, alto, squadrato, non nascondeva certo la sua ampia complessione facciale, che in lui denunciava il notaio di provincia. Quarantacinque anni di preannunciato grigiore. Conservavano, i suoi grandi occhi blu, tuttavia quell’aria infantilmente incantata, un po’ ingenua.
- Ed ecco anche il signor abate, ci sono proprio tutti! - notò riaprendo la porta Rosalie.
Mentre il signor Rambaud, taciturno dopo la stretta di mano con Hélène, con il sorriso di chi sa di trovarsi a casa prendeva posto a sedere, Jeanne si gettava al collo dell’abate.
- Benvenuti amici miei! Sono stata così malata…
- Davvero malata, cara!
I due uomini si mostrarono inquieti, l’abate in particolare, quel piccolo uomo rinsecchito e la sua grossa testa priva di grazia, tutto compresso in quell’osceno abbigliamento ma i cui occhi, va notato, ingrandivano via via che prendevano una luce di tenerezza. Jeanne lasciava una delle sue mani, ma era l’altra che dava ora al signor Rambaud. Entrambi la trattenevano, quasi covandola sotto sguardi già più che premurosi. Bisognò che Hélène riferisse di quella crisi. L’abate mancò poco che s’irritasse a causa del mancato aggiornamento. Si informò subito: ma almeno è tutto risolto e la bambina non ha più avuto niente, no? Ne sorrise la madre.
- L’amate, voi, più di me, e finirete per spaventarmene. No: non ha più accusato nulla a parte qualche dolorino nelle membra qua e là, insieme a una certa pesantezza di capo… Ma non ci facciamo mettere i piedi sulla testa, noi.
- Madame è servita - annunciò della cameriera.
La sala da pranzo era ammobiliata in mogano: tavola, credenza, otto sedie. Rosalie tirò le tende di reps rosso. Un semplice lampadario e una lampada in porcellana bianca cerchiata in ottone bastavano a illuminare il coperto, i piatti simmetricamente disposti e la minestra fumante. E ogni martedì la cena contemplava gli stessi argomenti della conversazione: che quella volta cadde però naturalmente sul dottor Deberle. Del quale l’abate Jouve tessé grandi elogi, a dispetto della sua ben scarsa propensione religiosa. Lo chiamò in causa quale uomo dal retto carattere, dal cuore amorevole, gran buon padre e marito, infine un ottimo esempio sotto ogni rispetto. Quanto a lei, madame Deberle, era senz’altro persona stimabile, pazienza per quell’attitudine un po’ troppo vispa, dovuta senza dubbio a un’educazione singolare: parigina. In una parola, una situazione di tutto rispetto. Hélène ne parve felice: aveva giudicato la coppia in modo non dissimile, e quel che ne sentiva ora dall’abate non fece che persuaderla a non rinunciare del tutto a una frequentazione che sulle prime l’aveva invece intimorita.
- Siete troppo chiusa, le fece notare il prete.
- Confermo, corroborò il signor Rambaud.
Hélène li guardava con un sorriso serafico, quasi a significare come loro due le bastassero, ché anzi era un po’ restia di fronte a ogni nuova amicizia. Le dieci suonarono e l’abate e suo fratello recuperarono i rispettivi copricapi. Jeanne s’era da poco addormentata su una poltrona, nella stessa stanza. Vi si sporsero un attimo, e annuirono con aria appagata alla vista di quel sonno pacificato. In punta di piedi si avviarono, e nell’anticamera, a voce bassa:
- A martedì.
- Quasi scordavo, aggiunse l’abate nel risalire i due scalini appena discesi. Mamma Fétu è malata, dovreste andare a trovarla.
- Andrò.
L’abate la mandava volentieri presso i suoi poveri. Intrattenevano l’un con l’altro ogni sorta di quasi segreto conversare, cose loro, sulle quali s’intendevano a mezze parole e di cui non parlavano mai in presenza di estranei. L’indomani Hélène uscì sola di casa: evitando di portare con sé la piccola Jeanne, dopo quei due giorni di brividi al termine della visita a quel vecchio paralitico. Procedette lungo rue Vineuse e imboccò rue Raynouard, subito dopo prese per il passaggio des Eaux - curiosa scalinata a strozzo fra le mura dei giardini adiacenti, e una viuzza dirupata dalle alture di Passy a precipizio sul molo. Al fondo della discesa, in una casa mezza in rovina, mamma Fétu occupava una mansarda illuminata da un abbaino rotondo e interamente saturata da un letto miserabile, un tavolino zoppo e una sedia spagliata.
- Mia buona signora, mia cara… prese a gemere lei quando vide Hélène fare il suo ingresso.
La donna era sdraiata. Paffuta, malgrado l’evidente miseria, gonfia con la faccia emaciata raccattava con le sue appesantite mani i lembi della coperta che le stava addosso. Aveva piccoli occhi fini, voce piagnucolosa e un’umiltà che si sarebbe detto vistosa e che lei traduceva infatti in una inarrestabile slavina di parole.
- Ah mia buona signora quanto vi sono grata! Ah poi, quanto soffro sapete! È come se cento cani mi divorassero i fianchi…anzi devo avere una bestia nel ventre. Eccola, vedete, la potete vedere, la pelle non è stata intaccata ma il male c’è, ed è lì dentro. Ah sì, qui, e non smette non vuol saperne da due santi giorni. Dio solo sa se e come tutto questo sia possibile. Se è possibile! Di soffrire a questo punto, intendo dire, ah! mia buona donna, e grazie, grazie di cuore. Voi sì che ce l’avete a cuore la povera gente. Grazia ve ne sarà resa, eh sì, tutto rimane scritto…
Hélène frattanto s’era seduta. Ma ecco, un bricco di tisana fumava sul tavolo, ne colmò la tazza lì accanto e la tese alla dolorante. Acanto erano anche un sacchetto di zucchero, due arance e qualche dolcetto.
- Qualcuno è venuto a trovarvi?
- Sì una piccola dama, sì. Ma a che serve, non è di questo che avrei bisogno. Avessi un po’ di carne! La vicina metterebbe la terrina sul fuoco, e - qui! Ecco! Ora mi duole più forte. Mi punzona, si direbbe un cane. Se solo avessi un po’ di brodo.
Malgrado le sofferenze in cui si contorceva, i suoi occhi acuti non smettevano di seguire Hélène occupata a frugarsi nelle tasche. Quando la vide porre sul tavolo una moneta da dieci franchi, si lamentò in modo se possibile più sonoro, prodigandosi in sforzi e tentativi di mettersi seduta. Così dimenandosi, protese le braccia e la moneta scomparve al suo incessante ripetere:
- Dio mio ancora una crisi! No, non potrò durare. Non così. Dio ve la restituirà, mia buona signora, sarò anzi io stessa a dirgli di restituirvela. Vedete, sono questi gli slanci e i dolori che mi trafiggono… tutto il corpo… Il signor abate mi aveva ben promesso che sareste venuta. Non ci siete che voi, se si vuol concludere qualcosa. Andrò a comprare un po’ di carne… Ma ecco che scende, dio!, sino alle cosce. Aiutatemi, vi prego, io non ne posso più… più…
Pretendeva di girarsi. Hélène prese i guanti, la ghermì nel modo più delicato e la ricoricò. Era ancora china sulla vecchia quando la porta vene aperta, quale non fu il suo stupore nel constatare che entrava il dottor Deberle. Quale rossore non le salì lungo le guance! Anche lui aveva dunque le sue visite clandestine!
- Il signore è il medico, balbettò la vegliarda. Siete uno più buono dell’altra, che il Cielo entrambi benedica!
Con discrezione il dottore aveva porto a Hélène il suo saluto. Mamma Fétu non gemeva più tanto baldanzosamente, da che lui era entrato. Tutto quel che restava era un soffio gemebondo e continuo, come di bambino in ambascia. Aveva ovviamente notato che la buona signora e il dottore si conoscevano, sicché non levò loro gli occhi di dosso, trascorrendo dall’uno all’altra con un lavorio sordo delle mille rughe che scandivano i suoi sguardi. Il dottore le fece alcune domande e la tamburellò sul fianco destro. Quindi, rivolto a Hélène che si era riseduta, mormorò:
- Sono coliche epatiche. Si rimetterà entro qualche giorno.
Strappando qualche foglietto dal bloc-notes su cui aveva scritto le sue osservazioni, a mamma Fétu si rivolse poi nei seguenti termini:
- Tenete, fatela consegnare al farmacista di rue de Passy, e prendete ogni due ore un cucchiaio della pozione che vi daranno.
Nuova, ennesima esplosione di grazie e benedizioni. Hélène sempre seduta. Lui parve attardarsi, intento a osservarla, quand’ecco incrociarsi i loro sguardi. Salutò e - per discrezione - si ritirò per primo. Non aveva ancora fatto un piano che già mamma Fétu si abbandonava ai suoi gemiti.
- Ah che bravo dottore! Sempre che il suo rimedio mi faccia qualcosa! Avrei dovuto sbriciolare una candela con dente di leone, toglie l’acqua rimasta nel corpo… ah! potete ben dire di conoscere in lui un bravissimo medico! Sbaglio o lo conoscete già da quel po’? Mio Dio che sete! Mi par d’avere fiamme al posto del sangue… È sposato, vero? Davvero si merita di avere una brava moglie e dei bei bambini… Ma in fondo è bello vedere che le brave persone si conoscono fra loro.