I
Ella diede un’occhiata alle poltrone riunite davanti al camino, al tavolinetto da tè, che brillava nell’ombra, e ai grandi mazzi di fiori pallidi che s’innalzavano dai vasi cinesi. Tuffò la mano nei rami fioriti dell’oppio per far tremolare le loro bacche argentate. A un tratto, si guardò, da lontano, in uno specchio con intensa attenzione. Diritta e snella di personale, colla guancia china sulla spalla, ella seguiva coll’occhio le ondulazioni della sua forma flessuoso nella guaina di raso nero, intorno alla quale fluttuava una tunica leggera, cosparsa di perle in cui tremolavano delle fiamme cupe. Poi si avvicinò allo specchio, curiosa di veder bene il suo viso di quel giorno. Lo specchio le rifletté uno sguardo tranquillo, come se quella amabile donna, che essa esaminava e che non le dispiaceva, vivesse senza grande gioia e senza profonda tristezza.
Sulle pareti del grande salotto vuoto, le figure degli arazzi, vaghe come ombre, impallidivano fra i loro giochi antichi, nelle loro grazie morenti. Com’esse, le statuette di terracotta sulle colonnette, i vecchi ninnoli di Sassonia e le pitture di Sèvres, allineate nelle vetrine, parlavano di cose passate. Sopra un piedistallo guarnito di bronzi preziosi, il busto di marmo di qualche principessa reale, travestita da Diana, col volto capriccioso, il seno provocante, sembrava sfuggire dai suoi panneggiamenti complicati, mentre nel soffitto una Notte, incipriata come una marchesa e circondata da Amorini, spargeva dei fiori. Tutto sonnecchiava, e si sentiva soltanto lo scoppiettio del fuoco e il tintinnar leggero delle perle sui veli.
Distolto lo sguardo dallo specchio, andò a sollevare l’angolo d’una tendina, e dalla finestra vide, attraverso gli alberi neri dell’argine, in una luce grigiastra, la Senna che fluiva colle sue onde gialle e vellutate. Il tedio del cielo e dell’acqua si riflettevano nelle sue pupille di un delicato color grigio. Un battello passò: la «Rondinella», sboccando da un arco del ponte dell’Alma e portando degli umili viaggiatori verso Grenelle e Billancourt. Essa lo seguì collo sguardo mentre si allontanava dalla riva nella corrente fangosa; poi lasciò ricadere la tendina, ed essendosi seduta nel solito angolo del divano, sotto i fasci di fiori, prese un libro che si trovava sulla tavola, a portata di mano. Sulla copertina di tela paglierina brillava in oro questo titolo: Isotta la Bionda, di Viviana Bell. Era una raccolta di versi francesi scritti da una inglese e stampati a Londra. L’aperse e lesse a caso:
Allorché la campana, come la gente pia,
Canta nel ciel commosso: «Ti saluto, Maria»,
La vergine, vedendo gli alberi del verziero,
Freme come all’annunzio d’ignoto messaggero,
Che reca un giglio rosso, risvegliante un desiro,
Di morir di profumo nel suo dolce respiro.
Nel chiuso orlo la vergine, nella tranquilla sera,
Sente alle labbra l’anima salirle, e par che miri
Fluir la vita come un rivo in primavera,
Che scorra nel suo petto, tra flebili sospiri.
Leggeva, indifferente, distratta, aspettando le sue visite e pensando più alla poetessa che alla poesia, a quella Miss Bell che era forse la sua più piacevole amica e che non vedeva quasi mai; che, a ciascuno dei loro incontri, così rari, la baciava chiamandola «darling», le batteva bruscamente il naso sulla guancia, e gorgheggiava; che, brutta e seducente, leggermente ridicola e veramente squisita, viveva a Fiesole da esteta e da filosofo, mentre l’Inghilterra la celebrava come la sua poetessa prediletta. Come Vernon Lee e Maria Robinson, costei s’era innamorata della vita e dell’arte toscana; e senza nemmeno terminare il suo Tristano, la cui prima parte aveva ispirato a Burne Jones dei suggestivi acquarelli, scriveva dei versi provenzali e dei versi francesi su pensieri italiani. Aveva mandato la sua Isotta la Bella a «darling» con una lettera in cui l’invitava a passare un mese a Fiesole da lei. Aveva scritto: «Venite; vedrete le più belle cose del mondo, e le abbellirete ancora colla vostra presenza.»
E «darling» diceva fra sé che non sarebbe andata, dovendosi trattenere a Parigi. Ma l’idea di rivedere Miss Bell e l’Italia le sorrideva. Sfogliando il libro, si fermò per caso a questo verso
Amore e cor gentil sono una cosa.
Si chiese, con un’ironia leggera e dolcissima, se Miss Bell avesse amato e quali potessero mai essere i suoi amori. La poetessa aveva a Fiesole un cicisbeo, il principe Albertinelli. Bellissimo, egli sembrava troppo grossolano e volgare per piacere a una esteta che metteva nel desiderio d’amare il misticismo di un’Annunciazione.
– Buongiorno, Teresa! Sono sfinita.
Era la principessa Seniavine, flessuosa nella pelliccia che avvolgeva la sua carne bruna e selvaggia. Si sedette bruscamente e, colla sua voce rude eppur carezzevole, che aveva delle modulazioni virili e garrule, disse:
– Stamattina, ho attraversato a piedi tutto il Bosco col generale Larivière. L’ho incontrato nel viale dei Potins e l’ho accompagnato fino al ponte d’Argenteuil, dove voleva assolutamente comprare dal guardiano del Bosco, per regalarmela, una gazza ammaestrata, che fa gli esercizi con un piccolo fucile. Sono spossata.
– Ma perché dunque avete condotto il generale fino al ponte d’Argenteuil?
– Perché aveva la gotta a un dito del piede.
Teresa alzò le spalle sorridendo:
– Voi sprecate la vostra malignità. Siete una scialacquatrice.
– E voi vorreste, cara, che economizzassi la mia bontà e la mia cattiveria, nella speranza di collocarle seriamente?
Bevette un po’ di vino di Tokay.
Preceduto dal rumore affannoso del suo respiro, il generale Larivière si avanzò, con passo pesante, baciò la mano alle due signore e si sedette fra loro, con aria dura e soddisfatta, coll’occhio sollevato all’estremità, ridendo con tutte le piccole rughe delle tempie.
– Come sta il signor Martin-Bellème? È sempre occupato?
Teresa rispose che credeva fosse alla Camera, e che anzi stava facendo un discorso.
La principessa Seniavine, che mangiava dei sandwich al caviale, domandò alla signora Martin perché non fosse venuta ieri dalla signora Meillan, dove avevano rappresentato una commedia.
– Un lavoro scandinavo. È piaciuto?
– Sì. Non so. Ero nel salottino verde, sotto il ritratto del duca d’Orléans. Il signor Le Ménil m’è venuto incontro e m’ha reso un servizio prezioso: m’ha liberato dal signor Garain.
Il generale, che era pratico degli annuari e immagazzinava nella sua grossa testa tutte le informazioni utili, tese l’orecchio a questo nome.
– Garain; – domandò – il ministro che faceva parte del Gabinetto, all’epoca dell’esilio dei principi?
– Proprio lui. Io gli piacevo molto. Mi parlava dei bisogni del suo cuore e mi guardava con una tenerezza spaventosa. E ogni tanto contemplava sospirando il ritratto del duca d’Orléans. Gli ho detto: «Signor Garain, voi confondete. È mia cognata, che è orleanista io non lo sono affatto.» In questo momento, il signor Le Ménil è venuto per condurmi al buffet. M’ha fatto dei grandi complimenti… sui miei cavalli. M’ha detto anche che non c’era niente di più bello dei boschi, d’inverno. M’ha parlato dei lupi e dei lupacchiotti. Tutto questo m’ha distratto.
Il generale, che non amava i giovani, disse che aveva incontrato Le Ménil, il giorno prima, al Bosco, che galoppava furiosamente.
Aggiunse che soltanto i vecchi cavalieri conservavano la buona tradizione, e che i giovani eleganti del giorno d’oggi avevano il torto di cavalcare come dei fantini.
– Così pure è per la scherma. Ai miei tempi…
La principessa Seniavine l’interruppe bruscamente:
– Generale, guardate un po’ com’è bella la signora Martin. È sempre graziosa, ma in questo momento più che mai, perché si annoia. Niente le s’addice meglio della noia. Da quando siamo qui, la secchiamo senza dubbio. Guardatela: la fronte corrugata, lo sguardo vago, la bocca dolorosa: una vera vittima!
Scattò in piedi, baciò tumultuosamente Teresa, e se ne andò, lasciando il generale meravigliato.
La signora Martin-Bellème lo supplicò di non dar retta a quella pazza.
Allora egli si rimise e domandò
– E i vostri poeti, signora?
Perdonava a malincuore alla signora Martin il suo gusto per della gente che scriveva e che non apparteneva al suo mondo.
– Sì, i vostri poeti? Che cosa n’è di quel signor Choulette, che vi fa delle visite in cravattone rosso?
– I miei poeti mi dimenticano, mi abbandonano. Non bisogna fare assegnamento su nessuno. Gli uomini, le cose; non c’è niente di sicuro. La vita è un tradimento continuo. Non c’è che quella povera Miss Bell che non mi dimentica. M’ha scritto da Firenze, e mandato il suo libro.
– Miss Bell, non è quella giovane signora, che ha l’aria, coi suoi capelli gialli inanellati, d’un cagnolino da salotto?
Fece un calcolo mentale e gli parve che adesso dovesse ben avere trent’anni.
Una vecchia signora, che portava con modesta dignità la sua corona di capelli bianchi, e un omino vivace, dallo sguardo acuto, entrarono uno dietro l’altra: la signora Marmet e il signor Paolo Vence. Poi, tutto impettito, col monocolo, apparve il signor Daniele Salomon, l’arbitro dell’eleganza. Il generale se la svignò.
Si parlò del romanzo della settimana. La signora Marmet aveva parecchie volte pranzato coll’autore, un giovane amabilissimo. Paolo Vence trovava il libro noioso.
– Oh! – sospirò la signora Martin – tutti i libri sono noiosi; ma gli uomini sono più noiosi dei libri. E sono più esigenti.
La signora Marmet fece sapere che suo marito, che aveva molto buon gusto letterario, aveva conservato sino alla morte un sacro orrore del naturalismo.
Vedova d’un membro dell’Accademia delle Iscrizioni, metteva in mostra, nei salotti, la sua illustre vedovanza; dolce e modesta, del resto, nella sua veste nera e sotto i suoi bei capelli bianchi.
La signora Martin disse al signor Daniele Salomon che voleva consultarlo intorno a un gruppo di bambini.
– È di Saint-Cloud. Mi direte se vi piace. Anche voi, signor Vence, mi darete il vostro parere, a meno che non disprezziate queste piccolezze.
Il signor Daniele Salomon guardò Paolo Vence attraverso il monocolo, con un’alterigia sgarbata.
Paolo Vence passava in rassegna, collo sguardo, il salotto:
– Avete delle belle cose, signora. Questo non sarebbe nulla: ma tutte queste belle cose sono una degna cornice per voi.
Ella non nascose la sua gioia nel sentirlo parlare così. Stimava Paolo Vence per il solo uomo veramente intelligente che frequentasse il suo salotto. Lo aveva apprezzato prima che i suoi libri gli avessero dato una grande rinomanza. La sua salute delicata, il suo umor nero, il suo assiduo lavoro, lo tenevano lontano dalla vita di società. Quel piccolo uomo bilioso non era molto piacevole. Eppure essa lo vedeva volentieri: stimava molto la sua profonda ironia, la sua fierezza selvaggia, il suo ingegno maturato nella solitudine, e lo ammirava con ragione come un eccellente scrittore, l’autore di magnifici saggi sopra le arti e i costumi.
A poco a poco, il salotto s’era empito di una folla brillante. C’erano adesso, nel gran cerchio delle poltrone, la signora De Vresson, della quale si raccontavano delle storie spaventose, e che conservava, dopo vent’anni di scandali mal nascosti, degli occhi infantili e delle guance verginali; la vecchia signora De Morlaine, che lanciava in gridi acuti i suoi motti di spirito, vivace, stordita, agitante le sue forme mostruose come una nuotatrice circondata da vesciche; la signora Raymond, moglie dell’Accademico; la signora Carain, moglie dell’ex-ministro; tre altre signore ancora; e, in piedi contro il camino, il signor Berthier d’Eyzelles, redattore del Journal des Débats, deputato, che si accarezzava le basette bianche e si pavoneggiava, mentre la signora De Morlaine gli gridava:
– Il vostro articolo sul bimetallismo è una perla, un gioiello! Specialmente la fine, una delizia!
In piedi, in fondo al salotto, alcuni giovanotti eleganti, molto seri, bisbigliavano fra loro:
– Che cosa ha fatto, per avere il posto d’onore alle caccie del principe?
– Lui? Niente. Sua moglie, tutto.
Avevano la loro filosofia. Uno di essi non credeva alle promesse degli uomini:
– Vi sono degli altri tipi che non mi piacciono affatto. Dicono, con un’aria di leale sincerità: «Volete iscrivervi al Circolo? Vi prometto di votar palla bianca…» Palla bianca? Non c’è dubbio: un globo d’alabastro, una palla di neve! Si vota: Crac! Un tartufo! La vita, a pensarci bene, è una cosa sudicia.
– E allora non pensarci – disse un terzo.
Daniele Salomon, che si era aggiunto a loro, mormorava all’orecchio, colla sua voce casta, dei segreti d’alcova. E a ogni rivelazione strana sulla signora Raymond, sulla signora Berthier d’Eyzelles e sulla principessa Seniavine, aggiungeva con indifferenza: