3.
Lo seguii in una stanza da letto. La sua stanza da letto, probabilmente. Quando entrammo, accese un paio di piccole lampade da tavolo, illuminando l’ambiente.
Il letto era largo e rotondo, al centro perfetto della stanza, che era a sua volta circolare, con due porte-finestre aperte che facevano entrare l’aria fredda della sera. Adrian le chiuse entrambe e tirò le tende.
Attorno alle pareti scorreva un basso mobile azzurro sporco, in tinta con la tappezzeria. Il pavimento era di assi grezze, antico, coperto da diversi tappeti persiani.
Mi fece segno di stendermi sul letto. Lo feci. Alzando lo sguardo vidi che il soffitto era un unico specchio, come nel set di un film porno.
Iniziai a slacciarmi la camicetta, più spaventata che preoccupata. Adrian mi prese il polso sinistro e se lo portò alla bocca prima che potessi capire che cosa aveva in mente, velocissimo. Mi morse e sentii la sensazione dolorosa del sangue che mi veniva succhiato.
Ricominciai a tremare.
«È davvero la fine del mondo» disse lui, sollevando la bocca. «Non potevo resistere. Adesso calmati, però. Oggi non ti farò male. Nemmeno un po’. Sarò cortese, educato e ti farò godere come non hai mai goduto in vita tua, quindi non hai nessun bisogno di avere paura».
Si chinò di nuovo sul mio polso e lo leccò. Doveva esserci un po’ del suo sangue, mescolato alla sua saliva, perché i segni dei suoi denti scomparvero.
Si mise a sedere e mi sfilò una scarpa. Mi accarezzò una gamba.
«Spogliati, Sarah» disse.
Non ero affatto tranquilla e il suo discorsetto non mi aveva convinta, ma, avendo chiara l’alternativa, mi spogliai. Alla fine, aveva detto che non mi avrebbe fatto male. A quello credevo. Poteva essere orribile lo stesso e senza dubbio lo sarebbe stato, ma almeno non avrei sofferto fisicamente.
Mi tolsi gonna, camicetta e collant. Mi slacciai il reggiseno e mi abbassai gli slip. Nuda, mi stesi su un fianco e lo guardai.
Adrian si sfilò la giacca, tutto qua.
«Vediamo... che cosa ti piacerà?» sorrise, avvicinandosi. «Che cosa può piacere a questo animaletto dai capezzoli ritratti?» chiese, sottovoce, piegandosi per baciare proprio quei capezzoli. La sua lingua li solleticò delicatamente, convincendoli a tornare fuori. Mi massaggiò i seni con le mani, poi le fece scorrere su tutto il mio corpo.
Mi rilassai un po’. Non era sgradevole.
«Oh, grazie» rise lui. «Molto gratificante».
Sentii la sua lingua che scendeva dai miei seni, al mio stomaco, fino ad arrivare alla mia pancia. Si tuffò nel mio ombelico, facendomi il solletico.
Allungai la mano sinistra e la passai tra i suoi capelli. Erano serici, lucidi, incredibili.
Adrian si fermò, sollevò il viso e mi lanciò una lunga occhiata verdastra, come quella di un gatto indispettito.
«Non devo toccarti?» chiesi io, perplessa.
«Non ora» rispose, riprendendo a leccarmi. Allontanai la mano. Non mi sembrava molto carino, mollarlo lì e aspettare che mi facesse godere, ma contento lui contenti tutti.
Ed era gradevole. Dove passava la sua bocca la pelle formicolava leggermente.
Arrivò tra le mie gambe e le allargò con le mani. Non in modo brusco, anzi. Era gentile e delicato. Sentii la sua lingua solleticarmi la fila di peli al di sopra del monte di venere. Scese ancora, infilandosi tra le mie grandi labbra, esplorando ogni recesso della fessura ormai umida che le divideva.
Mi succhiò il clitoride, facendolo indurire. Iniziai a respirare più velocemente. La pelle mi formicolava e quello che mi stava facendo con la bocca era profondamente gradevole.
La sua lingua indugiò sopra il mio buchetto, poi lo penetrò. Le sue dita iniziarono ad accarezzare l’esterno del mio sesso, concentrandosi sul clitoride.
Continuò a lungo, finché non fui estremamente eccitata, bagnata, desiderosa di venire penetrata. Bisognava ammettere che era la fine del mondo, come leccatore di fiche.
Lo sentii che rideva sottovoce, mentre mi infilava dentro un dito. Mi strinsi attorno a lui, desiderando che non fosse semplicemente il suo dito.
Adrian ne infilò anche un altro.
La sua bocca scese sulla mia coscia sinistra, mentre con le mani continuava a farmi godere. Sentii la trafittura dei suoi denti vicino all’inguine e mi resi conto che stava bevendo. Beveva e mi toccava nello stesso momento e, per la prima volta, trovai piacevole quella sensazione di suzione.
Dopo qualche minuto si staccò e sentii che mi leccava per chiudere i segni dei suoi denti.
Tornò a leccarmi tra le gambe, facendomi gemere piano.
Ormai volevo davvero che mi mettesse dentro il suo cazzo. Lo volevo disperatamente.
Un secondo dopo averlo pensato me lo trovai sopra.
Aveva la camicia completamente sbottonata e la pelle chiara e serica del suo petto sfiorava i miei capezzoli turgidi.
Finalmente, lo sentii che mi entrava dentro. La volta precedente non avevo potuto apprezzarlo, ma questa volta lo feci. Era grande, duro, più freddo di quello di un uomo. In effetti, per i primi istanti dava l’impressione di essere un dildo. Poi si scaldò e tutto fu più normale.
Si mosse lentamente e in profondità, conficcandosi nella mia cervice e procurandomi fitte di piacere intense.
Avrei voluto stringergli le spalle e baciare il petto, ma non lo feci. Avrei voluto strizzargli le natiche, in realtà. Avevo l’impressione che fossero piccole e sode come quelle di una statua greca.
In risposta ai miei pensieri, mi prese le mani e me le guidò dove volevo io. Avevo ragione: aveva un sedere così sodo da essere duro, meraviglioso da stringere.
Allargai le cosce più che potevo, attirandolo contro di me.
Lui mi affondò dentro più velocemente, facendomi gemere di piacere. Sentii la sua bocca sul mio collo e fregandomene dei suoi stupidi divieti gli posai una mano sulla nuca mentre lui mi mordeva e iniziava a bere di nuovo.
Mi tesi contro di lui, muovendo il bacino per assecondarlo mentre entrava. Lui mi strinse un seno con una mano, continuando a bere.
Sentii il piacere che arrivava, inesorabile. Mi contrassi attorno a quell’erezione marmorea, decisa a stringerglielo fino a strizzarglielo. Con una mano sulle sue natiche e l’altra sulla sua nuca, mi mossi sotto di lui come un’onda, gemendo di piacere.
Lui diede un paio di colpi più veloci, continuando a bere, e lo sentii svuotarsi dentro di me. Lo sentii fisicamente, perché il suo seme aveva quella peculiare caratteristica comune anche alla sua saliva e, in misura maggiore, al suo sangue: faceva formicolare quello che toccava.
Mi strinsi disperatamente attorno a lui, mentre il piacere mi attraversava come una scossa elettrica. Sobbalzai, venendo. I miei umori si mescolarono ai suoi, al mio interno.
Adrian lappò dal mio collo ancora per qualche secondo, prima di allontanare la bocca.
«Cielo» mormorai, voltandomi verso il suo viso. «Se mi avessi scopata così prima di farmi il tuo discorsetto, mi sarei consegnata all’istante, chiavi in mano».
«Mh. Questo era il giro promozionale. Non sarò sempre così carino. In ogni caso...» aggiunse, alzandosi e riallacciandosi tutto l’allacciabile a super-velocità, «...farvi godere è il modo più semplice per conservarvi a lungo in forma. Non sono più i secoli in cui si potevano far sparire cinque persone al giorno senza che nessuno se ne accorgesse, come Vlan e Myra non vogliono cacciarsi in testa».
In piedi accanto al letto, si stava riabbottonando i polsini della camicia quando si voltò verso la porta. «Ah, sei tu, caccolina» disse, in tono distratto. Un grosso gatto bianco, con la testa tonda e la coda pelosa saltò sul letto e si avvicinò a me. Aveva dei bellissimi occhi verdi. Allungai la mano per accarezzarlo, ma Adrian fu più veloce. Prese quella povera bestia e la scagliò con forza contro il muro. Il gatto emise un “meow” e saltò a terra senza un graffio.
«Questa non la puoi mangiare, Rondò» lo rimproverò Adrian. Lo prese per la collottola e lo scosse. «Hai capito? Questa la mangio io, non tu». Lo scagliò di nuovo contro al muro.
Il gatto gli lanciò un’occhiataccia e scivolò via.
«Adesso torna» predisse Adrian, sedendosi sul letto. «Stai attenta, con lui, va bene? Dovrebbe aver capito che non può morderti, ma non si può mai sapere».
«È... è... è un gatto vampiro?» chiesi io, allucinata, alzandomi a sedere sul letto.
«Già, Per lo più fa il bravo ragazzo, ma con gli umani nuovi... eccolo!» rise, mentre il gatto rientrava al trotto e gli saltava sulle gambe, accoccolandosi subito dopo. Adrian lo grattò tra le orecchie. «Hai capito che questa umana non si mangia, caccolina? Ora puoi accarezzarlo, se vuoi. È una puttanella sempre in cerca di coccole».
Mi avvicinai. Il gatto ronfava sonoramente sulle cosce di Adrian, con i magnifici occhi socchiusi. Lo grattai sotto al mento.
«Non è abbastanza grosso da ammazzarti» mi spiegò il suo padrone, continuando ad accarezzarlo, «ma sicuramente non sarebbe piacevole trovarselo attaccato che succhia. Inoltre lui ha il suo cibo, non deve pasticciare».
«Non deve pasticciare» risi. Mi stesi sulla pancia e il gatto mi saltò sulla schiena. Zampettò un po’ e poi venne ad accoccolarsi sotto alla mia ascella. «Non devi pasticciare, povero micio» gli dissi, accarezzandolo. Lui fece le fusa e si strusciò. «E quindi, quanti anni ha questo bel gattone?».
«Non ne ho idea. È con me da un’ottantina. Dovresti rivestirti, ora».
Alzai il viso verso di lui. Stava osservando il gatto che mi si strusciava contro con aria piuttosto affamata. Considerando quello che mi aveva detto, probabilmente lo era in senso fisico.
Puoi mordermi ancora, se è quello che vuoi, pensai.
«Non è una buona idea. Alzati».
Feci come diceva. Mi alzai... e poi mi risedetti subito, visto che mi girava la testa.
«È meglio che tu metta qualcosa sotto ai denti. E che poi ti riposi. Due giorni fa hai perso un sacco di sangue. Ti chiamerò quando mi servi».
Detto questo si alzò, prese il gatto sotto alla pancia e se ne andò.
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Nei giorni seguenti Glenda mi istruì. Mi fece vedere la casa, spiegandomi i nostri compiti.
«Delle pulizie si occupa una ditta. Noi dobbiamo solo supervisionare. Il signor Adrian vuole fiori freschi nel suo salotto tutti i giorni. Quando ha degli ospiti umani noi ci occupiamo del cibo. In quanto al gatto, il suo cibo è dentro delle gabbie nello scantinato. Non ti preoccupare, quando il signor Adrian non c’è se ne occupa Henry. È disgustoso».
«Scusa, che cosa mangia Rondò?» chiesi io.
Lei fece una smorfia. «Ratti. Vivi. Non ci pensare, io cerco di non farlo».
Non le dissi che a me non faceva particolarmente schifo. Si era appena ammorbidita un po’, nei miei confronti.
«I sotterranei sono off-limits, ma tanto non li usa nessuno da anni» mi spiegò. «Sono celle» aggiunse, per chiarire quello che intendeva.
«In ogni caso... non abbiamo moltissimo da fare. Ti consiglio di usare la palestra, al terzo piano. Al signor Adrian non piacerebbe, se ti lasciassi andare. Prima di uscire ricordati di mettere uno di questi ciondoli». Mi mostrò una ciotola vicino alla porta d’ingresso. «Non si sa mai».
Mi condusse attraverso le grandi sale del primo piano. «Non disturbare il signor Adrian se non ti ha chiamato lui. Se è giorno, dopo aver areato una stanza ricordati di chiudere bene le imposte. Non usare profumi troppo forti».
Continuò a darmi istruzioni per il resto della notte, finché non sorse il sole e lei annunciò che andava a dormire.
Con Henry misi a posto la mia situazione legale. Firmai un contratto di lavoro e gli diedi tutti i miei dati.
Chiamai Bobby per spiegargli che avevo trovato un altro posto. Non era stato particolarmente felice che fossi scomparsa per tre giorni e che non gli avessi dato nessun preavviso.
Tre giorni dopo il mio arrivo uscii per la prima volta, con Glenda. Andammo al super.
Lo so, molto eccitante.
«Scusami, tu come sei finita, lo sai... qua?» le chiesi, quando ebbi un po’ più di confidenza.
Glenda mi guardò in silenzio per qualche istante, come a decidere se rispondermi oppure no. Alla fine disse: «È una storia un po’ complicata. Di base, il signor Adrian mi ha fatta innamorare di lui e mi ha portata via dalla mia famiglia. Ma sono passati un sacco di anni... non ha più importanza».
Avrei voluto chiederle di più, ma il suo sguardo mi convinse che non sarebbe stata una buona idea.
Quella sera Adrian mi mandò a chiamare di nuovo.
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Il sole era tramontato da poco e io ero sveglia solo da qualche ora. Henry mi disse che il “signore” mi voleva vedere nella sua camera e io andai. Bussai alla porta e la voce di Adrian mi disse di entrare.
Lui era a letto, tra delle lenzuola di seta bianca, ancora in pigiama. Inutile dire che era un elegante pigiama da uomo di seta nera, però.