Capitolo 1
Vera Lin si aggiustò nervosamente i polsini dell’uniforme, prese un bel respiro e aprì la porta della sala riunioni 11B del piano terra del Numero Uno. Non bussò, perché non era costume che i membri della sicurezza si annunciassero.
Quando era stata assegnata per la prima volta alla scorta del Cancelliere a Vera avevano dato una miriade di istruzioni e un consiglio: fai finta di essere un maggiordomo con la pistola.
Dieci anni dopo, ormai capo della sicurezza, Vera trovava ancora quel consiglio molto calzante. Anzi, aveva sperimentato sulla sua pelle, nei dieci anni di cancellierato Winchester, quanto fosse vero. Il suo ruolo, per la maggior parte del tempo, era essere invisibile e non disturbare, proprio come un maggiordomo. Le circostanze in cui poteva e doveva prendere in mano la situazione erano pochissime. Ancora meno erano quelle in cui doveva impedire al cancelliere di fare qualcosa di pericoloso. Con Mirian non le era mai successo, mentre una volta aveva dovuto prendere per la collottola suo marito Ray, che proprio non stava pensando a quello che faceva.
Accantonò il pensiero e spostò lo sguardo sugli occupanti della sala riunioni. Il generale Taylor, il suo assistente, il capo dello staff del nuovo cancelliere, Edward Sanchez, e il nuovo cancelliere stesso. Mirian se n’era già andata e sarebbe ricomparsa solo due giorni più tardi per il passaggio di consegne.
Sherman Lyndon fu il primo a interrompere la conversazione per guardare lei. La guardò attentamente, valutandola come anni prima avevano fatto gli istruttori all’accademia.
«Il maggiore Lin? La stavamo aspettando» disse. Aveva una voce bassa e misurata, priva dell’accento da scuola privata che avevano quasi tutti i politici.
«Sono io, signore» rispose lei, rispettosa.
Il generale Taylor le fece segno di avvicinarsi. «Venga, venga, Lin. È solo una formalità, ma, insomma... sei pronto a mettere la tua vita nelle mani di questa signora, Sherman?».
Il nuovo cancelliere sorrise solo con la bocca, come se non trovasse l’idea poi così gradevole. «Mi risulta che Winchester sia ancora tutta d’un pezzo, quindi direi di sì».
Taylor tornò a voltarsi verso di lei, ammiccante. «Oh, con lui sarà anche più facile, Lin. È un ex-soldato, è abituato a proteggersi da solo».
Vera non commentò. Non lo faceva mai, neppure quando l’interlocutore di turno la trattava in modo paternalistico o come se fosse un’idiota, ossia spesso. Come in quel caso. Sherman Lyndon era stato su tutte le prime pagine e in tutti i programmi televisivi per mesi... Lin sapeva già che era un ex-soldato, sapeva già che era stato ferito durante una missione di pace, che in quella circostanza aveva salvato la vita a tre commilitoni e che una volta di nuovo in patria l’esperienza gli aveva fruttato una medaglia al valore e una sindrome post-traumatica da stress. E, specialmente, che era roba di tredici anni prima, quindi dubitava che Lyndon fosse in grado di proteggersi da solo, magari da un attentato terrorista.
«Oh, non è vero» borbottò il diretto interessato. Tese la mano e Lin ricevette una stretta decisa e asciutta. La stretta di un soldato, quello doveva ammetterlo.
«Sono felice di conoscerla, signore. La sua scorta la prenderà in consegna domattina alle sette. Ovviamente discuterò i dettagli con il signor Sanchez».
Lyndon annuì una sola volta e riportò lo sguardo sugli altri occupanti della stanza. Congedata.
Mentre se ne andava Vera pensò che il cancelliere eletto non le aveva fatto nessuna impressione particolare. Da quell’incontro sperava di ricavare qualcosa sul suo carattere. Non aveva seguito con grande attenzione la campagna elettorale, quindi su di lui aveva solo il parere di Mirian. Ossia un parere dannatamente influente, questo era vero, ma senza contraddittorio.
«Politicamente è meno a destra di Turner» le aveva spiegato la sera prima. Lin era fuori servizio e la cancelliera l’aveva invitata a fermarsi per un drink d’addio. «Ti ricordi Turner? O eri troppo giovane?».
Vera aveva sorriso appena. Aveva trentaquattro anni, dieci in meno di Mirian, ma la cancelliera a volte la trattava come una poppante.
«No, me lo ricordo. Si è dimesso per quello scandalo, no? Ed è sposato con Jaqueline Dunn, la direttrice del Garamantia Post».
Mirian le aveva rivolto uno sguardo un po’ sorpreso. «Credevo che non ti interessassi di politica».
«Non ho opinioni politiche, è diverso. Ma non interessarmene sarebbe imprudente, dato il mio lavoro».
La cancelliera aveva annuito. «Hai ragione. E ti sottovaluto sempre, nonostante ti conosca da tanti anni. Sarà perché sei così silenziosa. Anche se ho sempre pensato che i tuoi geni orientali ti dessero un’aria enigmatica».
Vera aveva sorriso appena. «Enigmatica?».
«Oh, lascia perdere» aveva riso Mirian. «Stavamo parlando di Lyndon. È meno a destra di Turner... il che, dal mio punto di vista, lo rende migliore e peggiore insieme. Ma almeno non ce l’ha con i finocchi, mh? Oddio, alla fine potrebbe pure esserlo».
La fronte di Vera si era aggrottata.
«Che c’è? Non dirmi che sei tu ad avercela con i finocchi! Scoprirlo proprio l’ultimo giorno sarebbe...»
«No, no» aveva risposto lei, con una scrollata di spalle. «O meglio, sì, ma solo con quelli dentro al cassetto e che diventeranno cancellieri. Riesci a immaginare che incubo potrebbe diventare proteggere un individuo del genere? Anche se alla fine in qualche modo ce la faremmo lo stesso».
Mirian era sembrata divertita. «Non si può dire che tu non abbia un punto di vista specialistico».
«Già».
«Ma io credo che sia più... doyliano, in un certo senso. Ossia, partito diverso, approccio diverso, ma stesso sangue da alligatore».
Vera si ricordava anche di Norman Doyle. Nelle Svetlands tutti se lo ricordavano. Era stato cancelliere per venticinque anni e c’era chi sussurrava che fosse l’eminenza grigia anche dietro Mirian Winchester. Le poche volte in cui Vera l’aveva visto le era sembrato un signore distinto che portava con grazia la sua età. E sua moglie Hanna era ancora molto bella.
«Pensavo che assomigliasse di più a lei» aveva detto, quindi. «Alla signora Doyle».
Mirian si era mordicchiata il labbro inferiore. «Be’, sono entrambi del nord. Con quei capelli biondo-argentati e quelle ossa sottili. Ma Hanna viene da una famiglia piccolo borghese, Lyndon senior era un minatore. Bada, depone a favore di Sherman: partendo di lì, ne ha fatta di strada. La verità è che i dem ci sarebbero andati a nozze».
«Avete provato a cooptarlo?».
La cancelliera aveva fatto un’espressione vaga. Era una cosa che le riusciva benissimo, quell’aria da “non saprei-non ricordo-è davvero importante?”.
«Perché ammettere di soffrire di PTSD dopo una medaglia al valore e tutto sembra una cosa molto dem, no?» aveva insistito Vera, con un lieve sorriso.
«Già. Ma il ragazzo è un anti-assistenzialista convinto». Mirian si era concessa un lieve sorriso comprensivo. «È curioso, ma spesso chi ha usufruito dell’aiuto dello stato da ragazzo in età adulta ha deciso che lo stato non dovrebbe aiutare nessuno. Forse dovremmo prenderlo come un feedback... come una recensione». Aveva accantonato il discorso con un gesto della mano. «No, il ragazzo è nella zona grigia, più o meno. Al centro. È il posto perfetto per governare, se non ti ritrovi un estremista carismatico come avversario. E comunque l’estremista carismatico si sposta al centro a sua volta, se vuole governare» aveva aggiunto, con notevole onestà intellettuale.
Mirian Winchester era partita come un’incendiaria, per poi trasformarsi in un pompiere lungo il cammino. Come tutti.
E Vera poteva perdonarle di continuare a definire Lyndon “il ragazzo” anche se aveva giusto un paio d’anni meno di lei. I dem non erano usciti dalle ultime elezioni con l’autostima intatta e anche se Mirian non aveva corso, in qualche modo la loro sconfitta era anche la sua sconfitta.
Ma volendo essere obbiettivi, “il ragazzo” era un uomo alto e troppo magro, con le spalle larghe, i capelli chiarissimi e un viso tagliente come il vento del nord.
Quando si sarebbe messo uno smoking (e alla festa d’insediamento se lo sarebbe messo di sicuro) lo sparato gli avrebbe creato sul petto un triangolo bianco che avrebbe fatto la gioia di ogni cecchino, la sua altezza avrebbe reso difficile agli uomini della scorta coprire per intero il suo corpo con il proprio e i suoi capelli quasi bianchi avrebbero fatto risaltare la sua testa nelle notti più buie come un fottuto bersaglio al neon.
Era come un Ray Brennan biondo, ma probabilmente privo dell’innata prudenza del First Gentleman.
Gli uomini addestrati al combattimento tendevano a fare affidamento sulle proprie abilità fisiche. Sentivano di avere il controllo e sottostimavano il pericolo.
Bene, si disse, Sherman Lyndon non era più un soldato da un decennio e la sua carriera militare si era conclusa con un fianco crivellato di schegge di granata. Per riprendersi ci aveva messo dei mesi e Vera sperava che non avesse usato quel tempo solo per leggere e per avere gli incubi, ma anche per sviluppare un sano sentimento della propria mortalità.
Il lavoro di Vera era tenere in vita il cancelliere delle Svetlands, costasse quel che costasse. Con Mirian Winchester non era stato difficile. Sperava che Sherman Lyndon non intendesse complicarle troppo la vita.
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Entrò nella sala di controllo al piano terra subito dopo aver lasciato il cancelliere eletto. Veniva definita “sala di controllo”, ma in realtà era composta da un certo numero di ambienti. Il più grande era quello con i monitor. L’intero Numero Uno era pieno di telecamere di sorveglianza, alcune visibili e molte altre dissimulate. I monitor mostravano solo alcune di esse, finché non venivano segnalati dei problemi al sistema.
Il sistema era un mostruoso insieme di programmi che controllavano tutto quello che succedeva dentro e lungo il perimetro del Numero Uno. Era stato Doyle a volerlo, quando la sua vita era stata messa in pericolo da diversi attentati. Da allora il sistema si era sviluppato fino a diventare un organismo ipertrofico che controllava ogni aspetto della residenza del cancelliere e sede del Governo.
La temperatura dell’aria, l’umidità, il livello di ossigeno e di anidride carbonica, le condizioni di luce... il sistema controllava costantemene ognuno di questi parametri, come se all’interno dell’edificio ci fossero delle antichissime opere d’arte, non centinaia di portaborse, funzionari, inservienti, camerieri, cuochi, personale di servizio vario, decine di politici in transito ogni giorno con i loro segretari, gli uomini della sicurezza e dei Servizi Segreti, gli addetti alle pulizie e, infine, il cancelliere stesso e la sua famiglia. Tutte persone che non erano né fragili, né preziose, né belle come delle antichissime opere d’arte, ma che non di meno andavano protette costantemente.
Entrando nella sala dei monitor Vera salutò con un cenno del capo Lionel Bron, il suo capo-analista. Lionel stava ri-tarando e ri-controllando tutte le subroutine del sistema, imprecando contro i suoi tecnici in un mantra continuo di invettive e oscenità.
Vera aveva bisogno di tutto meno che del suo carattere sanguigno, in quel momento.
Ricontrollò i rapporti che aveva ricevuto dall’antiterrorismo, il tragitto del convoglio e anche il meteo per il giorno seguente. Poi chiamò il suo vice, Bernie Beckett.
Bernie aveva uno stato di servizio più lungo di quello di Vera, ma qualcosa, cinque anni prima, gli aveva impedito di succedere al predecessore di lei come capo della sicurezza. Vera sospettava che il fatto di essere un uomo bianco e non più giovanissimo non l’avesse aiutato. Una donna per un quarto orientale e ancora giovane sembrava molto più in linea con il governo Winchester, e infatti il posto era andato a Vera. Bernie non se l’era presa, o così sembrava.
«Quindi? Hai conosciuto il Sasso?».
“Sasso” era il nome in codice che usavano per tutti i cancellieri. Vera annuì.
«Ed è...»
Lei si strinse nelle spalle. «Alto. Gli ho parlato per tre minuti, forse di meno. Come previsto lo andremo a prendere domattina alle sette all’hotel Excelsior».
«Sarà tutto transennato. Ho già preso accordi con la GCPD. Anche se spero che a quell’ora ci sia solo la stampa e qualche supporter irriducibile».
Vera si strinse nelle spalle. Gli spostamenti del cancelliere eletto non erano stati comunicati ai media, ma non ci voleva chissà quale acume per capire che la scorta dei servizi segreti l’avrebbe prelevato in mattinata per portarlo dal re, visto che l’incarico di formare il Governo gli sarebbe stato conferito il giorno seguente.
«Tre auto blindate. Tutto come al solito. Gli equipaggi rispecchiano i turni, tutto qua. Quindi Ben e Kaskov sulla uno, tu e Maverick sulla due, con il Sasso e Sanchez, Hortega e Stiller sulla tre».
Vera annuì.
«Saremo a palazzo per le otto. L’appartamento è...»
«Vuoto e controllato» confermò Bernie. «Ma è ancora pieno di scatole e non credo che tutti i mobili siano già stati montati. In ogni caso, parlerò con il maggiordomo. Fargli trovare almeno un paio di stanze pronte, nel caso volesse passare di qua in mattinata. Pensi che voglia?».
«Non ne ho idea» sospirò lei. «Ma nel pomeriggio probabilmente avrà una prima riunione con il direttivo del partito, probabilmente qua al Numero Uno... e la sera c’è la festa di insediamento. Cerca di mettere un po’ di fretta al personale di servizio, se non l’ha già fatto Sanchez, perché non vogliamo che domani sera torni a dormire in albergo. Non devo essere io a dirti che garantire la sicurezza qua è molto più semplice».
«Sissignora» sorrise Bernie e Vera gli sorrise di rimando. «Dio, sono già stanca» borbottò. «Com’è stato il passaggio da Turner a Winchester?».
Il suo vice ridacchiò. «Un incubo. Non per Turner... quello se n’è andato e chi l’ha più visto... no, tutto il casino con Williams. Cecile Williams, te la ricordi?».
«Oh, già. La facente-funzioni. Viveva qua?».
«No. Come dicevo... un incubo. Ma naturalmente quando è arrivata Winchester tutto era pronto e come lo voleva lei, almeno quello. Be’, dobbiamo decidere qualcos’altro?».
Vera scosse la testa. «No, vai pure a casa. Lo faccio anch’io».
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In realtà Vera, di case, ne aveva due. Una era una villetta in periferia che teoricamente condivideva con la sorella, l’altra era la stanza al secondo piano del Numero Uno. Era lì che dormiva quasi sempre ed era come vivere in un hotel di lusso. Qualcuno le rifaceva il letto e puliva, poteva fare colazione al buffet del personale al primo piano e mangiare al punto ristoro interno. Faceva parte dei benefici della sua posizione, che d’altronde era anche piena di svantaggi.
Il principale: essere sempre reperibile, tranne che per delle brevissime vacanze durante l’autunno.
Quella sera tornò nella sua stanza, si scalzò le scarpe piatte usando la punta del piede opposto, accese la TV e si sedette sul letto con in mano il tramezzino che intendeva mangiare per cena.
Poi, però, le venne in mente che avrebbe potuto caderle della maionese sull’uniforme e decise di cambiarsi.
Nel suo mestiere l’uniforme non si usava quasi mai, ma la presentazione ufficiale al nuovo cancelliere era un’occasione sufficientemente importante da aver convinto Vera a indossarla. Ora se la sfilò e la riappese nell’armadio, buttò la camicia bianca a lavare e si infilò una maglietta e i pantaloni del pigiama. A quel punto tornò davanti alla TV e aprì la confezione del suo tramezzino.
Sul canale delle notizie trasmettevano l’ennesimo servizio biografico su Lynden. Vera non ce la faceva più, anche perché continuavano a ripetere le stesse cose, senza mai aggiungere niente di nuovo.
Fece distrattamente zapping fino a trovare un film di qualche anno prima, una commedia romantica record di incassi. Anche se non l’avrebbe mai ammesso in pubblico, a Vera piacevano le pellicole sentimentali, forse perché la sua vita era così povera di sentimenti.
Si lavò i denti durante una pausa pubblicitaria, per poi infilarsi direttamente sotto le coperte per guardare l’ultima parte.
Ma non riuscì mai a farlo.
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Quando il suo telefono suonò Vera si era quasi addormentata. Niente di male, dato che il giorno dopo doveva svegliarsi presto. Lo squillo del telefono spazzò via quella possibilità. Non chiami il capo della scorta del cancelliere alle undici di sera per sapere come va la vita.
Vera spense la TV e rispose alla chiamata, che proveniva da Sanchez.
«Lin» disse, cercando di tenere la voce calma. In fondo il capo dello staff era appena arrivato, avrebbe potuto chiamarla anche per errore, al posto di qualcun altro.
«Non so come altro dirlo: c’è appena stato un attentato sulla linea Thurdro-Garamantia e il re ha deciso di anticipare l’investitura ufficiale del cancelliere...» Prese fiato come se stesse per immergersi. «Ci ha chiamato il generale Forster, della HSA. La aggiornerò di persona, se lo ritiene necessario, ma...»
Mentre Sanchez parlava nell’orecchio di Lin esplodevano i “bip” di altrettante chiamate perse.
«Siete in hotel?» tagliò corto.
«Sì, ma, appunto...»
«Deve liberare questa linea, signor Sanchez. La faccio ricontattare immediatamente. Nel frattempo preparatevi. Restate in camera. La scorta arriverà tra una ventina di minuti».
Gli chiuse il telefono in faccia, uno sgarbo di cui forse in futuro si sarebbe pentita, e controllò velocemente le chiamate. Rispose a quella del generale Forster. Doveva aver informato prima il cancelliere, com’era giusto, ma nel momento in cui aveva provato a chiamare lei aveva trovato la linea occupata.
«Forster» rispose, dopo pochi secondi di attesa.
«Ho saputo» disse lei. «Mi aggiorni».
«Un attentato sulla linea dell’alta velocità tra Thurdro e la capitale. Carica esplosiva di natura ancora sconosciuta piazzata sui binari. Un convoglio deragliato e parzialmente distrutto. Come capisce, sul numero dei morti...»
Vera chiuse gli occhi, respirando piano. «Una stima?».
«Tra i trenta e i cento».
«Capisco. Siamo in allerta uno?».
«Sì, maggiore. Non sappiamo se sia finita qua. Il Sasso dev’essere spostato dalla sua attuale posizione».
«Il Sasso deve rotolare fino alla Casa, signore».
Forster sbuffò. «Va be’. Subito dopo lo porti alla Prima Base e lo tenga lì».
«Sì, signore» confermò Vera.
Chiuse la chiamata e telefonò all’ufficiale di servizio nella sala operativa. Mentre lo faceva iniziò a togliere dalla gruccia uno dei tailleur-pantalone blu navy che portava normalmente al lavoro e una camicia bianca.
«Bianco? Siamo in allerta uno. Stiamo per prelevare il Sasso dall’hotel. Tre più tre auto. Massima discrezione. Sto arrivando».
Si guardò nello specchio. Gli occhi grigio scuro leggermente allungati. Sperò che i suoi geni orientali le conferissero davvero un’aria enigmatica, o almeno tranquilla.
In realtà era terrorizzata.