– Lo sanno tutti.
Poi, a poco a poco, la folla dei visitatori si diradò. Non restavano più che la signora Marmet e Paolo Vence.
Questi si avvicinò alla contessa Martin e le chiese:
– Quando volete che vi presenti Dechartre?
Era la seconda volta che glielo domandava. Essa non amava vedere delle facce nuove. Rispose con molta noncuranza:
– Il vostro scultore? Quando vorrete. Ho visto, di lui, al Campo Cinque Marzo, dei medaglioni veramente belli. Ma produce poco. È un amatore, non è vero?
– È uno spirito delicato. Non ha bisogno di lavorare per vivere. Egli accarezza le sue figure con una lentezza amorevole. Ma non v’ingannate, signora: egli sa e sente: sarebbe un maestro, se non vivesse solo. Lo conosco dall’infanzia. Lo credono indolente e triste; invece è un passionale e un timido. Quel che gli manca, quel che gli mancherà sempre per raggiungere il sommo dell’arte sua, è la semplicità di spirito. Egli s’inquieta, si turba e sciupa le sue più belle impressioni. Secondo me, era meno adatto per la scultura che per la poesia e la filosofia. È molto colto, e rimarreste stupita della sua grandezza di spirito.
La signora Marmet approvò, benevola. Essa piaceva in società e sembrava a sua volta compiacersene. Ascoltava molto e parlava poco. Attribuiva molto valore alla sua grande compiacenza e sembrava farla un po’ desiderare. Sia che avesse veramente simpatia per la signora Martin, sia che sapesse mostrare, in ogni casa dove andava, delle maniere discrete di preferenza, si riscaldava, contenta, come un’avola, nell’angolo di quel camino di puro stile Luigi XVI, che si addiceva alla sua bellezza di vecchia signora indulgente. Non le mancava altro, là, che il suo cagnolino.
– Come sta Tobia? – le chiese la signora Martin. – Signor Vence, conoscete Tobia? Ha dei lunghi peli di seta e un nasino che è un amore, nero.
La signora Marmet gradiva le lodi tributate a Tobia, quando un vecchio roseo e biondo, dai capelli ricciuti, miope, quasi cieco dietro i suoi occhiali d’oro, corto di gambe, che urtava contro i mobili, salutava le poltrone vuote, si buttava contro gli specchi, spinse il suo naso aquilino fino in faccia alla signora Marmet che lo guardò, indignata.
Era il signor Schmoll, dell’Accademia delle Iscrizioni. Egli sorrideva, tutto smorfioso e compito; lanciava dei madrigali alla contessa Martin con quella voce ereditaria, rude e grassa, colla quale gli Ebrei suoi antenati perseguitavano i loro debitori, i contadini d’Alsazia, della Polonia e della Crimea. Strascicava a lungo, pesantemente, le sue frasi. Quel grande filologo, membro dell’Istituto di Francia, sapeva tutte le lingue, eccettuato il francese. E la signora Martin si divertiva a quelle galanterie pesanti e arrugginite come le ferramenta che mettono in mostra i rigattieri, e fra le quali cadeva qualche fiore appassito dell’Antologia. Il signor Schmoll amava i poeti e le donne, e aveva dello spirito.
La signora Marmet finse di non conoscerlo e uscì senza rendergli il saluto.
Quand’ebbe esauriti i suoi madrigali, Schmoll diventò cupo e compassionevole. Si mise a gemere pietosamente. Compianse profondamente se stesso: non era abbastanza decorato, né convenientemente alloggiato a spese dello Stato, lui, la signora Schmoll e i loro cinque figli. Si lamentò con accento solenne: un po’ dell’anima di Ezechiele e di Geremia era in lui.
Disgraziatamente, strisciando lungo la tavola coi suoi occhiali d’oro, scoperse il libro di Viviana Bell.
– Ah! Isotta la Bionda: – esclamò amaramente, – voi leggete questo libro, signora. Ebbene, sappiate che la signorina Viviana Bell m’ha rubato un’iscrizione, e, che per di più, l’ha alterata, mettendola in versi! La troverete a pagina 109 del libro:
– Deh! Cessa il pianto, o tu che amai:
Quello che è morto non fu giammai.
– Lasciami piangere; il pianto sgombra
Le pene: un’ombra pianger può un’ombra.
Avete sentito, signora? Un’ombra pianger può un’ombra. Ebbene! Queste parole sono tradotte testualmente da un’iscrizione funebre che io ho pubblicato e illustrato per il primo. L’anno scorso, un giorno che pranzavo da voi, trovandomi a tavola a fianco della signorina Bell, le citai questa frase, che le piacque molto. Dietro sua domanda, il giorno dopo, tradussi in francese l’intera iscrizione e gliela inviai. Ed ecco che la trovo, mutilata e snaturata, in questo volume di versi, con questo titolo: Sulla via sacra! … la via sacra, son io!
E ripeté, col suo ridicolo cattivo umore:
– Sono io, signora, la via sacra.
Era contrariato perché la poetessa non aveva parlato di lui a proposito di quell’iscrizione. Avrebbe voluto leggere il suo nome in testa alla poesia, nei versi, in rima. Egli voleva sempre vedere il suo nome dappertutto, e lo cercava nei giornali di cui aveva gonfie le tasche. Ma non conservava rancore, e non l’aveva colla signorina Bell. Convenne di buona grazia che era una persona molto distinta, e la poetessa che oggi onorava maggiormente l’Inghilterra.
Quando fu partito, la contessa Martin chiese molto ingenuamente a Paolo Vence se sapeva perché la buona signora Marmet, di solito così benevola, avesse guardato Schmoll con tanta collera e in silenzio. Egli era sorpreso che non lo sapesse.
– Io non so mai niente.
– Eppure la disputa fra Giuseppe Schmoll e Luigi Marmet, che fece così gran chiasso all’Istituto, è rimasta famosa. È finita soltanto colla morte di Marmet, che il suo implacabile collega perseguitò fino al cimitero del Père-Lachaise.
«Il giorno in cui fu sepolto quel povero Marmet, cadeva della neve mista a pioggia. Eravamo inzuppati e gelati fino alle ossa. Sull’orlo della fossa, fra la bruma, il vento, il fango, Schmoll lesse, sotto l’ombrello, un discorso pieno di crudeltà gioviale e di compassione trionfante, che poi portò ai giornali in una carrozza di ritorno dal corteo funebre. Un amico imprudente lo fece vedere alla buona signora Marmet, che cadde svenuta. Possibile, signora, che non abbiate mai sentito parlare di questa disputa sapiente e feroce?
«Il motivo fu la lingua etrusca. Marmet s’era dedicato interamente al suo studio. Lo chiamavano Marmet l’Etrusco. Né lui né altri conoscevano una sola parola di questa lingua della quale si sono perdute le ultime vestigia. Schmoll ripeteva continuamente a Marmet: – «Voi sapete bene che non sapete affatto l’etrusco, caro collega; è per questo che siete uno scienziato onorevole e un uomo di spirito.» – Punto da queste lodi maligne, Marmet volle dimostrare di sapere un po’ d’etrusco. Lesse ai colleghi dell’Accademia delle Iscrizioni una memoria sulla funzione delle flessioni nell’idioma degli antichi toscani.»
La signora Martin domandò che cos’era una flessione.
– Oh! Signora, se vi do degli schiarimenti, finiremo coll’imbrogliare tutto. Vi basti sapere che, in quella memoria, il povero Marmet citava dei testi latini, e li citava tutti alla rovescia. Ora, Schmoll è un latinista di prima forza e, dopo Mommsen, il primo epigrafista del mondo.
«Egli rimproverò al suo giovane collega (Marmet, non aveva ancora cinquant’anni) di leggere troppo bene l’etrusco e male il latino. Da quel momento, Marmet non ebbe più pace. In ogni seduta era preso in giro con un’allegra ferocia e dileggiato in modo tale che, malgrado la sua dolcezza di carattere, si arrabbiò. Schmoll non conserva rancore: è una virtù della sua razza. Non vuol male a coloro che perseguita. Un giorno, salendo le scale dell’Istituto, insieme a Renan e a Oppert, incontrò Marmet e gli tese la mano. Marmet rifiutò di prenderla e disse: – «Io non vi conosco.» – «Mi prendete forse per un’iscrizione latina?» – ribatté Schmoll. È un po’ per questa frase che il povero Marmet è morto e seppellito. Comprenderete adesso perché la vedova, che conserva religiosamente il suo ricordo, veda con orrore il suo nemico.
– E io che li ho fatti pranzare insieme, proprio vicini uno all’altra!
– Signora, non è stata una cosa immorale, no, ma crudele.
– Caro signore, forse quel che dico vi urterà; ma se proprio occorresse scegliere, preferirei fare una cosa immorale che una cosa crudele.
Un giovane, grande, magro, bruno di viso, con due lunghi baffi, entrò, salutando con brusca disinvoltura
– Signor Vence, credo che conosciate il signor Le Ménil.
Infatti, s’erano già trovati insieme dalla signora Martin, e si vedevano qualche volta nella sala d’armi, di cui Le Ménil era assiduo. Anche il giorno prima, s’erano incontrati dalla signora Meillan.
– La signora Meillan, ecco una casa dove ci si annoia – disse Paolo Vence.
– Eppure vi si ricevono degli Accademici – disse Le Ménil. – Non voglio esagerare il loro valore; ma, insomma, sono delle persone di merito.
La signora Martin sorrise:
– Sappiamo, signor Le Ménil, che dalla signora Meillan vi siete occupato più delle donne che degli accademici. Avete condotto la principessa Seniavine al buffet e le avete parlato di lupi.
– Come? Di lupi?
– Di lupi, di lupe e di lupacchiotti, e dei boschi resi cupi dall’inverno. C’è parso che, con una persona così graziosa, fosse un argomento un po’ feroce.
Paolo Vence si alzò.
– Così, me lo permettete, signora: vi condurrò il mio amico Dechartre. Ha un gran desiderio di conoscervi e spero che non vi dispiacerà. Ha del brio e della vivacità di spirito: è pieno d’idee.
La signora Martin l’interruppe:
– Oh! Io non chiedo tanto. Le persone che hanno un carattere, e lo dimostrano sinceramente, non mi annoiano quasi mai; e qualche volta mi divertono.
Quando Paolo Vence fu uscito, Le Ménil attese che fosse svanito il rumore dei suoi passi nell’anticamera e ricaduto il battente della porta; poi, avvicinandosi a lei:
– Domani alle tre nel nostro nido, è vero?
– Mi ami dunque ancora?
La sollecitò a rispondere finché erano soli; ella replicò, un po’ scherzosamente, ch’era tardi, che non aspettava più visite, e che soltanto suo marito, adesso, poteva entrare.
Egli insisté, supplichevole. Allora, senza farsi più pregare
– Vuoi? Ascolta: domani sarò libera tutta la giornata. Aspettami in Via Spontini alle tre. Poi andremo a passeggiare.
La ringraziò con uno sguardo. Avendo poi ripreso il suo posto davanti a lei, all’altro angolo del camino, le domandò chi era quel Dechartre che si faceva presentare.
– Non sono io, che me lo faccio presentare: me lo presentano. È uno scultore.
Egli si lamentò che avesse bisogno di vedere delle facce nuove.
– Uno scultore? Di solito, sono un po’ grossolani, gli scultori.
– Oh! Quello là, scolpisce così poco! Ma se non volete che lo riceva, non lo riceverò.
– Mi dispiacerebbe se le vostre relazioni vi prendessero una parte del tempo che dovete a me.
– Amico mio, non potete lamentarvi che io sia troppo mondana. Ieri non sono nemmeno andata dalla signora Meillan.
– Fate bene ad andarci il meno possibile non è una casa per voi.
Si spiegò. Tutte le signore che ci andavano avevano avuto qualche avventura che si sapeva, che si raccontava. Del resto, la signora Meillan favoriva gli intrighi. Citò qualche esempio per dimostrarlo.
Nel frattempo, Teresa, colle mani lungo i braccioli della poltrona, in un dolce riposo, la testa china da un lato, guardava morire il fuoco. Il suo pensiero era volato lontano: non ne restava più niente nel suo viso un po’ triste e nel suo corpo illanguidito, più desiderabile che mai in quel sonno dell’anima. Conservò per qualche tempo un’immobilità profonda, che aggiungeva all’attrattiva della sua carne il fascino delle cose create dall’arte.
Egli le domandò a che cosa pensasse. Sottraendosi un poco alla melanconica magia delle braci e delle ceneri, ella disse:
– Domani, se volete, andremo nei quartieri lontani, in quei quartieri bizzarri in cui si vede vivere la povera gente. Mi piacciono le vecchie strade di miseria.
Le promise di soddisfare il suo gusto, pur lasciando capire che lo trovava assurdo. Quelle passeggiate in cui lo trascinava, qualche volta lo annoiavano, e le giudicava pericolose: potevano esser visti.
– E dal momento che siamo riusciti finora a non far parlare di noi…
Ella scosse il capo.
– Credete proprio che non si sia parlato di noi? Si sappia o non si sappia, la gente parla. Non si sa tutto, ma si dice tutto.
Ricadde nella sua fantasticheria. Egli la credette malcontenta, irritata per qualche ragione che non diceva, e si chinò sui begli occhi vaghi che riflettevano i bagliori del focolare. Ma essa lo rassicurò: