«Sei la mia colazione» spiegò, stiracchiandosi. «Spogliati».
Feci come mi diceva e rimasi in piedi accanto al letto, nuda, con le mani lungo i fianchi. Confesso che, dopo la volta precedente, l’idea di fargli da colazione non mi dispiaceva per niente. Avevo i capezzoli eretti ed ero piuttosto ansiosa di farmi mangiare.
«La seconda anta da destra. C’è un bauletto. Prendilo e portamelo» ordinò lui. Eseguii all’istante. Era un bauletto rivestito di pelle naturale, piuttosto pesante. Lo posai sul letto accanto a lui.
Adrian lo aprì e ci frugò dentro. Tirò fuori una corta frusta di pelle nera, frangiata, e la mise accanto a sé sulle lenzuola. Frugò ancora. Due piccole mollette rivestite di gomma unite da una catenella. Frugò. Un attrezzino metallico con una rotella dai denti aguzzi sulla punta.
Guardai quell’armamentario con aria perplessa.
«Il ventunesimo secolo è il duty free del dolore» disse Adrian, con un mezzo sorriso. Spostò il bauletto per terra e saltò fuori dalle lenzuola. «La gente inventa nuovi incredibili strumenti di tortura ogni giorno e li definisce, correttamente, “giocattoli erotici”. Tutto è miniaturizzato, portatile, così puoi mettere il tuo aguzzino in valigia e portarlo con te dove vuoi».
Presi la rotella e ne saggiai le piccole punte con le dita. Erano spesse circa un paio di millimetri e leggermente arrotondate.
Adrian rise. «Guardati! Questo è un secolo senza paura. In un certo senso è un peccato... ma è anche piuttosto pratico. Quali hai già usato?».
«Mh? No, nessuno. Non è il mio genere, credo. Ma capisco quello che intendi: non ho paura, possiamo provare. Se non mi piace, tu smetti?».
Lui rise di nuovo. «Non penso».
Aggrottai lievemente la fronte. «E allora dove sta la differenza con l’essere tua prigioniera punto e chiuso? Che non devi fare la fatica di pulirmi la gabbia?».
Adrian si accarezzò il mento, pensieroso. «Magari ti lego, così la smetti di rompere».
Un istante dopo mi ritrovai rivoltata a pancia in su, con lui seduto sopra l’inguine. «Sei così preoccupata che hai i capezzoli duri» mi fece notare. «Sei così preoccupata che sento l’ odore della tua passera bagnata fin da qua». Tanto per essere più chiaro, allungò una mano dietro di sé e fece scorrere un dito tra le mie grandi labbra. «Sì, vuoi solo rompere, come se fossi uno degli umani che ti sei portata a letto finora. Puoi anche continuare: è divertente».
Si chinò sopra il mio viso, fissandomi con i suoi brillanti occhi verdastri. «Ognuno trova il suo modo per non impazzire, eh?».
Lo fissai di rimando, senza parole.
Lui mi leccò le labbra. «Adesso giochiamo e io posso recitare il ruolo del tuo fidanzatino umano finché ti pare. Piacere e dolore. Quello che mangio. Non ti preoccupare, tesoro, se ti faccio troppo male smetto» disse, con un vago sorriso di scherno.
Si rialzò e mi posò una mano su un seno. I capezzoli mi si erano ritratti, non ero più molto felice di essere lì.
Ne prese uno e lo tirò, allungandolo. Ci fissò sopra una delle mollette e mi fece male. Respiravo forte e iniziavo ad avere paura. Paura che fosse la mia paura quello che voleva mangiare, quella sera. Paura che mi spezzasse solo per piantarmi bene in testa che non era uno degli umani che mi ero portata a letto fino a quel momento.
Mi strinse l’altro capezzolo e lo allungò. Fissò l’altra molletta. Una catenella scorreva tra i due.
«Basta» dissi.
Lui inarcò le sopracciglia, divertito. «Basta? Siamo già a questi punti?».
«Sì, basta» dissi io, arrabbiata e spaventata in un tutt’uno. Ma finché rimanevo arrabbiata potevo tenere sotto controllo la paura. Mi staccai una molletta e poi l’altra e le buttai da un lato. «Stuprami e falla finita. Ti piacerà. Mi farai male sul serio. Avrò paura sul serio. E se mi minacci di uccidermi, ti dirò anche che mi piace. Ti dirò: “Oh, sì, quanto ce l’hai grosso, quanto ce l’hai duro, scopami e mordimi, fammi male, spaccami in due, amore”. Avrai tutto quello che vuoi. Sarò una vittima perfetta. Forza, stuprami» ringhiai, prendendolo per la casacca del pigiama e tirandolo verso di me. Non si mosse di un millimetro. «Fammi male sul serio, così sì che sarai come l’ultimo umano che mi sono portata a letto».
Lasciai andare il suo pigiama e cercai di divincolarmi, senza altro risultato di farmi male al polso fratturato. Guaii di dolore e mi dibattei più forte.
Mi trovai Adrian sdraiato sopra, che mi bloccava le braccia con le mani.
«Shh» disse.
Andai nel panico più completo, sicura che stesse per seguire il mio consiglio, sicura che stesse per farmi male sul serio. Cercai di scalciare, ma era come essere bloccata da un masso di pietra. Non riuscii a fare assolutamente nulla. Cercai di morderlo, senza riuscire ad avvicinarmi a sufficienza alla sua faccia. Cercai di scivolare di lato, cercai di colpirlo in mezzo alle gambe, cercai...
Niente.
Non riuscii a fare assolutamente niente e mi misi a piangere.
«Shh» ripeté lui. Sempre placidamente steso sopra di me. «Guarda». Sollevò le labbra e mi mostrò una schiera di denti bianchi, non proprio perfettamente allineati, decisamente umani. «Senti» aggiunse, muovendo leggermente il bacino. Non sentii proprio niente.
Adrian inarcò le sopracciglia. «Oh, non mi dire».
Sospirò. «Sei una macchina per la debacle, Sarah. Adesso mi sposto, se la pianti di divincolarti e la smetti di cercare di farti male da sola».
Annuii leggermente, tirando su con il naso. Adrian scivolò da una parte e appoggiò la testa su una mano, guardandomi. «La sofferenza emotiva, morale, spirituale, dà al vostro sangue un sapore stupido che non mi piace. È come bere un depresso: deludente. Le sofferenze fisiche, d’altro canto, vi riempiono di adrenalina, di endorfine... tutte sostanze deliziose, al mio palato».
Annuii di nuovo. Capivo.
«Stuprare esseri umani non è tra le mie attività preferite. Non ti dirò di non averlo mai fatto. L’ho fatto decine di volte. Sono vecchio, ho fatto un sacco di cose. Ho stuprato e sono stato stuprato. Tre o quattro volte. Da uno della mia razza. E, credimi, è stato profondamente sgradevole. Quindi, non puoi sconvolgermi schiaffandomi sotto il naso le tue sfighe. Abbiamo già detto che non sei l’essere umano più fortunato in circolazione, altrimenti non saresti qua. Ho deciso di raccoglierti perché mi sembravi marginalmente interessante e per rompere un po’ i coglioni a Vlan. Ormai l’ho fatto. Se ti caccio fuori ti prenderà il primo lupo di passaggio, ma solo se ti va bene».
Sorrise lievemente, sfiorandomi una guancia. «Dato che abbiamo capito che sei un po’ sfigatella, probabilmente ti prenderebbe uno dei vostri, che sono molto peggio. Quindi, detto tutto questo... c’è qualcosa che ti vada di fare per me, sul versante alimentare, o chiamo la carissima Glenda e mi avvalgo della sua preziosa esperienza maturata col tempo?».
Ci pensai per qualche istante. Pensavo lentamente, faticosamente, in quel momento, ma sapevo alla perfezione che cosa potevo e volevo fare.
«Potresti... ecco... stare fermo?» mormorai. Mi alzai su un gomito. «Sei così bello. Potresti... lasciar fare a me, solo per oggi?».
Lui sbatté le palpebre, perplesso. «Non dubito che tu possa riuscire a farmi godere, con un po’ di impegno, ma non vivo di autotrasfusioni, se capisci quello che intendo».
Sorrisi. «Piacerà anche a me. Davvero, non sono contraria a un po’ di dolore. Solo... non oggi, okay? Non voglio trattarti come il mio fidanzato umano né niente del genere. So che sei parecchio diverso da tutti quelli che ho incontrato. Abbiamo detto che sei il mio proprietario. Non so se riesco a considerarti il mio proprietario, ma ti sono grata. Posso farti da colazione, pranzo e cena... non è un problema, per me. Posso anche farlo volentieri e produrre quintali delle sostanze più ghiotte del mondo... ma stasera lasciami fare a modo mio».
Lui sbuffò e fece un gesto come a dire: “Accomodati”.
Mi accomodai.
Per prima cosa gli slacciai il pezzo di sopra di quell’elegantissimo pigiama di seta. Ne aprii i lembi, denudandogli il petto. Era pallido, dalla carnagione perfetta, con i muscoli definiti e armoniosi. Iniziai a baciarlo partendo da una clavicola. Adrian rimase fermo proprio come gli avevo chiesto, con gli occhi socchiusi, tranquillo.
Lo baciai e lo accarezzai. La sua pelle aveva una consistenza unica, serica ed elastica nello stesso tempo. La leccai, cercando di definirne il sapore. Qualcosa di pulito, di fresco. Quello era un altro fatto sorprendente: non era caldo. Non era neanche freddo, strettamente parlando. Era della temperatura degli oggetti. Nei film dell’orrore quelli come lui sono dei cadaveri ambulanti, ma Adrian non aveva nulla del cadavere. Piuttosto, sembrava una statua. La perfetta riproduzione di un corpo umano maschile molto gradevole.
Esplorai ogni centimetro del suo torace, scendendo sempre.
Lui rimase fermo come promesso, tranne quando gli diventò duro.
Lo spogliai completamente. Lo leccai completamente, fino alla punta dei piedi, fino alla punta delle dita.
Se si fosse nutrito di saliva sarebbe stato a posto per un anno intero. Lo baciai e lo toccai. Lo accarezzai.
Gli feci scorrere le mani sull’interno delle cosce e lui sollevò le ginocchia, divaricando leggermente le gambe. Lo leccai sul perineo e sui testicoli, lentamente. Lo mordicchiai.
Le mie labbra salirono, percorrendo con calma la lunghezza del suo pene. Glielo presi in bocca, abbassandogli il prepuzio e stuzzicandogli il frenulo in punta di lingua.
Era sempre uno strano controsenso, il suo sesso. Era eretto, duro come se fosse una scultura di gesso: avrebbe dovuto essere arrossato e caldissimo. Non lo era. Era di un colore leggermente più scuro del resto del suo corpo candido ed era più o meno della temperatura della stanza.
Lo succhiai e lo leccai fino a scaldarlo.
Lo masturbai quasi delicatamente, mentre lo mordicchiavo e lo prendevo nella bocca.
Adrian fece quello che farebbe qualsiasi maschio: si tese, diventò ancora più grande e duro, iniziò a pulsare.
«Ora puoi muoverti» gli sussurrai.
Lo fece, e molto velocemente. Mi ritrovai voltata sulla schiena, con il suo viso tra le gambe. Emise una sorta di sospiro e mi leccò tra le grandi labbra, poi sentii la trafittura dei suoi denti.
Ero accaldata, bagnata, eccitata. Vederlo bere dal mio sesso, sentire la sua lingua che lappava e la sua bocca che succhiava, mi infiammò completamente.
Mi leccò ancora, guarendomi, e poi scattò sopra di me. Me lo trovai dentro senza sapere come ci fosse arrivato. Gemetti, inarcandomi verso di lui.
Sentii il suo cazzo entrarmi dentro una, due, tre volte. Forte e veloce, ma non forte e veloce quanto poteva. Semplicemente, abbastanza forte da farmi sentire ogni centimetro e abbastanza veloce da farmi emettere un lungo gemito di piacere.
Si chinò su di me e mi morse sul collo, continuando a muoversi.
Anche quella era una sensazione particolare, che apprezzavo di più di volta in volta. Era come se dal punto della trafittura partissero dei brividi di piacere che si sommavano al piacere sessuale.
Senza spostare la bocca, uscì da dentro la mia fica e mi posò il glande sul buchetto posteriore, che era intensamente contratto di piacere.
Rimase fermo un paio di secondi, come a darmi la possibilità di svincolarmi, premendo leggermente. Fui io a spingere contro di lui. Volevo che mi riempisse tutta. Lo volevo sentire ovunque.
Adrian diede un primo colpetto molto calibrato. Lo sentii che mi allargava. Una fitta di dolore e una contrazione di piacere. O il contrario. Un altro piccolo colpo di fianchi. La sua lingua sulla gola. Debolezza. Languore. Brividi in tutto il corpo.
Un terzo colpo di reni. Mi entrò completamente dentro, facendomi gemere forte. Non era piccolo e un po’ male mi faceva, ma il piacere superava abbondantemente il dolore.
Mi strinse un seno, accarezzandomi il capezzolo con il pollice. Altro dolore, perché ero così sensibile, in quel momento, che bastava sfiorarmi per farmi urlare.
Lo sentivo che si muoveva dentro il mio sedere, largo, lungo, tormentandomi e facendomi ansimare di piacere nello stesso momento. E continuava a bere. Lentamente, goccia a goccia, ma continuava a bere.
Il mio corpo era tutto un brivido
Gli leccai il lobo di un orecchio. Lui aveva ancora la bocca ancorata sul mio collo, la mano sul mio seno e il sesso dentro il mio buchetto del culo, che ormai era incandescente di dolore e piacere.
Cedetti di colpo, venendo. Mi sembrò di essere sommersa dall’orgasmo.
Mi contrassi dolorosamente attorno a lui, graffiandogli la schiena.
Sentii il getto caldo del suo sperma e i suoi denti che affondavano più in profondità nel mio collo.
Uscì lentamente da me, ma continuò a bere.
In qualche misura, era sesso anche quello. Continuai a provare piacere, come un prolungamento sbiadito dell’orgasmo.
Lui mi accarezzò il corpo, continuando a bere.
Era piacevole, ma mi sentivo sempre più vicina ad addormentarmi.
Chiusi gli occhi, abbandonandomi.
Adrian scostò la bocca e mi leccò delicatamente sul collo.
«Sarah? Parlami» disse.
«Mh?» feci io.
Mi accarezzò i capelli. «Ho un po’ esagerato. Eri semplicemente squisita. Non ti preoccupare».
Non ero preoccupata. Ero vicina ad addormentarmi e avevo la sensazione che forse non mi sarei svegliata, ma non era una brutta sensazione. Era quasi dolce, abbandonarsi così.
Sentii Adrian parlare nell’interfono. «Henry, puoi portarmi una sacca di zero negativo, per favore?».
Mi chiesi confusamente perché si stesse facendo portare del sangue del mio stesso gruppo. Poi mi venne in mente che non gli avevo mai detto qual era il mio gruppo.
«Be’, sai» sorrise lui, continuando ad accarezzarmi sui capelli, «è un po’ come se fossi un sommelier».
Sentii qualcuno che bussava alla porta e Adrian che diceva “Entra”. Cercai di coprirmi. Adrian sorrise di nuovo e mi infilò tra le lenzuola. «Perfetto. Lasciala lì».
Mi voltai. Avevo lo sguardo appannato, ma vidi la sagoma di Henry accanto a una sagoma lunga e stretta... quella dell’asta di una fleboclisi.
Chiusi di nuovo gli occhi. Volevo dormire.
Sentii qualcosa stringersi attorno al mio braccio sinistro e poi una piccola trafittura all’interno del gomito.
«Apri la bocca» mi disse Adrian. Lo feci.
Sentii alcune gocce di un liquido salato colarmi sulla lingua. Deglutii e mi leccai le labbra.
«Adesso dormi».