Il manichino di legno
Quando Rosemary Stakovsky, discendente di una famiglia ebrea, fuggita negli Stati Uniti appena in tempo per non essere spedita in blocco a Sobibor o Treblinka, seppe che anche il suo ultimo parente era morto, si accese la quarantesima Marlboro della giornata e si versò un dito di bourbon nel bicchiere maculato da impronte di rossetto dozzinale.
Rose, solo il giorno precedente, aveva compiuto i suoi primi quarant’anni in compagnia dell’unica e migliore amica. Una bottiglia di Jack Daniel’s.
Ma la notizia era di quelle che meritavano, a prescindere, un goccetto celebrativo.
Era la figlia unica e fermamente indesiderata di un rappresentante ebreo di utensili per il giardinaggio, originario dell’insignificante cittadina polacca di Chorzow e di un’estetista di Dayton, Tennessee.
Uno dei peggiori miscugli etnici mai visti dalla scoperta degli Stati Uniti d’America.
Pochi mesi dopo la sua nascita, il padre se ne andò a cercare maggior fortuna in Italia, dove alcuni cugini del ghetto di Roma avevano iniziato un proficuo commercio di tessuti con il Medio Oriente.
Mamma Zoe, ben lontana dal disperarsi per l’allontanamento precoce di quell’insipido omuncolo, sposato solo per riparare a una gravidanza rimediata sotto l’effetto di un drink di troppo, preferiva di gran lunga trascorrere le proprie serate spassandosela con qualche nerboruto cow boy, che a preparare pappe insipide e spalare la merda di una mocciosa.
Rose trascorse la sua infanzia a una manciata di miglia da Dayton, nella fattoria di zia Emily, una sorella maggiore della madre rimasta zitella.
La zia si fece carico di quel fardello maleodorante unicamente perché, come la maggior parte della popolazione americana di basso livello culturale, credeva che tutti gli ebrei fossero ricchi e che in qualche modo, un giorno o l’altro, qualcuno sarebbe tornato a prendersi Rose. E lei, da pragmatica lavoratrice di campi nordisti, avrebbe saputo trarne un equo beneficio economico presentandogli il conto.
Nelle rare pause tra una bevuta e l’altra, mamma Zoe passava a trovarla alla fattoria, e tutte le volte si metteva a piagnucolare di quanto le sarebbe piaciuto portarla a vivere con sé, ma che per il momento era meglio che il suo tesoro restasse con la cara zia Emily.
Morì quando Rose aveva solo sette anni, per un mozzicone di sigaretta dimenticato sullo squallido materasso di spugna della roulotte in cui viveva. L’ultima di una serie di improbabili abitazioni che divenne anche la sua bara.
Il padre scomparve sei anni più tardi senza lasciare molte tracce significative, a parte qualche debito di gioco e, appunto, una bambina che ormai si stava facendo ragazza.
Rose seppe della sua morte dal fratello del padre, zio Joseph, che era rimasto negli Stati Uniti e gestiva una specie di banco dei pegni a Nashville.
Quando lo vide per la prima volta, alla fattoria, Rose era ancora troppo piccola e troppo ingenua per notare la luce brillante che fiammeggiava negli occhi di quell’uomo magro e misterioso, quando le pupille si posavano sulle forme appena accennate dei suoi seni.
Joseph si fermò a parlare per un intero pomeriggio, le disse che il suo papà era passato a un mondo migliore a causa di una rara e fulminante forma di tumore del sangue – m non che a lei importasse più di tanto, dato che non l’aveva mai conosciuto – e che era sepolto al cimitero ebraico di Roma.
Poi offrì a zia Emily il proprio contributo, sottolineando anche economico, all’educazione della piccola e sfortunata Rose.
Zia Emily, che passava la sua vita piegata in due nel vano tentativo di far rendere qualche spicciolo a quella fottuta fattoria, così almeno era solita chiamarla, fu ben lieta di accettare il sostegno morale, ma soprattutto quello economico, dello zio Joseph.
In fondo, il suo auspicio si era realizzato, sia pure sotto diversa forma.
Fu così che iniziò il periodo delle trasferte a Nashville, a casa dello zio, conosciuto nel quartiere col soprannome poco rassicurante di Jackal Joe.
Joe viveva da solo in una casa indipendente affacciata sulla via principale di Nashville, sotto la quale regnava l’Antiques and Precious, un enorme bazar dove esercitava il commercio di ogni genere di oggetto che avesse un valore.
Rose cresceva velocemente, come tutte le tredicenni di questo mondo, e in fondo trascorrere di quando in quando un po’ di tempo con qualcuno che non assomigliasse a una pecora, e non avesse appiccicato ai vestiti l’odore ripugnante del letame, non le dispiaceva.
Zio Joe era un tipo curioso e originale, e sembrava avere una certa autorità nel quartiere, anche se Rose, nella sua ingenuità, non si spiegava perché tutti quelli che entravano nel negozio lo salutavano con rispetto e una punta di riverenza, mentre per la strada abbassavano lo sguardo e tiravano dritto, come se si vergognassero di conoscerlo.
Anche lo zio stava a quel gioco, e fuori dal negozio non salutava mai nessuno, salvo che quello non lo facesse per primo.
Sembrava attenersi a una specie di misterioso codice etico che Rose riuscì a decifrare solo dopo molte visite e lunghe osservazioni di come si stringevano gli affari nell’Antiques and Precious.
Non vi era nulla di proibito né di illegale, ma era di vitale importanza che l’identità dei clienti rimanesse confidenziale.
Nessuno in una piccola città come Nashville ci teneva a far sapere in giro che si trovava in difficoltà economiche o che impegnava la vecchia scrivania del nonno avvocato per onorare una partita di poker finita male o qualche altro vizietto.
Per questo lo zio riceveva solo un cliente per volta. Quando ne entrava uno, la porta rimaneva chiusa sino a quando quello non se ne fosse andato. E questo tipo di riservatezza aveva fatto la sua fortuna negli affari.
Joe era alto quasi due metri, eppure Rose avrebbe giurato che il suo peso non sarebbe arrivato a superare quello di zia Emily, che era più bassa di lui di almeno un paio di spanne. Aveva il naso più lungo di un palmo di mano, e vestiva sempre di nero con un cappello a falde larghe che gli dava l’aspetto di un vecchio corvo.
Se fosse cresciuto a Hollywood, invece che nel Tennessee, avrebbe sicuramente recitato la parte del cattivo in qualche film di John Wayne.
In effetti, era un tipo che destava negli altri un certo timore reverenziale, ma a Rose in fondo non faceva paura. Più che altro, le destava curiosità, e fantasia, perché sembrava sapere tutto ma proprio tutto di ogni cosa che gli capitasse a tiro.
Poteva perdersi per ore nei meandri più reconditi della storia, della filosofia, e distinguere una pietra da quattro soldi da una che valeva una fortuna, semplicemente accarezzandola con quelle dita scheletriche.
E aveva un mucchio di cose affascinanti nel suo negozio. Orologi antichi, mobili, quadri che potevano avere duecento anni e costare un occhio della testa. Lui riusciva sempre a spuntare un prezzo vantaggioso, le aveva detto. Il segreto era approfittare dello stato di bisogno di chi entrava nel suo bazar per vendere qualcosa, o per farsi prestare dei soldi a pegno, con tassi d’interesse che nella maggior parete dei casi non riusciva a pagare. Questo non l’aveva detto esplicitamente, ma era tanto chiaro quanto i suoi occhi azzurri nascosti sotto alle falde dell’inseparabile cappello.
Oltre al reparto pezzi da museo, come l’aveva battezzato Rose, il bazar era gremito da innumerevoli stramberie che non valevano un accidente, ma alle quali lo zio sembrava tenere particolarmente. Vecchi costumi carnevaleschi, draghi cinesi di cartapesta, e persino un grande vaso pieno di un liquido giallo che custodiva il feto di un animale misterioso.
Sì, zio Joe era un vero e proprio accumulatore umano di tesori bislacchi. Rose avrebbe giurato che rovistando a dovere nel suo magazzino, si sarebbero potuti trovare i disegni degli architetti che costruirono le piramidi d’Egitto, la lampada di Aladino, il Santo Graal e chissà quale altra corbelleria.
Nel giorno del suo quindicesimo compleanno zio Joe le promise di portarla fuori a cena. Così Rose si mise il vestito migliore che avesse e le scarpe nuove di vernice, regalo della cara zia Emily.
Si guardò nello specchio. In fondo, per essere una povera orfana di campagna, si trovò tutt’altro che ripugnante. Anzi era decisamente bella. I capelli neri e fluenti slanciavano la sua altezza, e i grandi occhi verdi illuminavano un corpo che ormai avrebbe potuto passare per quello di una ragazza ben più matura.
Non a caso Rose aveva notato che da qualche tempo gli uomini la osservavano con occhi diversi. Quando passeggiava per le vie del paese, per esempio, si accorgeva che quelli accompagnati dalle mogli la guardavano di nascosto. Come se provassero un senso di vergogna, di disagio.
La guardavano, sì, ma poi distraevano lo sguardo su qualche altra cosa nelle vicinanze. Una vetrina o un’auto di passaggio. Era il segno che il suo aspetto non era più quello di una bambina. Nessuno si preoccupava di guardare una bambina davanti alla propria moglie. Ma questo, l’avrebbe capito più tardi.
Zio Joe si presentò, puntuale come sempre, alle sette e mezza. Aveva una vera e propria fissazione per gli orari. Portava abitualmente almeno due orologi, uno al polso e uno da tasca, e amava ripetere: “Puntualità è sinonimo di buona educazione!”
Rose scese di corsa dal piano di sopra e si trovò di fronte a una scena curiosa: zio Joe, che solitamente si teneva a un’adeguata distanza di sicurezza dalla maleodorante zia Emily – sempre reduce da qualche impresa cascinesca, dallo spargimento del letame alla tosatura delle pecore – questa volta la cingeva con un braccio bisbigliandole qualcosa all’orecchio.
Nel contempo, Rose vide che con la mano libera dall’odorosa stretta, Joe metteva nella tasca di zia Emily una voluminosa busta gialla, di quelle usate dal servizio postale del Tennessee per trasmettere i documenti ingombranti.
Quando i due la videro scendere le scale di gran carriera, si allontanarono immediatamente l’uno dall’altra, come se fossero stati sorpresi a fare qualcosa di peccaminoso, e zia Emily, col suo solito fare da campagnola grossolana, fece il possibile per affondare la busta in fondo alla tasca dei jeans, come d’abitudine imbrattati da qualche paludosa poltiglia marrone.
Rose rimase per un secondo attonita da quella scena inconsueta, ma preferì non immischiarsi in faccende da adulti.
Zio Joe portò Rose a cena da Crosby King, unanimemente conosciuta come la miglior tavola calda del paese, e la fece abbuffare dei suoi piatti preferiti. Tacos, costolette d’agnello alla griglia, hamburger, patatine fritte e una gigantesca fetta di torta ai lamponi.
Lo zio si limitò al suo solito pasto frugale, fatto di una sola pannocchia arrostita e cosparsa di burro, e qualche tazza di caffè annacquato.
Durante la cena sembrava insolitamente nervoso, e contrariamente al solito, poco loquace.
Finita la cena le propose di fare un salto al magazzino e fermarsi giù a Nashville sino alla mattina seguente. Era sabato e il giorno dopo Rose era libera da impegni, se si esclude il solito braccio di ferro con zia Emily per chi delle due dovesse andare a tirare il latte dalla vecchia pecora Evelyn, che per dispetto si ostinava tutte le volte a pisciare sulle mani della mungitrice di turno.
A quella prospettiva, Rose accettò l’invito con entusiasmo, e durante il tragitto in macchina si addormentò come un sasso.
Il risveglio non fu dei migliori. Aprì gli occhi in uno stato di generale torpore e subito capì che c’era qualcosa – qualcosa di grosso – che non andava. La stanza era completamente buia, dalle pesanti persiane chiuse non filtrava il minimo frammento di luce; ma il peggio erano i polsi e le caviglie legati ai quattro angoli del massiccio letto in ferro battuto, e una palla di gomma ficcata nella bocca.
Ad aggravare la situazione, si rese conto di essere completamente nuda, escluso le striminzite mutandine a fiori ancora profumate di bucato.
Quando gli occhi si abituarono all’oscurità poté distinguere sul comodino la lampada con la base in avorio dello zio Joseph.
Ne dedusse che un rapinatore era entrato in casa, li aveva in qualche modo tramortiti, legati come salami, e arraffato quel che doveva. Questo pensiero ebbe un effetto tranquillizzante. Probabilmente il malfattore se n’era già andato o alla peggio si trovava al piano di sotto a far razzia.