CAPITOLO VI

3418 Words
CAPITOLO VI Isabel Archer era una ragazza dalle molte teorie e dall’immaginazione abbastanza fervida. Il possedere un’intelligenza più viva di quella della gente in mezzo alla quale era stata allevata, l’avere una più larga percezione dei fatti e l’essere desiderosa di acquistarsi una conoscenza non comune, era stato un suo privilegio. Nella cerchia delle sue conoscenze passava per una ragazza di straordinaria profondità, poiché quella brava gente non sapeva trattenersi dall’ammirare uno spirito del quale non arrivava a misurare l’ampiezza, e parlava di Isabel come di un prodigio di sapere, di una creatura che aveva letto i classici, in buone traduzioni. La sua zia paterna, la signora Varian, aveva perfino messo in giro la voce che Isabel stava scrivendo un libro, e poiché essa aveva una vera e propria reverenza per la carta stampata, le sembrava naturale che Isabel dovesse, un giorno o l’altro, farsi un nome in letteratura. La buona signora, nutriva verso la letteratura quella stima che ne ha di solito la gente che non è letterata. La sua grande casa, celebre per un notevole assortimento di tavole a mosaico e di soffitti decorati, non aveva una biblioteca, e al posto dei volumi non conteneva che una mezza dozzina di romanzi a dispense, raccolti negli scaffali della camera di una delle ragazze. Di propriamente letterario la signora Varian non conosceva che il New York Interviewer , ma come essa molto giustamente osservava: ″letto l’ Interviewer , voi perdete ogni fede nella cultura.″ Il suo gran daffare era perciò di mantenere l’ Interviewer al di fuori della portata delle figliole, ed essendosi prefissa di allevarle con virtù, faceva sì che esse non leggessero nulla. Però le sue idee circa le occupazioni di Isabel erano del tutto immaginarie: la ragazza non si era mai sognata di scrivere un libro e non aspirava minimamente ad allori letterari. Non aveva alcun talento per l’espressione e non si sentiva affatto un genio; confidava però, vagamente, che la gente fosse nel giusto quando la trattava come un essere superiore. Lo fosse o no, la gente in ogni modo non sbagliava ammirandola, poiché la sua mente, correndo più rapida delle altre, generava in lei un’irrequietudine che poteva benissimo essere confusa con una superiorità. Si poteva forse incolparla di troppa stima verso se stessa, si osservava spesso con compiacenza, e nei casi dubbi lei riteneva sempre di essere dalla parte della ragione; trattava se stessa come un oggetto degno d’omaggio. Perciò i suoi errori e le sue illusioni, di frequente erano tali, quali un biografo che volesse salvaguardare la dignità del suo personaggio dovrebbe rifuggire dallo specificare. I suoi pensieri erano una mescolanza di contorni vaghi che non erano mai stati fissati dal giudizio di qualcuno che sapesse esaminarli con cognizione di causa. In fatto di opinioni si era sempre fatta da sé la sua strada, che poi l’aveva portata a una serie di ridicoli zig-zag. A volte s’accorgeva di essersi sbagliata di grosso e allora si condannava a settimane di umiltà. Dopodiché rialzava la testa più alta di prima, poiché era inutile, aveva un irresistibile bisogno di stimarsi. La sua teoria era, che sotto questo aspetto, la vita valesse la pena di essere vissuta: che ciascuno deve essere tra i migliori, possedere una magnifica organizzazione vitale - e la sua era certamente bellissima - e muoversi in un regno di luce, di saggezza naturale, di impulsi felici, di ispirazioni deliziosamente abitudinarie. È sciocco dubitare di se stessi, come lo sarebbe dubitare del proprio migliore amico: anzi, si deve cercare di essere il proprio migliore amico e di vivere così in eletta compagnia. Aveva anche una certa nobiltà d’immaginazione che le rendeva dei buoni servigi, ma che le giocava anche dei brutti tiri. Trascorreva la metà del suo tempo pensando alla bellezza, al coraggio, alla magnanimità; era fermamente determinata a considerare il mondo come un luogo di splendore, di libera espansione, di azione irresistibile; era convinta che fosse cosa detestabile passare per timidi o vergognosi. Nutriva anche un’irresistibile speranza che non avrebbe mai fatto nulla di male. Si era così fortemente indignata, dopo averli scoperti, per certi suoi semplici errori di pensiero - e il riconoscerli l’aveva sempre fatta tremare come quando ci pare d’esser sfuggiti a una trappola che avrebbe potuto afferrarci e soffocarci - che soltanto l’idea d’infliggere un’offesa a un’altra persona, la obbligava a trattenere il fiato: le pareva la peggior cosa che le potesse capitare. In complesso, idealmente parlando, non aveva incertezze intorno alle cose che erano male. Non amava il loro aspetto e se le fissava a viso aperto, le riconosceva subito. Era male essere meschini, essere gelosi, essere falsi, essere crudeli. Poco sapeva del male del mondo, ma aveva visto donne che mentivano e che cercavano di tradirsi a vicenda, e questo aveva rinvigorito in lei il sentimento della nobiltà umana: le pareva vergognoso il non disprezzarle. Certo che anche la troppa dignità aveva il suo lato pericoloso: la frivolezza, la testardaggine, contegno tanto disonesto che disonora la stessa causa. Ma Isabel, che conosceva assai poco a che specie di artiglierie le giovani donne siano esposte, si lusingava che simili contraddizioni non sarebbero mai state avvertite nella sua condotta. La sua vita sarebbe stata in armonia con la più piacevole impressione che essa poteva suscitare: voleva essere quella che sembrava e sembrare quella che era. A volte andava tanto oltre, su questo punto, da augurarsi di potersi trovare un giorno in una situazione difficile, così per avere il piacere di superarla eroicamente. Tutto sommato, con la sua poca esperienza, i suoi ideali esagerati, la sua innocenza, fiduciosa e assoluta, il suo temperamento esigente e impulsivo allo stesso tempo, la combinazione di curiosità e d’insoddisfazione, di vivacità e d’indifferenza; col suo desiderio di figurare bene e di essere possibilmente ancora migliore; col suo fermo proposito di vedere, di provare, di sapere; con quel suo misto di spirito sensibile, incostante, vivacissimo e di ansiosa e personale natura, sarebbe il facile soggetto di un’analisi scientifica, se non fosse destinata a suscitare nel lettore un impulso di più tenera e pura simpatia umana. Si diceva anche di essere assai fortunata per la sua indipendenza, e pertanto doveva godere nobilmente della sua condizione. Non stato di solitudine, né tanto meno di segregazione, - queste parole le sapevano di bassezza - e d’altra parte, sua sorella Lily le offriva a suo piacere un rifugio presso di sé. Aveva poi un’amica, conosciuta dopo la morte del padre, che le forniva un alto esempio di utile attività, e alla quale veramente Isabel pensava come a un modello di donna. Henrietta Stackpole, con ammirevole sicurezza, si era lanciata nel giornalismo e le sue corrispondenze all’ Interviewer da Washington, Newport, dalle Bianche Montagne e da altri luoghi, erano universalmente apprezzate. Erano cose effimere, ma Isabel stimava assai il coraggio, l’energia, il buon umore della scrittrice che, senza genitori e senza mezzi, aveva adottato tre bambini di una sorella inferma e vedova, e pagava i loro conti di scuola col ricavato delle sue fatiche letterarie. Henrietta era alla testa del progresso, aveva idee ben definite su molte cose e il suo desiderio più vivo era quello di venire in Europa e di mandare corrispondenze all’ Interviewer , dal punto di vista radicale: impresa tanto meno difficile, poiché lei sapeva già in precedenza quali fossero le sue idee in proposito e a quante e diverse obiezioni poteva prestare il fianco la maggior parte delle istituzioni europee. Quando Henrietta sentì che Isabel stava per partire, si augurò di poterla accompagnare, pensando naturalmente, che sarebbe stato bello compiere insieme un viaggio di quel genere; invece era stata costretta a rimandare il progetto. Considerava Isabel una creatura d’eccezione e aveva anche accennato a lei, in qualcuna delle sue corrispondenze; cosa che non aveva mai fatto sapere all’interessata, la quale certo non se ne sarebbe compiaciuta, e che non era d’altronde assidua lettrice dell’ Interviewer. Per Isabel, Henrietta era, anzitutto, l’esempio di una donna che può bastare a se stessa per essere felice. Le sue risorse erano indiscutibili. Anche se una donna non possiede il talento giornalistico e una singolare facoltà d’intuito nel prevedere ciò che può piacere al pubblico, non deve per questo presumere di non aver vocazioni di sorta e rassegnarsi a essere frivola e vana. Isabel era risoluta a non essere vana. Se si cerca e si aspetta con pazienza, alla fine si può trovare qualche buon lavoro adatto alla propria natura. Aveva poi parecchi punti di vista sul soggetto matrimoniale. Il primo, la volgarità di pensarci su troppo. Si augurava ardentemente di non essere mai trascinata dal desiderio di sposarsi. Sosteneva che una donna, che non sia di una fragilità eccezionale, deve essere capace di vivere da sé e per sé, e che era possibile, in modo assoluto, essere felice, anche se priva della compagnia di una persona dell’altro sesso, dall’anima più o meno volgare. Il suo augurio era stato esaudito, poiché qualcosa di puro e di superbo che era in lei - qualcosa di freddo e di arido, come l’avrebbe chiamato un adoratore respinto - l’aveva fino allora tenuta lontana dalla vanità di pensare a un futuro marito. Tra gli uomini che conosceva, ben pochi le sembravano degni di una scelta precipitosa e la faceva semplicemente sorridere l’idea che uno di essi avrebbe potuto presentarsi a lei come incentivo alle sue speranze o ricompensa della lunga attesa. In fondo all’anima però, ma molto in fondo, le ondeggiava una vaga idea che, se una certa luce fosse spuntata, lei avrebbe potuto anche abbandonarsi completamente, ma questa idea era troppo tremenda per risultare attraente. Anche le idee di Isabel si aggiravano intorno a questo problema, ma raramente vi si fermavano; poco dopo finivano con lo spaventarla. Spesso, sembrava pensasse troppo a sé. Chiunque, in qualunque momento, avrebbe potuto farla arrossire, accusandola di essere un’irriducibile egoista. Progettava il suo sviluppo morale, desiderava la sua perfezione, osservava i suoi progressi. Giudicava la sua natura come una specie di giardino, con profumi e cespugli fruscianti, boschetti ombrosi e bei panorami; e questo le faceva sembrare ogni studio introspettivo un sano esercizio all’aria aperta e piacevolissima ogni visita che essa faceva ai recessi del proprio spirito, giacché ne ritornava sempre con una bracciata di rose. Spesso però si doveva ricordare che c’erano altri giardini al mondo oltre al suo, e che esisteva pure un’infinità di luoghi dove di giardini non ce n’erano affatto, ma solo incolte e fetide lande oscure, popolate soltanto da una spessa vegetazione di bruttezze e di miseria. Nella corrente di curiosità soddisfatta, alla quale si era ultimamente abbandonata, che la stava avviando verso la bella Inghilterra, e che certamente l’avrebbe portata ancora più lontano, Isabel si arrestava col pensiero alle migliaia di persone meno felici di lei; un pensiero che rendeva la raffinata e intensa coscienza di sé, una specie d’immodesta presunzione. Che deve fare uno di tutta la miseria del mondo in un progetto di felicità? Bisogna dire però, che questo pensiero non la importunava troppo: era troppo giovane, troppo ansiosa di vivere e troppo poco conosceva la sofferenza. E sempre, tornava alla teoria che una donna ritenuta intelligente, dopotutto deve cominciare col farsi un’idea generale della vita. Questa idea era necessaria per prevenire gli errori, e quando la si padroneggia, essa può rendere la misera condizione degli altri, oggetto della nostra speciale attenzione. L’Inghilterra fu per lei una rivelazione, che la divertì e la interessò come una pantomima attrae e diverte i ragazzi. Da bambina, nelle sue escursioni in Europa, aveva visitato soltanto il continente e l’aveva visto dalle finestre con una governante. Parigi, non Londra, era stata la Mecca di suo padre e in troppi dei suoi interessi laggiù, le figlie non erano entrate per nulla. a ogni modo, le immagini di quel tempo si erano fatte così pallide e remote, che tutte le caratteristiche del Vecchio Mondo, ora avevano per lei il fresco incanto della novità. La casa di suo zio sembrava un dipinto realizzato; nessuna raffinatezza del bello andava perduta per Isabel; la ricca perfezione di Gardencourt le rivelava tutto un mondo e al tempo stesso le appagava una necessità. Le vaste camere un po’ basse, dai soffitti scuri e dagli angoli semibui, i profondi vani e le strane finestre, il posarsi calmo della luce sui pannelli anneriti, l’intensità del verde, che dal di fuori sembrava volersi affacciare all’interno e spiare da ogni apertura, il senso di ben ordinata segretezza nel mezzo di una grande proprietà - un posto dove i rumori erano squisitamente accidentali, dove il passo corretto, smorzato dalla giovane ostessa di terra e la calma mite dell’aria, pareva smussare ogni asprezza nei contatti e ogni stonatura nelle voci - tutto ciò era veramente gustoso per la nostra eroina, nelle cui emozioni il gusto aveva molta parte. Fece subito amicizia con lo zio e spesso sedeva presso di lui sul prato, dove egli amava farsi portare e dove restava ore e ore con le mani in mano, come un placido e casalingo nume domestico che ha compiuto il suo lavoro e che, ricevuta la sua ricompensa, cerca ora di abituarsi a settimane e a mesi in soprappiù. Isabel lo rallegrava più di quanto lei stessa si immaginasse - la sua impressione sul prossimo differiva spesso da quanto lei credeva - e spesso per lui era un piacere farla cianciare . Era così che egli chiamava la sua conversazione, che aveva molto del mordente tipico delle ragazze del suo paese, alle quali il mondo porge più facilmente orecchio che non alle altre sorelle di altre terre. Come la maggior parte delle ragazze americane, Isabel era stata incoraggiata a esprimersi, a dire sempre il suo parere; le sue osservazioni erano state ascoltate e la si credeva capace di avere emozioni e opinioni sue proprie. Molte delle sue opinioni, senza dubbio, erano di scarso valore; molte delle sue emozioni si disperdevano parlandone, ma esse avevano lasciato una traccia in lei, nel senso che le avevano dato l’abitudine di sembrare perlomeno che sentisse e che pensasse alle sue stesse parole, quando era veramente commossa, con quell’inattesa nitidezza che tanta gente giudicava come un segno di superiorità. Al signor Touchett essa ricordava sua moglie quando era giovane, e proprio perché era fresca e naturale, pronta a capire e a parlare - caratteristiche tutte della nipote – che egli un giorno si era innamorato della zia. Egli però si guardò bene dal far capire alla ragazza la somiglianza, perché se la signora Touchett aveva somigliato un tempo a Isabel, questa non somigliava affatto alla signora Touchett. Il vecchio era pieno di premure per Isabel. Da un pezzo diceva che non c’era più gioventù nella sua casa, e la nostra vivace protagonista dagli abiti fruscianti e dalla voce chiara, era piacevole alle sue orecchie come il suono dell’acqua che scorre. Voleva fare qualcosa per lei e avrebbe desiderato che essa glielo chiedesse; ma lei non chiedeva che risposte e chiarimenti, con un’avidità che non aveva pausa. E benché lo zio avesse un fondo inesauribile di queste risposte, a volte restava attonito davanti alla curiosità della nipote. Lo interrogava sull’Inghilterra, sulla costituzione inglese, sul carattere inglese, sulla politica, sugli usi e costumi della famiglia reale, sulle singolarità dell’aristocrazia, e del modo di vivere dei vicini. E mentre chiedeva di essere illuminata, voleva anche sapere se la realtà corrispondesse alle descrizioni dei libri. Il vecchio allora la fissava per un momento, col suo sorriso staccato, e si metteva ad accarezzare lo scialle che gli ricopriva le gambe. «I libri? - disse una volta - Ebbene, non posso dire di sapere molto in fatto di libri. Dovete domandarne a Ralph. Io le mie idee ho sempre voluto farmele da me e cercarmi da solo le notizie che mi occorrevano. E non ho neppure fatto mai molte domande: me ne sono sempre stato quieto a osservare gli altri. Naturalmente mi sono capitate tante buone occasioni in proposito, più di quelle che possano capitare a una giovane donna. Ho una forte tendenza a esaminare, benché voi non lo notiate osservandomi. Ma per quanto voi mi osserviate, io osserverò sempre di più voi. Questa gente l’ho osservata per più di trentacinque anni e non esito ad affermare che in proposito mi sono acquistato una buona dose di esperienza. L’Inghilterra è un bellissimo paese nel suo complesso, più bello di quanto si creda da noi. Veramente ci sarebbero varie riforme che mi piacerebbe fossero introdotte, ma qui pare che non ne avvertano la necessità. Quando la sentono, di solito, fanno di tutto per soddisfarla, ma per questo non sembrano meno a loro agio intanto che l’aspettano. Certamente mi trovo assai meglio in mezzo a loro, ora, di quanto mi aspettassi quando venni qui per la prima volta, e credo che ciò dipenda dal fatto che qui ho avuto dei buoni successi. Quando siete fortunati, naturalmente vi trovate meglio nel luogo in cui vi trovate.» «Allora pensate che dovrò trovarmi bene se sarò fortunata?» chiese Isabel. «Sì, lo credo facile. Voi non potrete non avere successo. Qui le giovani americane piacciono molto e sono trattate con molta cortesia. Con tutto questo però, non bisogna che vi troviate troppo a vostro agio.» «Oh, non sono affatto sicura che questo soggiorno mi soddisferà. - rispose Isabel con enfasi - Il paese mi piacerà, ma non sono certa che mi piacerà la gente.» «La gente è brava, in genere, specialmente se mostrate di volerle bene.» «Di questo non dubito; ma è simpatica in società? Non mi deruberanno e certamente non mi picchieranno, ma saranno gentili con me? È questo che mi piace soprattutto nella gente. Non esito a dirlo perché apprezzo assai questa qualità. Non credo, per esempio, che essi siano molto cortesi con le ragazze: in genere nei romanzi non lo sono.» «Non m’intendo di romanzi. - disse il signor Touchett - Saranno fatti con abilità, ma li credo poco fedeli. Una volta ebbi ospite una signorina che scriveva romanzi: era amica di Ralph ed egli l’aveva invitata qui. Era molto positiva e al corrente di tutto, quella ragazza, ma non era il tipo di persona della quale ci si può fidare in fatto di verità. Aveva troppa fantasia; credo dipendesse da quello. In seguito pubblicò appunto, un lavoro di fantasia, nel quale pare che avesse voluto mettere in scena, anzi in caricatura, il mio umilissimo io. Non l’ho letto, ma Ralph mi diede il libro con i passi principali segnati, dove pare che ci fosse una specie di riproduzione del mio modo di conversare: pronuncia americana, voce nasale, espressioni yankee e la bandiera stellata. Bene, tutto questo non era per nulla fedele alla realtà. Quella ragazza non può avermi ascoltato attentamente. Che lei avesse voluto offrire un saggio della mia conversazione, non avevo niente da ridire, ma l’idea che non si fosse data la pena di ascoltarla, non mi andava giù. Certo, io parlo come un americano, non posso mica parlare come un ottentotto. Però, in qualsiasi modo io parli, qui mi sono sempre fatto intendere molto bene. Io non parlo affatto come il vecchio signore nel romanzo dell’amica di Ralph; quello non era per niente un americano e non vorrei avere qui con me, a nessun prezzo, un tipo simile. Ho accennato a questo fatto, solo per dirvi che nei libri c’è poca verità. Io non ho avuto molte occasioni di osservare le giovani donne, poiché non ho figlie e la mia signora risiede a Firenze. Si dice che le giovani delle classi inferiori non stiano troppo bene, ma suppongo che stiano meglio nelle classi medie e nelle superiori.» «Mio Dio! - esclamò Isabel - Quante classi hanno qui? Una cinquantina, suppongo.» «Chissà? Non credo di averle mai contate. Non mi sono mai interessato molto alle classi. Ed è questo il vantaggio per un americano che si trova qui: di non appartenere ad alcuna classe.» «Lo spero bene. - esclamò Isabel - Non so immaginarmene uno che appartenga a una classe inglese.» «Dopotutto penso, che in alcune di esse ci si deve trovare bene, specialmente verso la cima. Ma per me ci sono soltanto due classi: la gente di cui mi fido e quella di cui non mi fido. E voi, mia cara Isabel, appartenete alla prima.» «Obbligatissima.» rispose prontamente la ragazza. Il suo modo di accettare i complimenti, a volte poteva sembrare brusco, e se ne sbarazzava più in fretta che poteva. Sotto questo aspetto era mal giudicata; la si credeva insensibile, mentre, a dire il vero, era semplicemente desiderosa di celare quanto le facessero piacere. «Sono certa che gli inglesi sono gente molto convenzionale.» aggiunse. «Hanno sempre ben fissato e ben disposto ogni cosa. - ammise il signor Touchett - Non lasciano mai nulla all’ultimo momento.» «Non mi piace disporre bene le cose prima. - disse la ragazza - Preferisco l’imprevisto, l’inaspettato.» Lo zio parve divertito dalla risolutezza della sua opinione. «Bene, è prevedibile che qui avrete un gran successo, e spero che questo non vi dispiacerà.» «Non avrò alcun successo se qui saranno troppo stupidamente convenzionali. Io sono completamente al loro opposto, e questo a loro non piacerà.» «Qui siete in errore. Uno non può dire a priori quello che piacerà o non piacerà loro. - disse il vecchio - Sono molto contraddittori, ed è perciò che sono interessanti.» «Bene.» disse Isabel. Era in piedi davanti allo zio con le mani congiunte intorno alla cintura del suo abito nero e guardava su e giù per la distesa della prateria. «Questo mi va proprio a genio!»
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