Il manichino di legno-2

2000 Words
Ma dov’era zio Joe ? Nell’oscurità, nemmeno una mosca nottambula a spezzare quel silenzio di tomba. Rose tentò di muovere mani e piedi, ma le corde si stringevano di più a ogni suo tentativo. Qualcuno di veramente esperto nell’antica arte dei nodi ci aveva messo un certo impegno. La palla gommosa era spinta nella bocca da una corda ruvida allacciata stretta dietro la nuca, che stava iniziando a lacerarle gli angoli delle labbra. L’unica cosa che poteva fare in quelle condizioni era emettere gemiti, col tono più acuto possibile. Dopo un quarto d’ora abbondante, i gemiti ininterrotti le avevano reso la gola ruvida e secca, e provava la sensazione di avere un centinaio di puntine da disegno ficcate in fondo alla trachea. Dagli angoli della bocca le scendevano rivoli di bava e sangue, che lentamente fluiva dalle piaghe dovute allo sfregamento della corda. Allo strazio della paura si aggiungeva il supplizio del dolore fisico. Le gambe le facevano male e la posizione innaturale delle braccia le procurava continui crampi alla schiena e ai muscoli del collo. Rose poteva vedere il vecchio orologio a pendolo di zio Joe, nell’angolo della stanza, che segnava le tre di mattina. Mentre tentava di emettere l’ennesimo lamento, sentì la porta decrepita cigolare, mentre una sottile lama di luce proveniva dal corridoio. Ci siamo, pensò, il ladro è venuto a finire il lavoro. Se lo guardo in faccia mi ucciderà. Fece appello a tutto il coraggio che aveva in corpo e chiuse gli occhi per sembrare svenuta. Tentò di rilassare i muscoli della schiena che non ne volevano sapere di lasciarla in pace dalle fitte dei crampi. Immobile, con gli occhi chiusi, sentiva solo il rumore del suo respiro affannoso e della porta di legno che si apriva lentamente. Dopo qualche secondo di silenzio assoluto sentì scricchiolare lo sgangherato parquet sotto i passi del rapinatore. Indossava scarpe con la suola di cuoio che ticchettavano rumorosamente sui vecchi listelli. Rose teneva duro. Se avesse aperto gli occhi sarebbe stata la fine o così almeno pensava. I passi dell’uomo si avvicinavano sempre di più. La sua lentezza era estenuante. Non voleva farsi sentire, concluse Rose nella sua testa di quindicenne terrorizzata. L’uomo si avvicinò, per poi allontanarsi lentamente verso la lampada da lettura posta all’angolo a destra della stanza, di fronte al letto. La accese con un click, tirando la catenella di ottone. Rose, continuava a fare del suo meglio per recitare la scena dello svenimento, ma era sull’orlo di mettersi a gridare – ma urlare cosa, con questa schifezza gommosa ficcata fino ai molari? si chiese. E si chiese anche perché un ladro avrebbe dovuto accendere la luce alle tre di mattina. Nei film polizieschi e nei fumetti, i malviventi giravano sempre con una torcia a batterie, e agivano nel buio per non attirare sguardi indiscreti. Il rapinatore misterioso rimase immobile per un momento, che sembrò durare più dell’eternità, poi si mise a sedere sulla poltrona che zio Joe usava nei frequenti momenti di lettura. I momenti che lui chiamava esperienze di evoluzione formativa. La poltrona era di fronte al letto, nell’angolo, sulla destra. L’uomo vi rimase seduto alcuni minuti, nei quali Rose ebbe un paio di attacchi di crampi con i fiocchi, che riuscì a malapena a contenere continuando a tenere gli occhi chiusi e stringendo i denti così tanto da avere la sensazione che si sarebbero strappati dalle gengive da un momento all’altro. Che diavolo voleva quell’individuo? Mentre formulava questa domanda in fondo alla propria coscienza e iniziava lentamente a intuirne la risposta, sentì l’uomo alzarsi dalla poltrona e avvicinarsi ai suoi piedi. Lo scricchiolio del vecchio pavimento di legno si faceva più intenso passo dopo passo. Quando l’uomo si fermò di fianco al letto, chinandosi in avanti verso la sua pancia e accarezzandole un piede con una mano gelida, Rose poté distinguere l’inconfondibile odore dell’acqua di colonia di zio Joe. Ora sapeva. Era lui che l’aveva ridotta in quel modo. E sapeva perché. Mentre sentiva il respiro dell’uomo farsi sempre più affannoso nell’avvicinarsi al suo inguine, d’un tratto capì cosa conteneva la busta che aveva infilato nei jeans sudici della zia Emily. Dollari. Dollari per far finta di non sapere. Quando mise giù il telefono mandando all’inferno il Cancelliere della contea, urlandogli in faccia che della morte di quel bastardo figlio di puttana non gliene poteva fregare un bel cazzo, non poté fare a meno di rivedere quella scena disgustosa, così come l’aveva rivista negli ultimi venticinque anni, ogni volta che un uomo le si era avventurato a meno di mezzo metro. Aveva subito due giorni e due notti di violenze e abusi di ogni genere prima che riuscisse a fuggire da quella casa maledetta. Mentre zio Joe era giù nel magazzino a curare i suoi affari, era riuscita miracolosamente a rompere un bicchiere dimenticato a poca distanza dalla sua mano, sul comodino, e quindi con una scheggia di vetro a recidere la corda che le stringeva il polso alla testata di ferro battuto del letto. Nel fare quell’operazione si era procurata anche un profondo taglio sul palmo della mano. Tra le ferite che aveva nel corpo e nell’anima era quella che bruciava di meno. Si era rimessa in fretta e furia lo stesso vestito indossato per la cena, il vestito che zio Joe le aveva sfilato approfittando dello stato di torpore provocatole dalla massiccia dose di sonnifero, che lei aveva ingenuamente trangugiato assieme alle sue amate costolette d’agnello. Immaginandosi quella scena non aveva potuto fare a meno di vomitare quel poco che aveva in corpo. Il suo aguzzino l’aveva sapientemente alimentata con una soluzione acquosa di sostanze nutritive. Ci teneva che il suo nuovo passatempo non gli crepasse proprio sul più bello. Probabilmente aveva intenzione di andare avanti così per settimane, sino a quando non l’avrebbe ridotta alla completa schiavitù o alla pazzia. E poi, liberarsi del cadavere di una ragazzina era cosa che comportava più di qualche scocciatura, anche a un uomo con una certa intelligenza come Joe. Quando si era guardata di sfuggita nel gigantesco specchio appeso alla parete, aveva visto l’immagine di un mostro. Gli angoli della bocca erano tagliati, le guance coperte di piaghe, a disegnare un ghigno grottesco, da clown triste, i capelli ridotti a una poltiglia di nodi, bava verdastra e schiumosa. Sentiva sfregare tra le cosce piccoli grumi di sangue rappreso. I muscoli erano indolenziti e lei sentiva di muoversi come una specie di burattino. Ma era riuscita in qualche modo a entrare nello studio e arraffare dal cassetto della scrivania in mogano una manciata di banconote e una pietra azzurra della quale ignorava il valore. Quindi, era scesa per le scale facendo attenzione a non fare il minimo rumore e si era nascosta nel magazzino, in mezzo ai draghi di cartapesta e alle altre mille stramberie di zio Joe. Joe il maniaco. Joe il torturatore. Uscire dalla porta sul retro era fuori discussione, ostruita com’era da non meno di una dozzina di mobili, statue, marmi e centinaia di piccoli oggetti della più varia specie. Non vi era altra via d’uscita se non quella principale del negozio, che sboccava direttamente in Burlington Avenue. Aveva dovuto aspettare l’orario di chiusura. Il maniaco, chiusa la porta dall’interno, era salito al piano di sopra, e prima che si accorgesse della sua assenza lei aveva avuto l’unica possibilità di mettersi in salvo. Fu così che alle sette e cinque minuti di una fresca serata di primavera, una ragazzina di quindici anni compiuti da due giorni si trovò a vagare in stato di semi-coscienza per il centro di Nashville, Tennessee, col vestito imbrattato di vomito, le lacrime che scendevano lungo guance cadaveriche coperte di piaghe, e la giovinezza perduta nel peggiore dei modi. Esattamente venticinque anni dopo, nell’accarezzarsi la cicatrice rimasta sul palmo della mano destra e scolandosi il secondo bicchiere di whisky a buon mercato con la sinistra, cominciò a rivedere il miserabile film della sua vita. Appena fuggita dall’inferno di quel maledetto bazar, si era messa a vagare per il centro della città senza una meta precisa. Ancora ricordava la sensazione di guardare dall’oblò di una nave affondata in un mondo morto e privo di emozioni. Osservava quello dei vivi dal buco della serratura. Non si curava degli sguardi invadenti dei passanti, che con una smorfia di nausea tiravano dritto per la propria strada. Tutto le scorreva sopra, sotto, di lato, come acqua fresca su una sfera di vetro. Camminava e basta. A quell’ora in giro per il centro c’erano solo uomini d’affari e avvocati che uscivano dai propri uffici. Gente che dopo una giornata di lavoro duro, non vedeva l’ora di rinchiudersi dentro casa e accendere la televisione. Gente che non aveva la minima intenzione di mettersi nei pasticci immischiandosi negli affari altrui. Tantomeno in quelli di una ragazzina sanguinolenta coperta di vomito giallastro. Trovò un McDonald’s aperto e sgattaiolò nel bagno, dove riuscì a darsi una ripulita alla bell’e meglio e tamponare le ferite con della carta igienica. Mise la testa sotto il getto dell’acqua, nel lavabo, ed ebbe la sensazione di tornare, almeno per qualche attimo, nel mondo dei viventi. Contò il denaro che era riuscita ad arraffare dal cassetto di Joe. Settecento dollari in contanti. Non male. Erano i soldi che le sarebbero serviti per scappare. Inoltre aveva con sé la pietra, di cui ignorava la qualità, ma che sembrava essere una di quelle che quel verme di Joe considerava di buon valore. Non una fortuna, certo, per quelle c’era la pesante cassaforte di ghisa, la cui unica copia di chiavi rimaneva giorno e notte appesa al suo collo da tacchino rinsecchito. Prese per un attimo in considerazione l’ipotesi di denunciare l’accaduto alla polizia, ma la scartò subito. Da una parte un’orfana indolente, solitaria, e dall’altra un ricco uomo d’affari ebreo, buon contribuente alla causa comune, e un’onesta campagnola yankee. Probabilmente Joe era a conoscenza di molti segreti degli sbirri della città. Rose aveva visto più volte lo sceriffo in persona entrare nella bottega dello zio. Si diceva che avesse un debole per il gioco d’azzardo, la vodka, e le belle donne. No, Rose era giovane ma non così ingenua da rischiare di finire chiusa in qualche riformatorio o peggio in una clinica psichiatrica. Aveva visto bene con quanta determinazione zia Emily si era messa in tasca quella busta, che poteva tranquillamente contenere una cifra abbastanza alta da comprare non solo il suo silenzio, ma il convinto appoggio a qualsiasi tesi di Joe il maniaco. Avrebbero detto che era pazza. Che era una mitomane. Che si era procurata le ferite da sola. L’avrebbero accusata di furto. E gli sbirri avrebbero creduto a loro, sì, due onesti e coscienziosi cittadini del Midwest. Si asciugò i capelli con uno straccio per i pavimenti dimenticato per terra e uscì di nuovo, in mezzo alla gente. Ora la guardavano con sospetto, ma senza conati di vomito. Un miglioramento significativo. Andò alla stazione degli autobus e comprò un biglietto per Jefferson, nella contea di Shelby. Non c’era una ragione particolare perché andasse laggiù, ma Jefferson era l’unica città di cui conoscesse il nome oltre Nashville e Dayton. Aveva sentito dire che era una bella città, un posto dove la gente non faceva troppe domande. Mentre aspettava la partenza, trovò il coraggio di entrare in un grande magazzino e comprarsi dei vestiti nuovi abbandonando quelli vecchi in un bidone della spazzatura. I successivi venticinque anni passarono in fretta. Tanto in fretta che si trovò a essere una vecchia zitella alcolizzata senza nemmeno accorgersene. Una volta aveva letto su una rivista che capitava a molte persone. Perdere la propria vita per strada senza saperlo e rendersene conto quando ormai è troppo tardi per tornare indietro. A Jefferson aveva affittato una stanza in una piccola pensione, fingendosi più grande e raccontando di essere venuta in visita a un vecchio parente che si trovava all’ospedale per una grave malattia. Aveva pagato in contanti un intero mese, e il padrone se li era messi in tasca facendosi gli affari suoi. Proprio come le avevano detto.
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