Capitolo 2
Andò a recuperare Lyndon al piano, ovvero la suite presidenziale in cima all’hotel. La sua scorta (ex-scorta) del Garmantia City Police Department era schierata davanti all’ingresso, che era chiuso.
Vera si portò la mano alla fronte. «Capitano Jasper... da qui in poi subentriamo noi» disse.
I suoi due accompagnatori, Bianco e Sarif, si spostarono ai lati dell’ascensore e lo bloccarono.
«È tutto vostro» rispose Jasper, rispondendo al saluto. Fece segno a uno dei poliziotti della (ex) scorta di bussare.
«Signore? Sono arrivati i ragazzi dei servizi».
La porta si aprì e un Sanchez piuttosto sudato fece segno a Vera di entrare.
«Restate qua» ordinò lei ai suoi uomini. Entrò nella suite. Le luci erano smorzate e di questo fu felice. Se non sai da che parte può arrivare un attacco smorza le luci e allontanati dalle finestre. Lyndon lo sapeva di sicuro, ma una cosa è sapere, un’altra è ricordare al momento giusto.
«Maggiore, oddio, che cosa orribile... per fortuna è arrivata. Dobbiamo andare subito da sua maestà. Ha convocato Sherman quasi un’ora fa. Non so come...»
«Saranno stati quaranta minuti al massimo» lo interruppe Lyndon, con un accenno di sorriso. Al contrario di Sanchez, sembrava padrone di sé. Pallido (ma non lo era sempre?), teso, ma assolutamente tranquillo. Indossava un elegante completo in giacca blu. «Sono sicuro che il re capisce benissimo che ci sono delle procedure di sicurezza da rispettare, Ed» aggiunse. Si rivolse a Vera, gli occhi sottili e verdastri come quelli di un gatto. «Però sarebbe bene che andassimo».
Vera annuì. «Sì, signore. Dovrebbe mettere questo». Aprì la valigetta che conteneva il giubbotto antiproiettile con le piastre rinforzate.
Lyndon lo guardò, lo riconobbe e sospirò. Si slacciò la giacca senza fare obiezioni e lo indossò da solo, allacciandolo con gesti precisi e sicuri. Alla fine fece una piccola smorfia. «Era un bel po’ di tempo» commentò. Vera fece caso alle macchie di sudore sotto alle maniche della camicia, segno che neanche lui era del tutto immune alla strizza.
«Siamo in allerta uno» disse lei, mentre il cancelliere si rimetteva la giacca, «questo significa che virtualmente non la porteremo mai allo scoperto, signore. Le macchine del convoglio ci attendono nel parcheggio sotterraneo e così via. Potrà togliere il giubbotto una volta all’interno del palazzo reale».
Lyndon la fissò in silenzio per qualche secondo. Aveva dei lineamenti particolari, che diventavano gradevoli solo con l’abitudine. Gli occhi sottili, la fronte ampia, gli zigomi e il mento ossuti, taglienti, e la barba di un giorno che rendeva il suo aspetto anche ispido. I capelli chiarissimi erano tirati indietro, ma neppure quelli erano esattamente perfetti, quella sera.
«Dopo aver parlato con il re dovrò andare lì, quindi non credo che riuscirà a tenermi al coperto tutto il tempo, maggiore».
Vera aggrottò la fronte. «Signore...» iniziò, senza nutrire grosse speranze.
«Maggiore Lin» la interruppe Lyndon. «Immagini che su quel treno ci fosse un suo parente, un suo amico... non vorrebbe che il cancelliere andasse lì? Potrebbe tollerare che non lo facesse?».
«No» sospirò lei.
Lyndon le fece segno di precederlo verso l’uscita. «Mi creda... resterò per il minor tempo possibile. Non ho nessun desiderio di vedere quelle povere persone dilaniate».
Vera annuì di nuovo.
Mirian avrebbe fatto lo stesso? si chiese, mentre andavano verso l’ascensore. La risposta, doveva ammetterlo, era sì. Nessun cancelliere si sarebbe sottratto a quel compito, fosse sicuro o meno. Pregò mentalmente di non morire quella notte.
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Il pilota faceva quello che poteva per contenere il rollio dell’elicottero, ma la notte aveva portato un vento teso e omogeneo, che soffiava dalla costa. Lyndon sedeva con le mani in grembo e lo sguardo basso, chiaramente immerso in pensieri sgradevoli. Le cuffie gli coprivano le orecchie, la cintura lo bloccava sul sedile e il giubbotto anti-proiettile dava una forma strana al suo torace.
Quando dietro ai finestrini il buio della notte iniziò a essere interrotto dal grigio del fumo chiese al pilota di comunicare con il maggiore. Fu l’aiuto-pilota a escludere le cuffie del resto dell’equipaggio per lasciare al cancelliere la privacy di cui aveva bisogno.
«Ha mai avuto un attacco di panico, maggiore?». La voce di Lyndon gracchiò nelle cuffie di Vera, parzialmente smangiata dal rumore delle eliche. Non la guardò, ma sollevò lo sguardo sulle nubi attorno all’abitacolo. Solo che non erano nubi.
«No, signore» rispose lei.
«Ma saprebbe come comportarsi se ne vedesse uno?».
Vera si mordicchiò il labbro inferiore. Ovviamente no. «Me lo spieghi» disse.
«In generale? Tante cose rassicuranti. In questo caso? Mi butti a terra come se stessero per spararmi e mi tenga giù».
«Ho capito, signore».
«Poi mi accompagni all’ambulanza o qualcosa del genere. Mi faccia sedare. Questo è tutto».
Vera annuì. «Eseguirò alla lettera, signore. Se ce ne fosse ragione».
Lyndon batté un paio di volte sulla spalla dell’aiuto-pilota per riaprire le frequenze. Poco dopo l’elicottero iniziò l’atterraggio.
Mentre questo avveniva Vera colse dei lampi della scena sotto di loro. Erano in una zona isolata a circa un chilometro dalla costa. Campagna ondulata, in parte coltivata, in parte dedicata al pascolo. Vicino a quel punto non sembravano esserci case. Solo la ferrovia, con i suoi quattro binari che attraversavano in linea retta i campi e una strada un po’ meno dritta che la costeggiava per un tratto, qualche metro al di sotto, prima di curvare dolcemente a destra.
Ma quello che vedevi... quello che ti colpiva come uno schiaffo, era il treno. Il primo vagone rovesciato su un fianco come un cetaceo spiaggiato e poi il corpo disarticolato delle altre carrozze. I riflettori dei vigili del fuoco illuminavano quasi unicamente la testa del treno. La coda era nel buio, così come i suoi sopravvissuti.
La testa era annerita dal fuoco. Fumava, le imbottiture dei sedili e le tende, di materiale sintetico, che ancora bruciavano in alcuni punti. La punta e il fianco destro completamente quarciati dall’esplosione. E i binari, divelti, che sembravano spaghetti molli, grossi e neri, posti sopra al cratere dello scoppio come se cercassero inefficacemente di nasconderlo.
Tutto attorno... un universo fatto di grida e di radio gracchianti, di paramedici dai giubbotti fluorescenti, di vigili del fuoco, poliziotti, agenti di varie agenzie governative... e rottami. Rottami dappertutto come se la campagna fumante fosse una discarica.
In mezzo ai rottami, non immediatamente visibili, i corpi.
L’elicottero atterrò a meno di cinquecento metri dal luogo dell’attentato, nell’eliporto improvvisato dai soccorritori, accanto a una grossa eliambulanza.
L’area era stata bonificata, per quanto possa esserlo una zona piena di detriti, di notte, con decine di corpi ancora a terra.
Vennero accolti dal responsabile sul campo della HSA, dal comandante dei vigili del fuoco e da un graduato della polizia così coperto di fumo che Vera non riuscì a distinguerne la qualifica sull’uniforme.
«Signore, grazie per essere venuto, signore» disse l’uomo dei servizi domestici. «Sono Jeffery Lawson, HSA. Dovremmo spostarci verso... lì, il furgone da cui dirigiamo le operazioni. Deve indossare delle protezioni, signore, e...»
«Datemi un elmetto. Ho già addosso un giubbotto a piastre. Se qualcosa mi esplode abbastanza vicino da ammazzarmi così, mi ammazzerebbe comunque. Mi ricapitoli i fatti».
«È passata poco più di un’ora e mezza. La stampa inizia ad arrivare ora. Li sente gli elicotteri? Non li abbiamo fatti avvicinare... sono tutti confinati oltre quelle transenne, là in fondo, e uno stronzo ha già provato a sgattaiolare fino a uno dei vagoni, scusi per il robeliano».
Lyndon fece un gesto noncurante, ma anche un po’ infastidito. «Lasci perdere i giornalisti. La bomba. È stata una bomba, eh?».
«Sissignore. Bomba al fertilizzante, una cosa artigianale ma efficace. Temo che non potrà evitare di vedere il cratere. Non siamo ancora in grado di sapere se fosse telecomandata, ma è probabile. Non è esplosa davanti al primo vagone, ma più o meno al centro».
«E sul treno c’erano...»
«Il numero complessivo dei passeggeri era quattrocentonove. Nel primo vagone non possono esserci stati sopravvissuti, quindi trentadue vittime in quel vagone. Ci stiamo basando sulle prenotazioni dei posti, perché...»
«Ho capito».
«Almeno venti vittime nel secondo vagone, più di centocinquanta feriti, alcuni in gravi condizioni. Abbiamo finito da poco di portarli via... stanno arrivando dei pullman per i feriti lievi o le persone illese. In quanto ai resti... un team di medici legali sta arrivando da Garamantia con un’unità mobile. Ci è stato chiesto di non toccare nulla».
Lynden annuì.
Vera, dalla sua posizione, gli vedeva la nuca. Era lucida di sudore, nonostante la notte fosse piuttosto fresca.
«Andiamo» lo sentì dire, rivolto al comandante dei vigili del fuoco.
Fecero una tappa al “centro di controllo”, che consisteva in quattro furgoni dalle porte scorrevoli parcheggiati a quadrato. Sia al cancelliere che ai tre uomini della sua scorta vennero consegnati degli elmetti, delle mascherine, dei guanti di lattice e delle sovrascarpe.
Vera ringraziò della mascherina non appena iniziarono ad avvicinarsi al cratere.
«Cancelliere!» sentì gridare, alle loro spalle. La stampa si era accorta di loro.
«Andiamo avanti» disse Lyndon.
Procedettero in fila indiana seguendo il comandante dei vigili del fuoco. Il terreno era dissestato, ma il vero disagio era il fumo acre che ogni tanto spirava nella loro direzione. E poi... un odore più forte, più corporeo. Morte. Corpi sanguinanti e bruciati.
Il primo lo videro poco dopo. Sulla loro sinistra, un giovane in giacca accasciato su un sedile rovesciato. L’esplosione doveva averlo proiettato attraverso lo squarcio, mandandolo a conficcarsi lì. Il giovane aveva la faccia grigia, il collo piegato in una posizione innaturale, la bocca distorta da una smorfia... gli mancava una gamba e parte del bacino.
Vera sentì un conato di vomito, ma si affrettò a ricacciarlo nello stomaco.
Il cancelliere camminava al suo fianco, un po’ goffo nelle protezioni. Vera lo sentì deglutire. Era sudato e pallido. I riflettori gli disegnavano delle ombre danzanti sul viso.
«Non va bene» mormorò lei, guardandosi attorno.
«Ce ne andiamo tra poco. Non mi sparerà nessuno, maggiore».
Vera si costrinse ad annuire, ma il suo istinto le diceva di togliersi di lì, di tornare indietro il prima possibile.
Passarono oltre il tronco di un albero decapitato dall’esplosione. Tra i rami, un altro corpo, o quanto meno una parte di esso. Vera distolse lo sguardo, proseguendo. Fu allora che la vide. All’inizio le sembrò un bambolotto, o uno di quei pupazzi di stracci delle feste di campagna.
«Oh, Dio...» sentì mormorare a Bianco, dietro di lei.
Era una bambina di quattro o cinque anni al massimo. La nuca sfondata ti dava la bizzarra impressione che la parte posteriore della sua testa affondasse nel terreno. Un largo pezzo di lamiera la tagliava praticamente in due e gli occhi... gli occhi erano aperti e sembravano seguirti.
Vera si piegò da un lato, si abbassò la mascherina e vomitò. Il fiotto acido schizzò sul terreno, bruciandole la gola e l’esofago. Si tirò su e iniziò a cercare qualcosa per pulirsi la bocca. Si sfilò i guanti e se li cacciò in tasca, per poi prendere un fazzoletto di carta. «Mi scusi, signore» borbottò.
Non aveva finito di dirlo che anche Lyndon si piegò, strappandosi la mascherina. Vera vide la sua schiena scossa dai conati, mentre rimetteva a più riprese.
«È meglio se torniamo indietro» disse l’uomo della HSA.
Il cancelliere si raddrizzò e scosse la testa. «No» disse. Si sfilò i guanti a sua volta e si pulì la bocca con un fazzoletto, poi avanzò verso il corpicino. Vera gli si incollò alle costole.
«Non mi dica che non è sicuro, maggiore» disse lui, senza voltarsi.
Vera non disse proprio niente. Lo seguì solo finché non fu vicino a quel corpo così piccolo e indifeso, così morto, e lo guardò accucciarsi lì accanto.
«Un fazzoletto, almeno» lo sentì mormorare. «Un fazzoletto pulito».
A Vera servì un secondo per capire. Poi prese un fazzoletto di carta nuovo e glielo passò. Lyndon lo spiegò e lo posò sul viso della bambina. Vera si rese conto con un certo stupore che stava piangendo. Stupore perché... anche lei avrebbe voluto piangere, ma non se l’era permesso. Forse essere uno degli uomini più potenti del mondo significava questo: poter piangere davanti alla propria scorta. Vera gli posò una mano su una spalla e aspettò che passasse.
Dopo qualche secondo Lyndon si rialzò, si passò una mano sulla faccia, risollevò la mascherina e tornò verso il resto del gruppo.
Più avanti c’erano altri morti, ovviamente. I cadaveri non sarebbero stati rimossi finché il sito non fosse stato esaminato dagli esperti forensi e dai patologi. Sarebbero rimasti lì, per ore se non per giorni, per poi finire dentro camere mortuarie portatili, su ruote, come nel caso dei disastri aerei. Alcuni sarebbero stati identificati solo dal DNA.
Più avanti, vicino al cratere dell’esplosione, Vera vide alcuni di quei resti. Corpi contorti e carbonizzati a stento riconoscibili come esseri umani, immersi in un’atmosfera densa e acre, irrespirabile.
Davanti ai binari semi-liquefatti e al gigantesco buco Lyndon le prese una mano. Aveva il palmo freddo e sudato e Vera sperò che non si sentisse male. Anche i suoi palmi, d’altronde, erano freddi e sudati ed era ragionevolmente certa che non avrebbe avuto nessun attacco di panico, quindi, forse, il cancelliere aveva solo bisogno di un po’ di vicinanza umana.