4.
Sbattei le palpebre, confusa. Qualcuno mi stava sfilando un ago dal braccio. Una lingua che mi leccava in quel punto. Emisi un grugnito di fastidio.
Adrian, completamente vestito, si sedette sul bordo del suo letto tondo.
«Che cavolo è successo?» chiesi.
«Ti ho bevuta quasi tutta» disse lui, più divertito che pentito.
Socchiusi gli occhi. Quella stanza era troppo luminosa. Mi alzai sui gomiti. Stavo bene. Stavo più che bene. Stavo davvero magnificamente. Mi sentivo forte e piena di energia.
«Mi hai fatto una trasfusione?» chiesi, allucinata.
«Già».
Mi misi a sedere e mi grattai la nuca, ancora mezza addormentata. «Giusto, perché non bevi il sangue delle banche del sangue?». Sbadigliai. «No, lo so. Quelle sostanze di cui parlavi. Non si possono smorzare le luci?».
Adrian spense l’abat-jour accanto al letto. «Tra qualche ora ti passerà. Ti ho dato anche qualche goccia del mio sangue, per sicurezza».
Inarcai le sopracciglia. «E adesso? Divento un vampiro?».
Lui rise e scosse la testa. «No, no. Adesso resti sballata per qualche ora, tutto qua».
Scostai le lenzuola e saltai giù dal letto, poi mi bloccai. Per farlo mi ero appoggiata sulla mano destra, quella che aveva il polso spezzato. Lo ruotai. Stava benissimo. «Be’?» feci, iniziando a togliermi la fasciatura. «Questo è molto positivo».
Adrian si limitò a guardarmi, ancora seduto sul bordo del letto.
Tornai verso di lui e mi fermai in piedi tra le sue gambe. Mi posò le mani sulle natiche.
Gli sorrisi. «Vuoi ricominciare? Mi sento incredibilmente in forma. Puoi usare la frusta o quello che vuoi, te l’ho promesso».
Mi leccò sull’ombelico, procurandomi un intenso brivido di piacere. «Idea stuzzicante, ma prima dobbiamo risolvere un paio di cosette».
Sbattei le palpebre, perplessa. Lui mi tirò verso il basso e mi sedetti a cavalcioni sulle sue cosce. Naturalmente lui mi fece scorrere le dita tra le grandi labbra. Credo che per chiunque sia gratificante avere una ragazza seduta sopra a gambe larghe e decisamente bagnata.
«È gratificante» confermò lui, iniziando ad accarezzarmi delicatamente sul clitoride. «È anche appetitoso. Quando godi diventi assolutamente deliziosa. Ognuno ha il suo sapore, capisci. Il tuo è ottimo, quando sei eccitata».
Gli presi l’altra mano e me la posai su un seno. Lui lo strinse. «Che cosa dobbiamo risolvere?».
Si piegò per leccarmi il capezzolo. «A volte dimentico quanto siano fragili gli esseri umani di questo secolo. Quelli della mia razza sono cresciuti quasi tutti in epoche meno gentili, ma voi...».
Mi strusciai contro il cavallo dei suoi pantaloni. Era pronto ed eretto e mi venne voglia di se dermici sopra.
«...Siete curiosi e aperti, ma vi fate male facilmente, perché non vi aspettate di venire attaccati. Che cosa è successo, con quell’uomo? Dove è successo? A Inverness?».
Mi fermai. Annuii. «È passato più di un anno» dissi. «Sto bene».
Mi succhiò il capezzolo e lo mordicchiò. «No, non direi. Vuoi giocare morbido, ti incazzi se ti sembra di venir presa contro la tua volontà. In generale, lo posso capire. In questa casa, con me, non mi sta bene. Quando ti sembra di venir presa contro la tua volontà dovresti eccitarti, non incazzarti. La rabbia sa di calzino ammuffito».
Risi, infilandogli le dita nei capelli. «Le tue metafore emo-gastronomiche sono sempre così vivide, Adrian».
Lui sprofondò il viso tra i miei seni, leccando prima l’uno e poi l’altro, mordicchiandoli piano. Aveva i canini allungati, notai. Strofinai il bacino contro la sua erezione.
«E dov’è, ora, questo tizio? Che cosa gli hai fatto?».
Non avevo voglia di parlarne, ma capii che non avrebbe lasciato perdere. Gli slacciai i pantaloni e glielo tirai fuori, prima di dire: «Niente. Sono scappata qua a Londra». Poi sollevai il bacino e ridiscesi su di lui. La mia fica gli si strinse attorno come una guaina, pulsante.
Ero incredibilmente sensibile ed eccitata. Avevo voglia di continuare a scoparlo fino all’alba e oltre.
Lui mi morse sul capezzolo, strappandomi un grido di dolore e piacere. Iniziò a bere, succhiando forte.
Mi mossi sopra di lui, cercando di prenderlo in profondità.
Era tutto così intenso e amplificato che non ero sicura di riuscire a durare più di qualche minuto. Mi strinsi contro la sua testa, mentre lui mi palpava entrambi i seni, quello che mordeva e l’altro. Salii e scesi sopra di lui facendo forza sulle cosce, stringendolo con i muscoli pelvici, strofinandogli il sedere sulle sue cosce.
Lui mi fece scivolare una mano lungo la schiena e tra le natiche.
Quando mi infilò un dito anche dietro, urlai e sentii l’orgasmo che arrivava.
Mi stavo ancora contraendo attorno a lui, quando venne, infradiciandomi l’interno della passerina con il suo sperma. Staccò le labbra dal mio seno e lo leccò.
Mi appoggiai sulle sue spalle, ansimante.
Lui mi leccò anche l’altra tetta, forse per non farla sentire sola.
«Ti adoro» gli dissi. Ero sincera, anche perché non esserla non avrebbe avuto alcun senso. Come persona non lo conoscevo e forse non l’avrei mai conosciuto, ma a letto era più o meno tutto quello che una ragazza potesse volere.
«Mh» non rispose lui, anche se aveva sentito benissimo. Strofinò la faccia tra le mie tette. «Vai a mangiare. Ti farò portare dei vestiti. Partiamo prima dell’alba».
Inarcai le sopracciglia. «Partiamo? Dove andiamo?».
Lui mi rivolse un sorriso soddisfatto. «Inverness».
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Molto più tardi avrei capito una cosa importante sui vampiri: hanno un fortissimo senso del drammatico.
Quella notte, un paio d’ore prima dell’alba, mi limitai a osservare con sguardo scettico i vestiti che mi erano stati lasciati in camera: degli aderenti pantaloni di pelle nera, un top piuttosto corto e scollato dello stesso colore, un completo intimo di rete, degli anfibi.
Sospirai e mi infilai quella sorta di divisa da metallara, completandola con la giacca di pelle da motociclista che era appesa allo schienale della sedia.
E tenete in considerazione che Adrian era un vampiro sobrio e moderno. Come avrei appreso in seguito, alcuni di loro, date le circostanze, avrebbero optato per delle pitture tribali su tutto il corpo e nient’altro.
Le circostanze, tra l’altro, non mi erano chiare.
Non mi era chiaro perché Adrian volesse fiondarsi a Inverness, la città maledetta da cui ero fuggita più di un anno prima.
Dato che non ero completamente idiota, però, supponevo che il mio ritorno sarebbe stato molto sgradevole almeno per una persona: Clyde Donovan.
Quando l’avevo conosciuto, Clyde era il classico tipo che piace alle ragazze. Alto, bel fisico, capelli folti e con una sfumatura rossastra, barba mal fatta e un sederino delizioso dentro i jeans sciupati.
Gli ero corsa dietro come una cagna in calore, e se n’erano accorti tutti.
Sono sempre stata carina, ma per attirare l’attenzione di Clyde avevo dovuto sbaragliare la concorrenza.
Era finita nel retro di un furgone.
Io, sbronza, vomitavo sull’erba, rovinando la serata. O, insomma, mi era sembrato chiaro che l’avevo rovinata. Stavo di merda, non mi reggevo in piedi, mi sentivo la testa sul punto di esplodere... l’unica cosa da fare era tornare a casa, prendere quattro aspirine e mettersi a letto, no?
Clyde non l’aveva vista nello stesso modo.
Mi aveva sbattuta nel retro del suo furgone e mi aveva “scopata” davanti e dietro. Parole sue, perché io non l’avrei definita una “scopata”.
Dopo, mentre ancora perdevo sangue dal sedere, mi aveva anche chiesto se mi era piaciuto.
Mi ero tappata in casa per due giorni a leccarmi le ferite. Tutti mi avevano visto fare la stupida con lui, tutti avevano visto che gli morivo dietro. Inverness è una piccola città.
Quando rimisi il naso fuori di casa, scoprii che, ora, tutti sapevano anche della scopata galattica che avevo fatto con Clyde.
In tutta la mia vita non mi ero mai sentita così umiliata.
A quel punto ero riuscita solo a scappare.
Ma torniamo a quella notte. Come ho detto, mi infilai i vestiti che mi erano stati lasciati e tornai al piano di sotto. Adrian mi aspettava in salotto, decisamente più sobrio di me.
Aveva dei pantaloni eleganti neri e un dolcevita dello stesso colore.
Mi precedette in garage. Sbloccò le portiere di una lunga station-wagon scura, piuttosto anonima, e si mise al volante.
«Meglio darsi una mossa, se non vogliamo restare imbottigliati sull’M1» commentò, dirigendosi verso la Kingsway a velocità piuttosto sostenuta.
Alzai una mano. «Ti ricordo che se ci schiantiamo io muoio di sicuro».
Sorrise lievemente e rallentò un po’. «Dice la lattina che ci vogliono nove ore. Dovrai guidare quasi sempre tu. Sai che non vado d’accordo con il sole».
Quella era una delle molte cose che non avevo approfondito. «Fino a che punto non ci vai d’accordo?» chiesi, quindi.
Lui si strinse nelle spalle. «Oh, non mi trasformo in una statua di cenere. Probabilmente non mi ammazza nemmeno se mi ci lasci sotto delle ore, ormai. Sono vecchio, ho la pelle dura. Ma fa un male fottuto. Esporre ai raggi solari uno della mia razza è come prendere un gatto, metterlo in un sacco, picchiarlo e poi aprire il sacco per vedere se il micio è incazzato».
«Quindi che cosa hai intenzione di fare? Ti chiuderai nel bagagliaio?».
Mi rivolse un sorrisetto. «Già. Cerca di non farti fermare dalla polizia. E se per caso ti fermano, cerca di non essere tu ad aprire il bagagliaio».
«Cristo» borbottai. «Se almeno non sembrasse che ci speri...»
«Oh, dai. Non essere così noiosa. Ci divertiremo un sacco, io e te». Ci pensò per qualche secondo. «Be’, magari più io. Adoro seviziare i malvagi».
«Ecco... ti volevo parlare di questa cosa. Non che Clyde non vada seviziato, ma... non ti sembra un po’... ehm, esagerato?».
In realtà rivedere Clyde era proprio l’ultimissima cosa che volessi, non importava che fosse per fargli del male.
Adrian sospirò. «Siete così complicate, voi persone moderne. Fidati, ti piacerà». Sul suo volto candido si allargò un sorriso malizioso. «E se non ti piace... puoi sopravvivere».
Controllò il navigatore, imboccò la Circular e attaccò lo stereo. Girò tra le stazioni fino a trovare un canale di musica sudamericana.
Gli lanciai un’occhiata perplessissima.
«Bisogna ampliare i propri orizzonti, animaletto mio. Chi resta fermo soccombe, chi evolve prospera. Lo diceva anche Darwin. Ho vissuto in Venezuela, per un po’. Cinquanta o sessant’anni, nell’ottocento. È stato divertente. Ho incontrato anche Simón Bolívar...».
«Eh?».
Lui sospirò. «Non sai chi sia, giusto?».
Aggrottai le sopracciglia. «So chi era. Più o meno. Un rivoluzionario, qualcosa del genere. Era l’idolo di Chávez».
Allungò una mano per grattarmi la nuca. «Bravo animaletto. Mi piacciono i paesi caldi. Sempre meglio di questo schifo di Inghilterra. Qua piove sempre».
«Evidentemente non conosci la Scozia».
Lui rise. «Sbagliato. Ho vissuto in Scozia, tra il milletre e il millequattrocento. Mi ero innamorato follemente di una bellezza del luogo. Ero un ragazzino. Non è finita benissimo e me ne sono andato in tutta fretta. A quei tempi i lupi erano molto forti in tutta l’Europa del nord».
«I lupi?» feci io. «Oh, no... no, vero? Dimmi di no».
Adrian imboccò l’M1 e, nella prima piazzola, accostò.
«Sta per sorgere il sole» disse, spegnendo il motore. «Cambia stazione, se vuoi. Guida con prudenza. Ci vediamo dopo il tramonto».
Lo vidi uscire dalla macchina, aprire il portello del bagagliaio, saltare dentro e richiudere il portello dall’interno.
Sospirai e mi misi al volante.
Molto bene, pensai. Sto tornando a casa per torturare e uccidere un uomo. Forse esistono i lupi mannari. E ho un vampiro che dorme sotto alla cappelliera.
Nessuno venga a dirmi che non ho una vita interessante.