Capitolo 2

2958 Words
CAPITOLO 2 Creon Reykill non era di buon umore. Anzi, era di pessimo umore quando suo fratello maggiore lo afferrò per un braccio, facendolo voltare nella direzione della sala del teletrasporto che si trovava in un’area del palazzo. Quello era l’ultimo posto in cui voleva andare. Detestava le femmine piagnone. Detestava le femmine piagnucolose, piangenti, appiccicose, fragili. Molto meglio una robusta femmina sarafin o curizana. Non che non ci fosse qualche donna valdier che potesse competere per la sua attenzione, ma almeno Creon non correva il rischio di incrociare una femmina sarafin o curizana con cui era andato a letto, a meno che non lo volesse. Le femmine valdier volevano tutte qualcosa da lui: una posizione altolocata, le comodità del palazzo e lui che li servisse e riverisse. Clarmisa era l’esempio perfetto di tutto ciò che lui odiava nelle femmine deboli. Era stato costretto a lasciare il pianeta per far sì che lei tornasse al suo clan. Lo aveva fatto impazzire con le sue lamentele: il cibo era troppo freddo, le stanze troppo piccole, la servitù troppo brusca. Poi aveva cominciato ad appiccicarsi. Era troppo debole per camminare senza che lui la tenesse per mano, oppure aveva paura delle ombre nei corridoi. Creon non sapeva perché lo avesse preso di mira. Alla fine, la sera in cui lei si era intrufolata nei suoi appartamenti, Creon ne aveva avuto abbastanza. Clarmisa era scoppiata a piangere quando lui le aveva ordinato di lasciare le sue stanze. Era fortunata che il simbionte non l’avesse uccisa. Probabilmente, a salvarla era stato solo il fatto che la creatura era disgustata all’idea di toccarla. Creon sentì il suo drago rabbrividire al pensiero di toccare la bella, ma vacua principessa valdier. A lui stesso veniva la pelle d’oca al ricordo di quando lei gli aveva toccato il petto con le dita morbide. Creon aveva fatto una lunga doccia calda prima di preparare i bagagli e ripartire per il sistema stellare sarafin. Era tornato solo da pochi giorni. Aveva cercato informazioni sui rapitori di suo fratello maggiore, Zoran. Sapeva che i colpevoli non erano i curizani. Uno dei suoi migliori amici era proprio Ha’ven, il loro capo. Un informatore gli aveva accennato della possibilità che Vox, capo dei sarafin, ne sapesse qualcosa. Creon era amico dell’enorme mutaforma felino. La sua era una specie scaltra, tanto feroce quanto astuta. Creon aveva salvato quel grosso figlio di puttana durante una battaglia delle Grandi Guerre. Mentre Vox era convalescente, lui e Creon avevano parlato. Avevano scoperto che dietro alle guerre c’era più di quanto erano stati indotti a credere, ma certe fazioni all’interno dei rispettivi governi avevano fornito loro false informazioni. Fra di loro era nata l’amicizia e, insieme a Ha’ven, avevano lavorato dietro le quinte per far emergere il complotto mirato ad abbattere i rispettivi governi. “Non capisco perché ci sia bisogno di me,” borbottò Creon a Mandra mentre camminava accanto a lui. “Non basta che debba già ritrovarmi Clarmisa a sorpresa nel letto? Perché devo anche avere a che fare con questa debole specie che Zoran ha portato qui? Non puoi pensarci tu?” gemette. Mandra guardò storto suo fratello maggiore. “Me lo devi! Dopo che tu te ne sei andato, ho dovuto avere a che fare io con Clarmisa e suo padre. Lui voleva costringerti a rivendicarla come compagna. Alla fine, ho dovuto minacciare di sfidarlo a duello se non se ne fosse tornato subito al suo clan,” ringhiò. “Posso affrontare una femmina lamentosa e piangente, ma non due. Trelon ha detto di aver bisogno di aiuto con le due sorelle. Abbiamo parlato ieri di quanto sono fragili e delicate. Non appena le avremo sistemate, le affideremo alle cure di nostra madre e dei guaritori.” Creon gemette fra sé. Detestava trovarsi in situazioni come quella. Meglio un bel combattimento, un incarico sotto copertura o persino un attentato alla sua vita di una femmina esigente. Sospirò mentre seguiva Mandra nella sala del teletrasporto. Si fermò a guardarsi attorno, sperando che le femmine fossero già arrivate e che loro le avessero mancate per qualche miracolo. Si avvicinò a un gruppetto di guerrieri che riconobbe come militanti sulla nave da guerra di suo fratello Kevin. Dovevano essere scesi in anticipo. Si stupiva che fossero ancora lì. Di solito, una volta arrivati, i guerrieri sparivano alla ricerca di qualche femmina disponibile. “Bentornati,” disse con scioltezza Creon. “Mi stupisce che siate ancora qui. Pensavo che foste già corsi in una delle case di piacere,” scherzò, dando una pacca sulla spalla di Jurden. Se c’era una cosa in cui Creon eccelleva, si trattava del mettere gli altri a loro agio e ottenere informazioni. Trelon aveva tenuto la bocca chiusa quando avevano parlato con lui. Creon preferiva avere a disposizione quante più informazioni possibili. Se le femmine avevano bisogno di un guaritore, lui voleva che ce ne fosse uno pronto a prendersi cura di loro immediatamente. Jurden gli sorrise. “È bello essere di nuovo a casa, lord Creon. Stiamo aspettando le femmine umane. Continuo a sperare di essere io a catturare quella con i capelli corti. È incredibile!” Creon si accigliò. Perché un guerriero feroce come Jurden avrebbe mai dovuto volere una debole femmina aliena? Ascoltò gli uomini scherzare e pavoneggiarsi, dicendo di essere quello abbastanza forte da catturare il cuore della femmina aliena. I due risero del fatto che Tammit continuava a vantarsi del suo incontro con lei. Di cosa sta parlando, per tutti gli dèi? si chiese Creon, scuotendo la testa. Guardò Mandra con una confusa stretta di spalle. Sicuramente, stanno parlando di un’altra persona. Era impossibile che parlassero delle femmine provenienti dal pianeta su cui era atterrato suo fratello. Aveva visto la compagna di Zoran; aveva parlato con lei. Era gentile e delicata quanto i fiori di sua madre. Aveva l’aspetto di una che sarebbe stata rovesciata da una brezza gentile. Creon si voltò per dire qualcosa a Mandra quando il corpo di suo fratello Trelon e tre femmine apparvero sulla piattaforma del teletrasporto. Creon osservò deluso le tre piccole sagome apparse accanto a Trelon. Quella più vicina a lui sembrava una bambina. Le altre due avevano colori simili, ma era l’unica cosa che avessero in comune, a occhio e croce. Sussultò per lo stupore quando udì Trelon gridare a lui e a Mandra di prendere le femmine. Trelon aveva afferrato quella più piccola, se l’era buttata in spalla e si era lanciato di corsa fuori dalla porta. Creon si voltò in tempo per vedere la femmina dai lunghi capelli bianchi piantare lo stivale in faccia a suo fratello. Creon provò ad afferrare la femmina con i capelli corti. Le grida di avvertimento degli uomini alle sue spalle giunsero troppo tardi. Fece per prendere la femmina per un braccio, solo per sentire il suo corpo staccarsi da terra e alzarsi in volo per un breve istante. Solo gli anni di addestramento gli impedirono di atterrare sulla schiena. Si contorse all’ultimo momento, atterrando in piedi con un ruggito. La figura snella si voltò verso di lui e sferrò un colpo mirato alla sua gola. Creon indietreggiò per schivare il colpo che, se fosse andato a segno, lo avrebbe lasciato boccheggiante. Sentì il suo drago ruggire e premere contro la sua pelle in una feroce battaglia per liberarsi. Scaglie nere del colore di un cielo senza stelle gli percorsero le braccia e il collo mentre cercava di controllarsi. Che diavolo ti prende? esplose mentre si abbassava per schivare un altro colpo mirato a metterlo fuori combattimento e girava attorno alla sagoma. Mia! ansimò il suo drago. Mia compagna! Io catturo compagna. Compagna? chiese confuso Creon. Sentì uno stivale colpirlo allo stomaco mentre prendeva la concentrazione. Credi che questa demonessa che sta cercando di ammazzarci sia la nostra compagna? annaspò cercando di succhiare aria dopo che il colpo successivo lo picchiò all’inguine. Creon bloccò un colpo dopo l’altro, provando a non farsi prendere a calci nel sedere e al tempo stesso di tenere sotto controllo il suo drago. La bestiaccia si rifiutava di dargli retta e cercava di fuggire per agguantare la femmina fulminea. Aveva paura a stringerla troppo forte, per timore di farle del male. Quello fu il suo primo errore. La femmina approfittò della vicinanza per provocare più danni. Creon sentì la testa di lei colpirgli l’occhio sinistro con una botta che gli fece venire le lacrime agli occhi. Il secondo errore fu pensare che, se lui avesse avvicinato a sé la testa dell’aliena, lei non avrebbe potuto più usarla per colpirlo. Gridò quando denti piccoli si serrarono sul suo orecchio in un morso crudele che lo costrinse a mollare la presa. Quello fu il terzo errore. Lo lasciò vulnerabile al ginocchio dell’aliena, che trovò la strada per il suo inguine prima di colpirlo alla bocca. Creon vide le stelle mentre lasciava andare la furiosa selvaggia dai capelli bianchi. Indietreggiò di diversi passi, cercando di riprendere fiato, e si portò entrambe le mani alle ginocchia per reggersi e non cadere sul sedere. Sputò il sangue dal labbro spaccato mentre traeva un respiro profondo, ignorando il dolore. Vai! Perché aspetti? Compagna va via! Insegui! Insegui! Il suo drago stava saltellando e girando su se stesso dentro di lui. Inseguirla? Io la strozzo! Non so se farlo prima o dopo aver ucciso Trelon, ringhiò Creon, raddrizzandosi dolorosamente. Guardò storto gli uomini che cercavano di nascondere le risate. “Credo che dobbiate spiegarmi in quale luogo in culo ai draghi i miei fratelli abbiamo trovato quelle femmine e chi abbia avuto la stupida idea di pensare che fossero delicate,” ringhiò Creon, asciugandosi la bocca dal sangue e sussultando quando si toccò prima l’occhio e poi l’orecchio. “Quella piccola selvaggia mi ha quasi evirato! E mi ha quasi strappato un orecchio.” Jurden sorrise. “Ora sapete perché stavamo aspettando. Non sono magnifiche?” Creon si toccò di nuovo l’orecchio, facendo una smorfia quando tolse le dita sporche di sangue. “Come no,” rispose sarcastico. Voltò le spalle agli uomini, ruggendo. “E tu chiudi quella cazzo di bocca! Non sei d’aiuto.” “Mio signore?” chiese Jurden, confuso. Creon lanciò un’occhiata sofferente agli uomini che lo guardavano come se avesse perso più di un combattimento. “Non voi.” Fece nuovamente una smorfia mentre si dirigeva verso la porta. “Il mio stupido drago pensa che quella demonessa sia la sua compagna,” brontolò mentre le porte si chiudevano alle sue spalle. * * * Carmen girò su se stessa. Era in una specie di lungo corridoio. Finestre a parete riflettevano la luce brillante del pianeta. Quando era finalmente sfuggita all’uomo che stava cercando di afferrarla, non era riuscita a pensare ad altro che a trovare un posto dove nascondersi e riprendersi. Era corsa fuori dalla stanza come se avesse il diavolo alle calcagna. In un certo senso, le sembrava ancora di averlo. Nel momento in cui l’uomo l’aveva toccata, qualcosa aveva reagito dentro di lei. Le… aveva fatto paura. Carmen borbottò un’imprecazione sottovoce. Che stupidaggine. Gli unici sentimenti che le restavano erano di vendetta. Percorse il corridoio fino a raggiungere un altro gruppo di stretti gradini che conducevano verso l’alto. Si guardò per un attimo alle spalle per assicurarsi che nessuno stesse seguendo prima di voltarsi e fare un timido passo avanti. Presto si ritrovò a salire le scale, fissando sbalordita gli affreschi sul soffitto e le incisioni sulle pareti. Passò una mano sulla pietra bianca che luccicava di minuscoli cristalli che brillarono quando la sua mano si mosse sopra di essi. Arrivata in cima, Carmen svoltò l’angolo e si fermò incredula di fronte alla magnificenza dell’atrio che colmava il piano superiore. Il soffitto era di vetro trasparente, alto quasi nove metri. Piante di ogni dimensione, forma e colore crescevano in un selvaggio abbandono. Carmen si voltò, cercando di guardare tutto contemporaneamente, ma c’erano troppe cose da vedere. Fiori brillanti pendevano dall’alto, e le liane di verdi, viola e rosa pulsanti si avvolgevano attorno a ulteriori statue di draghi e altre creature che lei non aveva mai visto. Percorse sentieri stretti, fermandosi sotto liane pendule, toccando fiori e sussultando quando questi si chiusero all’improvviso. Al centro dell’atrio si trovava una vasca rialzata. Piccole fontane a forma di uccello versavano acqua nella fontana. In fondo, l’enorme sagoma di un drago che giaceva sulla schiena con dell’acqua che usciva dalla bocca e scorreva sul ventre formava una piccola cascata. Carmen andò a osservare il suo riflesso nella superficie dell’acqua. La sofferenza la invase quando fissò occhi che un tempo brillavano di entusiasmo. Ora non vedeva altro che cupezza e dolore. Allungò la mano, smuovendo la superficie fino a far svanire il suo riflesso e poi sedette di nuovo sul bordo della vasca. Inclinò la testa per guardare il soffitto, non volendo incontrare di nuovo il proprio sguardo. Attraverso il vetro trasparente, riuscì a distinguere le immagini di veri draghi che volavano nel cielo. Circondandosi la vita con le braccia, si dondolò. “Oh, Scott, vorrei tanto che tu potessi abbracciarmi di nuovo,” bisbigliò bassa voce. Nonostante parlasse a voce molto bassa, il suono parve riecheggiare, sovrastando il rumore dell’acqua. “Ho tanta paura. Non so cosa fare.” Rimase seduta a lungo, lasciando che un piano dietro l’altro le attraversassero la mente nel tentativo di capire come avrebbe potuto tornare a casa. Li scartò a uno a uno quando si rese conto di non avere idea di dove si trovasse, né tantomeno di come pilotare una nave spaziale. La sua mano si spostò sul coltello che portava sempre con sé. Era quello da caccia di Scott. L’arma con cui avrebbe ucciso Cuello quando l’avrebbe trovato. Le sue dita passarono sull’impugnatura prima che lei li avvolgesse attorno a essa e lo estraesse. Manteneva la lama affilata come il bisturi di un chirurgo. Sollevata la mano, lasciò che la punta le tagliasse il palmo appena il necessario a far scorrere il sangue. Aveva bisogno di quel piccolo promemoria che era ancora viva, che aveva ancora la possibilità di completare l’ultimo compito che si era assegnata. Carmen sussultò quando udì un rumore di artigli che grattavano sulla pietra. Sollevandosi lentamente, rinfoderò il coltello e si guardò attorno. Qualcosa smosse le piante alla sua sinistra, per cui lei si mosse verso destra, cercando di frapporre il bordo della vasca fra sé e qualunque cosa fosse diretta nella sua direzione. Barcollò all’indietro quando la sagoma di un enorme drago dorato apparve. Dei colori vorticavano attraverso il corpo dorato, cambiando mentre la luce dall’alto si rifletteva sopra di essi. “Fuori da qui,” disse Carmen con voce bassa e severa. “Fuori! Subito,” ripeté. Non aveva la stessa affinità con gli animali di sua sorella. Ad Ariel bastava guardare un leone di montagna perché la bestiaccia si mettesse a fare le fusa e si lasciasse coccolare. Nella stessa situazione, Carmen sarebbe finita nella pancia della belva. Aveva visto creature simili a bordo della nave da guerra. Gli uomini le chiamavano “simbionti.” Sembravano avere una sorta di legame simbiotico con quelle creature. L’unica cosa che le interessava era che, se quella cosa era lì, era possibile che l’altra metà non fosse lontana. Per quello che la riguardava, ciò era un problema. “Via. Sciò!” esclamò Carmen, cominciando a sentirsi un po’ nervosa quando la creatura fece un altro passo verso di lei. Il simbionte sollevò l’enorme testa nell’aria e diede l’impressione di annusare qualcosa. Carmen lo guardò abbassare la testa fino a quando essa non si fermò al suo fianco. Seguì la linea di vista della creatura dorata e imprecò nell’accorgersi che aveva lo sguardo fisso sulla sua mano. Il sangue si accumulava all’estremità delle dita, scorrendo da dove lei si era tagliata il palmo. Carmen chiuse il pugno nel tentativo di evitare che il sangue gocciolasse, ma era troppo tardi. Una gocciolina si aggrappò cocciutamente prima di cadere sul pavimento di pietra bianca immacolata. Carmen sollevò di scatto la testa quando avvertì lo spostamento d’aria nel momento in cui la creatura reagì al sangue. Ebbe un sussulto di stupore perché il simbionte proiettò un filamento dorato, che si avvolse attorno alla sua mano ferita. Carmen reagì subito, cercando di infrangere la presa della creatura. Più lei lottava, più l’oro vorticava attorno a lei, stringendola nei suoi tentacoli fino a immobilizzarla. Si rifiutò di cedere. Se quello era il modo in cui doveva morire, che così fosse. I suoi occhi brillarono ferocemente per un attimo prima che lei li richiudesse e visualizzasse un’immagine di Scott. Il ricordo dei capelli castano chiaro di lui che si arricciavano alle estremità dopo che aveva fatto la doccia brillò e si solidificò. Carmen abbracciò quella memoria, stringendola a sé fino a sentirsi avvolta ancora una volta da calore e amore. Rammentò gli allegri occhi verdi dell’uomo mentre le facevano passare la rabbia. Rievocò il modo in cui lui faceva teneramente l’amore con lei di fronte al caminetto della casetta che avevano comprato nella loro cittadina natale. Ricordò lui che la stringeva come se non volesse lasciarla andare mai più quando Carmen aveva scoperto che i suoi genitori erano morti in un incidente. E riportò alla mente l’espressione di pura meraviglia quando lei glielo aveva detto… Dolore e lutto la invasero all’improvviso, al punto che si chiese se quella creatura si sarebbe davvero prese la briga di ucciderla. Aveva la sensazione di stare morendo di nuovo, proprio lì. Le sfuggì un basso suono disperato mentre il dolore diventava intollerabile. Aprì gli occhi e fissò nelle scure fiamme dorate che ardevano negli occhi della creatura. La guardò implorando silenziosamente pietà. “Ti prego,” bisbigliò Carmen. “Ti prego. Non voglio più vivere. Mi fa troppo male. Ti prego, dammi la pace,” implorò sommessamente.
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