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Una pagina d'amore

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Blurb

Una grave malattia minaccia la vita di Jeanne, una bambina di undici anni e mezzo, dolce e sensibile, molto attaccata alla madre Hélène, una donna molto bella rimasta purtroppo vedova in giovane età. La madre vive isolata, sacrifica la propria esistenza per curare la figlia. Proprio l’improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute spinge Hélène a cercare aiuto durante una notte molto agitata. Henri Deberle, un medico che abita non molto lontano, corre a occuparsi della piccola. L’incontro, inaspettatamente, sarà fatale per entrambi, travolti da una passione esclusiva. Il matrimonio di Henri entra in crisi, mentre le attenzioni riservate dalla madre al giovane dottore inquietano Jeanne. Si sente trascurata da Hélène e non approva la sua nuova relazione amorosa. La bambina diventa sempre più gelosa e una sera, senza un apparente motivo, si allontana da casa. Hélène, sconvolta e sopraffatta dal rimorso, dovrà ripensare la propria vita e fare una scelta dolorosa che cambierà per sempre la sua vita e quella di Henri. Una pagina d'amore, romanzo ambientato nella periferia parigina alla metà dell’Ottocento, è una delle opere più profonde e toccanti di Émile Zola. 

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Chapter 1
I La lampada da comodino bruciava nel suo cartoccio bluastro sul caminetto, dietro un libro la cui ombra pervadeva un’intera metà della camera. A colpire di taglio il tavolino e la sedia a sdraio era un placido lucore, bagnava la grossa piega delle tende di velluto, inazzurrando lo specchio dell’armadio in palissandro situato fra le due finestre. L’armonia borghese dell’appartamento, quel blu dei parati, dei mobili e del tappeto si ammantava a quell’ora notturna di una vaga dolcezza di nuvola. E, di fronte alle finestre, dal lato dell’ombra, il letto, anch’esso rivestito in velluto, dava luogo a una massa nera, illuminata solamente dal pallore delle lenzuola. Hélène, le mani incrociate, nel suo calmo aspetto di madre e di vedova aveva un respiro leggero. Immersa nel silenzio la pendola rintoccò l’una. I rumori del quartiere s’eran zittiti. Sulle alture del Trocadero, soltanto Parigi si faceva sentire col suo rombo lontano. Il flebile respiro di Hélène era così dolce che nemmeno ne sollevava il casto profilo del collo. Lei dormiva amabilmente, di un sonno sereno e profondo, il profilo regolare e i capelli castani ben annodati, la testa china come si fosse assopita in ascolto. In fondo alla stanza, la porta spalancata di uno stanzino stagliava nel muro un quadrilatero di tenebre. Nessun rumore che salisse. Suonò la mezza. La pendola oscillava con stanchezza, preda del sonno che vinceva su tutta la stanza. Sul comodino, la lampada dormiva, i mobili dormivano; sul tavolino, accanto a una lampada spenta, riposava un lavoro a maglia. Hélène, addormentata, serbava la sua aria grave e buona. Quando rintoccarono le due la pace fu turbata, e un sospiro giunse dalle tenebre dello stanzino. Poi si avvertì un fruscio di panni, e tornò il silenzio. Ora si poteva sentire un respiro affannoso. Hélène non si era mossa ma, bruscamente, si levò. Un balbettio confuso di bambina sofferente l’aveva svegliata. Portò le mani alle tempie, ancora insonnolita, quand’ecco un grido soffocato e lei che balza sul tappeto. - Jeanne!... Jeanne!... cos’hai? Rispondimi! - implorò. E, dato che la bambina rimaneva zitta, precipitandosi sulla lampada mormorò: - Mio Dio! non stava bene, non avrei dovuto coricarmi. Entrò finalmente nella stanza attigua, dove ora regnava un greve silenzio. Ma la lampada, imbevuta d’olio, dava un chiarore tremulo che solo sul soffitto proiettava una macchia tondeggiante. Hélène, china sul letto di ferro, non poté sulle prime distinguere alcunché. Poi, nel barlume bluastro, in mezzo alle lenzuola rovesciate si avvide di Jeanne irrigidita, la testa arrovesciata, i muscoli del collo duri e contratti. Una contrazione che sfigurava quel povero adorato visino, dagli occhi aperti, ora, fissi sulla scanalatura dei tendaggi. - Mio Dio! Dio mio! - gridò Hélène - mio Dio! Sta morendo! E, posando la lampada, tastò la figlia con mani tremanti. Non le riuscì di sentire il polso. Il cuore pareva arrestarsi, le piccole braccia, le gambe minute si tendevano in uno spasmo. Allora fu sul punto di impazzire e, terrorizzata, balbettando: - La mia bambina muore! Qualcuno mi aiuti! La mia bambina! La mia bambina! Rientrò nella sua camera, voltando e incespicando e senza sapere dove andasse; poi tornò nello stanzino e nuovamente si gettò ai piedi del letto, senza smettere di invocare soccorso. Aveva preso Jeanne fra le braccia, le baciava i capelli e, mentre le sue mani erravano sul corpicino della bambina, lei la supplicava che le rispondesse. Una parola, una parola sola. Dove le faceva male? Voleva forse un po’ della pozione dell’altro giorno? Forse l’aria avrebbe potuto rianimarla? E si intestardiva a volerla sentir parlare. - Parlami Jeanne, oh! Parlami, te ne prego! Mio Dio! non sapere cosa fare! Così tutt’a un tratto, nel cuore della notte. Per giunta senza luce. I suoi pensieri cominciavano a confondersi. Lei continuava a rivolgersi alla sua figlioletta, interrogandola e rispondendosi al posto suo. Aveva qualcosa allo stomaco; no, in gola. Non sarà nulla di grave. Ci voleva calma, e si sforzò di conservare tutta la sua lucidità. Ma la percezione della figlia così rigida fra le sue braccia la sconvolgeva dalla testa ai piedi. La guardava, era in preda a convulsioni e senza fiato; si provò allora a ragionare, a tener lontano l’impulso a urlare. Ma all’improvviso, come contro la sua volontà esplose in un grido. Traversò la sala da pranzo e la cucina chiamando a gran voce: - Rosalie! Rosalie!!... Presto, un dottore! La mia bambina sta morendo! La domestica dormiva in una stanzetta dietro la cucina e lanciò un grido. Hélène tornò indietro di corsa mentre Rosalie strascicava i piedi in camicia da notte, apparentemente insensibile al gelo di quella glaciale notte di febbraio. La donna di servizio avrebbe dunque lasciato morire la sua bambina! Appena un minuto era passato. Hélène tornò in cucina e poi in camera da letto. Rudemente, a tastoni, si infilò una gonna e si gettò uno scialle sulle spalle. Rovesciando i mobili, inondava con la violenza di quella disperazione la stanza ove regnava una pace tanto raccolta. Poi, calzate le pantofole, dopo aver lasciato le porte aperte scese lei stessa i tre piani, convinta che lei sola potesse procurarsi un medico. Non appena la portinaia ebbe tirato il cordoncino, Hélène si ritrovò fuori, le orecchie ronzanti, la testa sperduta. Discesa a passo concitato rue Vineuse, suonò alla porta del dottor Bodin, che in passato aveva già prestato le sue cure alla piccola; dopo un’eternità una domestica le rispose che il dottore si trovava al capezzale di una partoriente. Hélène rimase sul marciapiede, istupidita. Non conosceva altri medici a Passy. In men che non si dica batté le strade e scrutò le case. Soffiava un sottile vento ghiacciato, e lei camminava con quelle sue pantofole nella neve leggera caduta quella sera. Davanti a sé sempre sua figlia, con quel pensiero angoscioso, che se non avesse trovato subito un medico l’avrebbe fatta morire. Allora, risalendo rue Vineuse, si attaccò a un campanello. Chiedeva ovunque, con la speranza che qualcuno le avrebbe dato un nome, un indirizzo. Suonò di nuovo, visto che non si sbrigavano a risponderle. Il vento premeva la sua esile sottana sulle sue gambe, portando scompiglio nella sua capigliatura. Infine un domestico venne ad aprire e le disse che il dottor Deberle era a letto. Aveva dunque suonato il campanello di un dottore! Il Cielo non l’avrebbe abbandonata. Entrò spingendo il domestico e ripetendo: - La mia piccola, la mia piccola muore! Ditegli di correre! Era un palazzetto tutto tappezzato. Lottando contro il domestico salì un piano rispondendo a ognuna delle sue domande “Mia figlia sta morendo!”. Finalmente entrata in uno dei locali, si dispose ad attendere. Ma, da che la stanza attigua le inviò i segni del dottore che si riscuoteva, si avvicinò per parlargli attraverso la porta. - Presto, signore, la scongiuro! La mia bimba se ne sta andando! Apparve finalmente, in giacca e senza cravatta, e lei lo trascinò senza dargli il tempo di perfezionare il suo abbigliamento. Era lui: l’aveva riconosciuto. Lei abitava nella casa accanto e altri non era che la sua locataria. Così, quando gli fece traversare un giardino per sveltire il cammino - sarebbero passati per una porticina comunicante posta fra le due dimore - avvertì come in un soprassalto un’improvvisa reminiscenza. - È vero, mormorò, voi siete medico, ben ricordavo… Guardatemi, mi son fatta pazza… Non perdiamo altro tempo. Lo obbligò a salire per primo. Nemmeno Dio si sarebbe portata in casa in maniera così devota. In cima, Rosalie era rimasta al fianco di Jeanne e aveva acceso la lampada del tavolino. Appena entrato il dottore prese la lampada e portò la bambina in piena luce, lei che pareva abbarbicata a quel suo rigore doloroso; solo la testolina si era lasciata scivolare, il viso come frettolosamente corrugato. Per un intero minuto lui rimase zitto a labbra serrate. Ansiosa Hélène lo veniva scrutando. Accortosi di quello sguardo di madre implorante, le mormorò: - Non è nulla… Ma non bisogna lasciarla qui. Ha bisogno d’aria. Con autorità lei se la caricò sulla spalla; avrebbe baciato le mani del dottore per le sue parole buone, e una grande dolcezza prese a scorrere in lei. Ma, non appena ebbe posato quel povero corpo piccino sul lettone, ecco che Jeanne fu presa da violente convulsioni. Il dottore aveva rimosso il paralume e una clarità bianca soffondeva la stanza. Si accostò a una finestra che volle socchiudere, ordinò a Rosalie di spingere il letto oltre le tende. Nuovamente preda della sua angoscia, Hélène balbettò: - Però sta morendo, signore!... Vedete bene, vedete dunque!... Non la riconosco più! Lui non rispose, per seguire il nuovo accesso con sguardo vigile. Quindi le si rivolse: - Riponetela nell’anfratto, e tenetele le mani, non deve graffiarsi... Così, dolcemente, senza movimenti bruschi… E non v’inquietate, la crisi deve fare il suo corso. Come affacciati sul letto entrambi sostenevano Jeanne, le cui piccole membra si distendevano adesso in scosse nervose. Il medico aveva abbottonato la giacca a schermire il collo svestito. Hélène, era rimasta ravvolta nello scialle ancora adagiato sulle sue spalle. Entrambi, colletto e scialle, Jeanne li scompigliò con uno strattone. Ed essi non ne ebbero contezza. Né l’uno né l’altro badava a sé. L’accesso si placò finalmente. La piccina parve sprofondata in una grande spossatezza. E, benché avesse appena rassicurato la madre sull’esito della crisi, il dottore rimase apprensivo. Non faceva che guardare la sua paziente e finì per porre due brevi domande a Hélène, rimasta in piedi fra il letto e la parete. - Qual è l’età della bambina? - Undici anni e mezzo, signore. Ci fu allora un silenzio. Egli scosse la testa, si chinò per sollevare alla bimba la palpebra chiusa e osservarne così la mucosa. Quindi proseguì nel suo interrogare, senza guardare negli occhi la sua interlocutrice. - Soffriva di convulsioni, da piccola? - Sì, ma sono scomparse verso i sei anni... è molto delicata. È già da qualche giorno che non la vedo bene. Aveva dei crampi, come delle assenze. - Vi risulta che qualcuno abbia sofferto di malattie nervose, nella vostra famiglia? - Non saprei... Mia madre morì di malattia polmonare. Esitò, vergognosa, non volendo confessare d’una sua ava rinchiusa in manicomio. Tutto nei suoi progenitori fu tragico. - Attenzione, disse lui infine, eccoci con un nuovo accesso. Jeanne aveva appena riaperto gli occhietti. Fu un attimo, si guardò d’attorno con aria perduta, senza dir nulla. Poi il suo sguardo si fece fisso, il corpo si riversò all’indietro - gli arti allungati e contratti. Era paonazza. Tutt’a un tratto impallidì, d’un pallore livido, e le convulsioni ripresero foga. - Non la lasciate, ribadì il dottore, prendetele l’altra mano. Corse quindi al tavolino su cui entrando aveva riposto una piccola farmacopea. E tornò con un flacone che fece subito inalare alla piccina. Fu però come un tremendo colpo di frusta, Jeanne diede in un tale singulto da sfuggire di mano alla madre. - No no, non l’etere! - gridò lei, insospettita dall’odore. L’etere le dà alla testa. E l’uno e l’altra ebbero un bel patire a trattenerla. Aveva violentissime contrazioni che l’inarcavano all’altezza dei talloni e della nuca, piegandola in due. Infine ricadde distesa, scossa da una continua oscillazione che le faceva far la spola fra le due sponde del letto. I pugni serrati, i pollici flessi verso il palmo, a tratti li riapriva e a dita divaricate tentava di afferrare gli oggetti che nel vuoto le venivano a tiro, e che avrebbe voluto torcere. Trovato così lo scialle materno, vi si aggrappò: ma quel che più d’ogni altra cosa torturava colei che dello scialle era la proprietaria, era - come diceva lei stessa - di non riconoscere più la figlia. Il suo povero angioletto! dal viso talmente dolce - aveva i lineamenti trasfigurati, e gli occhi, smarriti nelle loro stesse orbite, esibivano due madreperle bluastre. - Fate qualcosa, vi supplico - mormorò Hélène. Ogni forza è svanita in me, signore. Si era appena ricordata che la figlia di una delle sue vicine, a Marsiglia, era morta soffocata proprio durante una crisi analoga. Poteva darsi allora che il medico la ingannasse per proteggerla? Ad ogni istante lei si persuadeva di ricevere sul viso l’ultimo alito di Jeanne, la cui sincopata respirazione sembrava arrestarsi. Allora, addolorata e anzi sconvolta dal terrore e dalla pietà ella pianse. Le sue lacrime ricadevano sull’innocente nudità della piccola, che intanto aveva scalciato via le coperte. Il dottor Deberle stava esercitando una delicata pressione - con quelle sue soffici dita - sull’attaccatura del collo. L’accesso diminuì di intensità. Dopo aver accennato a qualche pur lentissimo movimento, Jeanne si ritrovò inerte. Era di nuovo in mezzo al letto, il corpo allungato, le braccia distese, la testa sostenuta dal cuscino ma riversa sul petto. La si sarebbe detta un Cristo fanciullo. Hélène si ripiegò su di lei e lungamente le baciò la fronte. - È finito? Chiese a mezza voce. Credete che gli accessi torneranno? Da parte di lui un ampio gesto evasivo. Dopo di che: - In ogni caso, saranno meno violenti. Aveva chiesto a Rosalie un bicchiere e una caraffa. Riempì il bicchiere a metà, prese altri due flaconi, contò le gocce e - con l’aiuto di Hélène che intanto teneva levata la testa di Jeanne - versò due cucchiaiate della pozione fra i denti serrati della piccola. La lampada mandava alti bagliori, la sua fiamma era bianca e rischiarava il disordine di quella stanza dove ogni mobile era ormai rovesciato. I vestiti che Hélène prima di coricarsi era solita appoggiare allo schienale di una poltrona erano scivolati sul pavimento e intralciavano il tappeto. Deberle, calpestato un corsetto, lo raccolse per non doverlo più calpestare. Un odor di verbena saliva dal letto disfatto e dalla biancheria sparpagliata. A vedersi così bruscamente sfoggiata era tutta l’intimità di una donna. Il dottore era andato di persona a recuperare la bacinella, e vi intinse un panno da applicare alle tempie di Jeanne. - Signora, rischiate d’infreddarvi, disse Rosalie in preda ai brividi. Forse potremmo chiudere la finestra… L’aria è così pungente. - Non se ne parla, proruppe Hélène, lasciatela aperta… Non è giusto, signore? Timidi spiragli di vento facevano il loro ingresso sommuovendo le tende. Ma lei non li avvertiva. E tuttavia il suo scialle le era scivolato dalle spalle, lasciando in vista la sorgente della gola. Da tergo, lo chignon slacciato, disciolto, abbandonava i suoi boccoli folli sino ai lombi. Aveva liberato le braccia, ora nude, per poter balzare, di tutto immemore, in soccorso della sua amatissima bimba. Davanti a lei, trafelato, il dottore che non aveva smesso di pensare alla sua giacca sbottonata, o al colletto della camicia che Jeanne aveva appena strappato. - Sollevatela un po', disse. Ma non così… datemi la mano. Le prese la mano e la posò lui stesso sotto la testa della piccola, alla quale meditava di somministrare un’altra cucchiaiata. Quindi la chiamò presso di sé. Si serviva di lei, di Hélène, come di un’assistente, e lei dava prova di un’obbedienza religiosa, constatando che la figlia pareva tranquillizzarsi. - Coraggio… Appoggiate la sua testa sulla vostra spalla, debbo auscultarla. Hélène fece quel che le veniva ordinato. Lui si chinò da sopra su di lei, per posare il suo orecchio sul petto della piccola Jeanne. Le aveva sfiorato la nuda spalla con la guancia, e ascoltando il cuore della bambina poteva intuire il battito di quello della madre. E, quando se ne staccò, i due respiri si incontrarono. - Non c’è nulla a sentirla così, disse con la massima calma a lei che si felicitava. Coricatela ora, non bisogna esagerare. Ma un ennesimo accesso si verificò. Molto meno grave: e Jeanne si lasciava sfuggire qualche parola smozzicata. Ci furono altri due accessi, a breve intervallo l’uno dall’altro. Jeanne era precipitata in uno stato di prostrazione che pareva inquietare nuovamente Deberle. L’aveva adagiata con la testa ben sollevata, la coperta tirata sino al mento - e per quasi un’ora le era rimasto accanto, a vegliarla e come ad aspettare il timbro di una respirazione risanata. Dall’altra parte del letto, Hélène pure stava in attesa, immobile. Poco a poco una pace profonda discese sul viso di Jeanne. La lampada, la illuminava d’una luce dorata. Il suo viso recuperava allora il suo adorabile ovale, un pochino allungato e con una grazia, una finezza da capra. I suoi begli occhietti chiusi sotto quelle palpebre ampie, diafane e bluastre, a celare e lasciar trapelare l’opaco splendore del suo sguardo. Il suo nasino sottile soffiava delicatamente, e la sua bocca un poco accentuata diede in un sorriso indeterminato. Dormiva così, sui capelli come su un drappo srotolato, nero inchiostro. - Con questa abbiamo finito, disse il dottore a mezza voce. Si voltò a riordinare i suo flaconcini, apprestandosi poi a congedarsi. Hélène gli si fece accosta con aria supplichevole. - Oh! Signore, gli mormorò, non mi lasciate così. Vogliate attendere qualche minuto. Casomai qualche altro accesso avesse a manifestarsi… Siete voi ad averla salvata. Ma lui le fece intendere che nulla era più a temersi. E tuttavia restò, cedendo al desiderio di lei. Lei, aveva mandato a letto Rosalie. Ben presto riapparve il giorno, uno dolce e grigio sulle nevi biancheggianti sui tetti. Deberle chiuse le finestre. Si scambiarono parole rarefatte, in mezzo a quel gran silenzio, e a voce tanto bassa. - Non ha nulla di grave, vi assicuro. Solo che alla sua età ci vuole molto riguardo. Badate soprattutto a che conduca una vita regolare, lieta, immune da sobbalzi eccessivi. Ma Hélène stava già a sua volta replicando: - Jeanne è talmente delicata, e così nervosa… Nemmeno potrei più dirmi padrona di lei. Per delle inezie è capace di esultare o invece di intristire in un modo che mi angustia, tanto le sue reazioni sono intense… mi ama con un trasporto, con una gelosia… sino a singhiozzarne, se per caso accarezzo un altro bambino. Deberle scosse il capo e ribadì: - Sì, certo, delicata, e gelosa… è il dottor Bodin ad averla in cura, vero? Gli parlerò di sua figlia. Insieme stabiliremo una terapia energica. Ha giusto gli anni in cui si decide la salute della donna. Sapendolo tanto affezionato, Hélène ebbe un impeto di gratitudine. - Ah signor mio, quanto vi sono grata per tutta la pena che vi siete dato! Ma, avendo parlato a voce insolitamente alta, subito si sporse da sopra il letto nel timore di averla svegliata. La bambina dormiva, tutta rosa, con quel suo sorriso imprecisato. Nella camera tornata tranquilla aleggiava il languore. Una sonnolenza raccolta, quasi un senso di sollievo si erano reimpossessati delle tappezzerie, dei mobili, degli abiti qua e là sparsi. Ogni cosa si lasciava invadere e si abbandonava all’ancor flebile luce penetrata per le due finestre. Nuovamente Hélène si ritrovò in piedi ai bordi del letto. Il dottore si tratteneva presso la sponda opposta. Fra loro, Jeanne dormiente, con il suo respiro leggero. - Suo padre era spesso malato, riprese dolcemente Hélène come a voler proseguire. Quanto a me sono sempre stata bene. Il medico, che ancora non si era soffermato sulla donna, sollevò gli occhi e non poté trattenere un sorriso, tanto la vedeva sana e forte. Ed ella ricambiò con uno dei suoi sorrisi rasserenanti, a tal punto la rendeva felice la sua ottima salute. Per tutto questo tempo lui non staccò gli occhi da lei. Mai aveva incontrato una bellezza più pura. Alta, splendida, Hélène era una Giunone castana, ma d’un castano dorato e dai riflessi biondi. Girò lentamente la testa e sul suo profilo si disegnò una purezza grave di statua. I suoi occhi grigi e i suoi candidi denti le illuminavano il viso da cima a fondo. Aveva il mento tondeggiante, un poco accentuato, che le conferiva un aspetto saggio e risoluto. Ma quel che più stupiva il dottore era la nudità davvero superba di quella madre. Lo scialle tuttora fuori posto, la sua gola si scopriva e le braccia si snudavano. Una grande treccia color oro scuro le correva di traverso le spalle per perdersi poi fra i suoi seni. Nella sua sottoveste semislacciata, scarmigliata e confusa, conservava una maestà e una vetta di pudore e rettitudine che sotto quello sguardo virile ne assicuravano la castità, mentre in lui cresceva il turbamento. Hélène lo soppesò brevemente. Il dottor Deberle era un uomo di trentacinque anni dal viso rasato e un poco allungato, sguardo penetrante e labbra sottili. Fu proprio osservandolo che a sua volta si accorse del suo collo nudo. Restarono così l’uno di fronte all’altra, la piccola Jeanne addormentata fra loro. E quella distanza sino a un momento prima immensa pareva ora accorciarsi. La bambina respirava troppo esilmente. Lentamente Hélène si riavvolse nello scialle, mentre lui riabbottonava il collo della giacca. - Mamma, mamma, balbettò Jeanne nel sonno. E si svegliò. Quand’ebbe entrambi gli occhi aperti scorse il medico e ne rimase turbata. - Chi è? Chi è?- insisteva. La madre le diede un bacio. - Dormi, piccola cara, sei stata poco bene… il signore è un amico. La bimba parve sorpresa. Non ricordava niente. Il sonno la vinse e lei si addormentò, teneramente bisbigliando: - Oh! Che sonno! Buona sera, mammina… se è amico tuo, sarà anche il mio. Il dottore aveva provveduto a togliere dalla sua vista la sua borsa delle medicine. Salutò in silenzio e si ritirò. Ma Hélène restò un momento in ascolto del respiro della piccola, seduta in punta al letto. Sperdeva lo sguardo e i pensieri, assorta. Ancora accesa, la lampada impallidiva nella luce del mattino.

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