– Non so affatto se si parla di me. E del resto, che cosa m’importa? Niente via niente.
Egli la lasciò. Andava a cena al circolo, dove il suo amico Caumont, di passaggio da Parigi, lo attendeva. Essa lo seguì collo sguardo pieno d’una placida simpatia. Poi si rimise a leggere nelle ceneri.
Rivide i giorni della sua infanzia, il castello in cui passava le grandi estati tristi; i boschi tagliati, il parco umido e fosco, il bacino in cui dormivano le acque verdi, le ninfe di marmo sotto gl’ippocastani e la banchina sulla quale aveva pianto e desiderato di morire. Oggi ancora, ignorava la causa di quelle disperazioni giovanili, quando l’ardente risveglio della sua fantasia e il misterioso lavorio della sua carne la gettavano in un turbamento misto di desideri e di timori. Da bambina, la vita l’attraeva e le faceva paura. E adesso sapeva che la vita non merita tanta inquietudine né tanta speranza, essendo una cosa assai ordinaria e monotona. Avrebbe dovuto aspettarselo: perché non l’aveva previsto? Pensava:
– Vedevo la mamma. Era una buona signora, molto semplice e non troppo felice. Sognavo un destino ben diverso dal suo. Perché? Sentivo intorno a me il sapore sciocco della vita, e aspiravo l’avvenire come un’aria piena di sale e d’aromi. Perché? Che cosa mai volevo, che cosa attendevo? Non dovevo già abbastanza comprendere la tristezza di tutto?
Era nata ricca, nello splendore sfarzoso d’una fortuna troppo recente. Figlia di quel Montessuy, che, dapprima impiegatuccio in una banca parigina, fondò, diresse due grandi istituti di credito, trovò per sostenerli nei momenti difficili le risorse di uno spirito fecondo, la forza invincibile del carattere, un insieme unico di furberia e di probità, e trattò da pari a pari col governo; era cresciuta in quello storico castello di Joinville, comprato, restaurato, mobiliato magnificamente da suo padre, e diventato in sei anni, col suo parco e la ricchezza delle sue acque, d’uno splendore pari a quello di Vaux-le-Vicomte. Montessuy faceva rendere alla vita tutto quello ch’essa poteva dare. Ateo istintivo e potente, voleva tutti i beni carnali e tutte le cose desiderabili che questa terra produce. Accumulò nella galleria e nei saloni di Joinville i quadri d’illustri autori e i marmi preziosi. A cinquant’anni, ebbe le più belle donne di teatro ed alcune mondane, delle quali pagò il lusso. Godeva di tutto ciò che v’è di prezioso nella società, colla brutalità del suo temperamento e la finezza del suo spirito.
Frattanto, la povera signora Montessuy, economa e laboriosa, languiva a Joinville. Coll’aspetto gracile e meschino, sotto gli occhi delle dodici cariatidi gigantesche che, nella nicchia rinchiusa da balaustre d’oro, sostenevano il soffitto in cui Lebrun aveva dipinto i Titani fulminati da Giove. Fu là, nel letto di ferro, drizzato ai piedi del grande letto di parata, che essa morì una sera, di tristezza e d’esaurimento, non avendo mai amato sulla terra che suo marito e il suo piccolo salotto di damasco rosso nella via di Maubeuge.
Non aveva avuto molta intimità colla figlia, sentendola, istintivamente, troppo lontana da lei, troppo libera di spirito, troppo ardita di cuore, e indovinando, in questa Teresa, pur così dolce e buona, il sangue forte di Montessuy, quell’ardore d’anima e di carne che l’aveva fatta tanto soffrire, e che perdonava più facilmente a suo marito che a sua figlia.
Ma egli, Montessuy, riconosceva sua figlia e l’amava. Come tutti i grandi carnivori, aveva le sue ore di gaiezza piacevole. Benché vivesse molto fuori di casa, trovava modo di far colazione quasi tutti i giorni con lei, e qualche volta la portava a passeggio. Aveva il gusto dei ninnoli e delle stoffe. A colpo d’occhio vedeva e riparava, nella toelette della figlia, i disastri prodotti dal gusto infelice e vistoso della signora Montessuy. Egli educava, formava la sua Teresa. Brutale e sapiente, la divertiva e l’attraeva. Vicino a lei, il suo istinto, il suo appetito di conquiste, l’ispirava ancora. Egli che voleva sempre guadagnare, guadagnava pure sua figlia; la toglieva alla madre. Essa lo ammirava, lo adorava.
Nella sua fantasticheria, lo rivedeva in fondo al passato, come l’unica gioia della sua infanzia; ed era anche persuasa che al mondo non vi fosse un uomo amabile come suo padre. Entrando nella vita, aveva subito disperato di trovare altrove una tale ricchezza naturale, una tale pienezza di forze attive e pensanti. Questo sgomento l’aveva seguita nella scelta d’un marito, e forse, in seguito, in una scelta segreta e più libera.
Suo marito, veramente, non l’aveva scelto lei. Non sapeva nulla: s’era lasciata maritare da suo padre, che, allora vedovo, imbarazzato e inquieto della cura delicata di una figlia, in mezzo a una vita affaccendata ed intensa, aveva voluto, secondo il suo solito, fare presto e bene. Egli considerò i vantaggi esteriori, le convenienze, apprezzò i ventiquattr’anni suonati di nobiltà imperiale che portava il conte Martin, colla gloria ereditaria d’una famiglia che aveva dato dei ministri al Governo di Luglio e all’impero liberale. Non gli era nemmeno venuta l’idea che essa cercasse l’amore nel matrimonio.
Si lusingava che vi troverebbe la soddisfazione dei desideri fastosi ch’egli le attribuiva, la gioia d’essere e di apparire, quella grandezza comune e forte, quella dominazione materiale, che formavano per lui tutto il pregio della vita, non avendo affatto, del resto, idee troppo precise sulla felicità di una donna onesta in questo mondo, ma perfettamente sicuro che sua figlia rimarrebbe una donna onesta. Era questo, nella sua anima, un punto che non aveva mai approfondito, una certezza istintiva. Pensando a questa fiducia assurda e naturale, che si accordava così male coll’esperienza e colle idee di Montessuy sulle donne, ella sorrise con una malinconica ironia. E ammirava maggiormente suo padre, troppo saggio per crearsi una saggezza importuna.
Dopo tutto, non l’aveva così male maritata, a giudicare il matrimonio per quello che è nelle alte sfere. Suo marito ne valeva bene un altro. Era diventato pienamente sopportabile. Di tutto quanto essa leggeva nelle ceneri, alla luce velata delle lampade, di tutti i suoi ricordi, quello della vita coniugale era il più sbiadito. Ne ritrovava alcuni tratti isolati, d’una precisione penosa, alcune immagini assurde, un’impressione vaga e fastidiosa. Quel tempo aveva durato poco e non lasciava niente dietro di sé. Dopo sei anni, non si ricordava nemmeno più bene come avesse ripreso la sua libertà, tanto la conquista n’era stata pronta e facile, su quel marito freddo, malaticcio, egoista e sgarbato, su quell’uomo inaridito, ingiallito negli affari e nella politica, laborioso, ambizioso, mediocre. Egli amava le donne soltanto per vanità, e non aveva mai amato sua moglie. La separazione era stata franca, completa. E da allora, estranei l’uno all’altra, si erano grati tacitamente della loro mutua liberazione, ed essa avrebbe provato dell’amicizia per lui se non l’avesse trovato malizioso, subdolo e troppo scaltro nell’ottenere la sua firma quando aveva bisogno di danaro per delle imprese in cui metteva più ostentazione che avidità. All’infuori di ciò, quell’uomo col quale essa pranzava, discorreva tutti i giorni, conviveva, viaggiava, non rappresentava niente per lei, non aveva importanza.
Raccolta in se stessa, colla guancia sulla mano, davanti al focolare spento, come una curiosa che consultava una sibilla, mentre rievocava quegli anni di solitudine, rivide la figura del marchese di Ré. La rivide, questa, così netta e precisa, che ne rimase sorpresa. Condotto presso di lei da suo padre che gliene aveva detto un gran bene, il marchese di Ré le apparve grande e bello per trent’anni di trionfi e di glorie mondane. Le sue avventure gli mettevano intorno una specie d’aureola. Egli aveva sedotto tre generazioni di donne e lasciato nel cuore di tutte quelle che aveva amato un imperituro ricordo. La sua grazia virile, la sua eleganza sobria e l’abitudine di piacere, prolungavano la sua giovinezza molto al di là del termine comune. Egli notò in modo speciale la contessa Martin. Gli omaggi di questo buon intenditore la lusingarono. In questo momento se li ricordava ancora con piacere. Egli aveva un modo meraviglioso di conversare. Le piacque: essa glielo lasciò capire, e da allora egli si propose, nella sua eroica frivolezza, di chiudere degnamente la sua vita felice col possesso di questa giovane signora che apprezzava sopra tutte, e che evidentemente aveva della simpatia per lui. Per averla, sfoggiò la sua arte più sottile. Ma Teresa riuscì a sfuggirgli molto facilmente.
Ella cedette, due anni dopo, a Roberto Le Ménil che l’aveva fortemente desiderata, con tutto l’ardore della sua giovinezza, tutta la semplicità dell’anima sua. Ella si diceva: «Mi sono data a lui, perché mi amava.» Era la verità. Ed era pur vero che un istinto sordo e possente l’aveva spinta, ed essa aveva obbedito alle forze oscure di tutto il suo essere. Ma non era dipeso da lei; quel che proveniva dalla sua volontà e dalla sua coscienza, era d’aver creduto, consentito, voluto, un affetto vero. Aveva ceduto appena s’era vista amata sino alla sofferenza. S’era data subito, con semplicità. Egli credette che si fosse data leggermente: s’ingannava. Aveva sentito lo sgomento dell’irreparabile, e quella specie di vergogna per avere a un tratto qualcosa da nascondere. Tutto quello che era stato sussurrato davanti a lei intorno alle donne che hanno un amante, le tornò a ronzare agli orecchi ardenti. Ma, fiera e delicata com’era, nella perfezione del suo gusto, ebbe cura di nascondere il valore del dono che faceva, e di non dir nulla che potesse impegnare il suo amico al di là dei suoi sentimenti. Egli non sospettò quel malessere morale, che del resto durò appena pochi giorni, e si dileguò in una perfetta tranquillità. Dopo tre anni, non aveva da rimproverarsi per quella sua condotta innocente e naturale. Non avendo fatto torto a nessuno, non provava rimorsi. Era contenta: quella relazione era ancora quanto vi fosse di meglio nella vita. Amava, ed era amata. Certo: non aveva provato l’ebbrezza che sognava: ma si prova mai, nella vita? Era l’amica d’un buono e onesto giovane, molto apprezzato dalle donne, molto ricercato in società, che passava per sdegnoso e difficile, e che le dimostrava un vero affetto. Il piacere che ella gli dava e la gioia d’esser bella per lui, la tenevano avvinta a quest’amico. Egli le rendeva la vita, non già sempre deliziosa, ma molto facile a sopportare, e, in certi momenti, veramente gradevole.
Quello che non aveva indovinato nella sua solitudine, malgrado l’avvertimento del suo malessere vago e delle tristezze senza motivo, la sua natura intima, il suo temperamento, la sua vera vocazione, egli glieli aveva rivelati: si conobbe, conoscendolo. Fu uno stupore felice. La loro simpatia reciproca non era nell’intelletto né nell’anima: essa aveva per lui un gusto semplice che non si esauriva troppo in fretta. E, in quel momento stesso, si compiaceva all’idea di ritrovarlo, l’indomani, nel piccolo appartamento di via Spontini, in cui si vedevano da tre anni. Fu con una piccola scossa del capo assai violenta, con un alzar di spalle assai più brusco di quel che non si potesse aspettare da questa squisita signora, che, sola all’angolo del fuoco ormai estinto, disse tra sé: «Ecco: ho bisogno d’amore, io!»