2.
La macchina che si era fermata davanti alla centrale di polizia di Reston aveva attirato gli sguardi di un bel po’ di curiosi, tra cui quelli dell’agente all’accettazione, che dal suo bancone non si era fatta scappare un dettaglio.
Era una Bentley color crema, grande più o meno come una casa, che si era accostata silenziosamente al marciapiede, i vetri oscurati ben chiusi.
Dal posto del guidatore era spuntato niente meno che un autista in livrea, che aveva fatto il giro di quella specie di monumento ed era andato ad aprire la portiera del passeggero.
L’ispettore si aspettava come minimo di vedere il primo ministro, invece era scesa una donna piuttosto giovane, piuttosto magra e non molto alta.
La donna si era riparata dalla neve sotto l’ombrello che reggeva l’autista, si era messa a tracolla una cartella di cuoio marrone e puff, puff, puff, aveva saltellato su per i tre gradini dell’ingresso avvolta in una nube di charme. L’agente aveva notato che aveva i capelli chiari annodati elegantemente dietro alla testa, dei mocassini bassi dall’aria costosa, un paio di pantaloni di maglia color crema a gamba larga (che probabilmente facevano parte di un completo) e un cappotto a metà coscia beige, stretto in vita, che le vestiva a pennello. L’agente stava giusto cominciando a mangiarsi le unghie dall’invidia, quando quella specie di apparizione haute couture si avvicinò al suo banco dell’accettazione, sorridendo educatamente.
Così, mentre la donna le diceva di avere un appuntamento con il sergente Fillmore, l’agente poté notare che aveva un viso dai lineamenti regolari, uno sguardo verdastro e distaccato e la pelle poco truccata priva di imperfezioni.
«Primo piano, ufficio 104» la informò, guardando fisso gli orecchini dell’altra.
Erano due semplici pietrine chiare. Diamanti, diagnosticò l’agente.
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Alexandra uscì dall’ascensore e si guardò prima a destra e poi a sinistra. Scorse l’uscio dell’ufficio 104 e si diresse da quella parte. Dal fondo del corridoio la fissava una donna sulla sessantina, seduta a una scrivania adornata di un minuscolo alberello natalizio verde e rosso.
«Buongiorno» la salutò cortesemente Alexandra. «Ho un appuntamento con il sergente Fillmore, posso?» continuò, indicando la porta dell’ufficio.
«Si accomodi» rispose la segretaria, facendole un sorriso di incoraggiamento.
Alexandra bussò.
«Avanti!» rispose una voce tonante, dall’interno. Sì, era proprio la voce del suo bizzarro ospite di quella mattina.
Entrò in una stanza corta e stretta, strapiena di oggetti di ogni tipo, fredda e puzzolente di fumo. Il sergente Fillmore era seduto su una poltroncina di similpelle, il lungo naso ficcato dentro a una serie di incartamenti. Poco lontano, appoggiato al davanzale di una finestra aperta c’era un tipo alto e snello, vestito in modo molto formale e dai capelli neri. Alexandra immaginò che fosse lui ad aver aperto la finestra, considerando come cercava di respirare l’aria esterna.
«Oh, signora Röeten-Loewe!» esclamò Fillmore sollevando gli occhietti su di lei «È un po’ in anticipo?».
Alexandra guardò l’orologio. «Avevamo concordato per le tre, se non erro» disse.
«Accidenti! Sono già le tre?» fece l’altro. «Oh, be’. Lasci che le presenti l’ispettore Artington, della NCA».
L’uomo alto e snello si staccò dalla finestra e scavalcò un paio di scatoloni per andare a stringerle la mano. «Incantato» disse.
Alexandra inclinò la testa da una parte, come a studiarlo. «Artington…» mormorò. «Non sarà per caso parente di Carl Jonathan Artington?».
L’altro la guardò stupito. «In effetti era mio padre».
«Oh» fece Alexandra. «Non sapevo che fosse scomparso. Mi dispiace».
L’altro si strinse nelle spalle. «Sono passati molti anni. Lo conosceva? Anche il suo nome mi ricorda qualcosa».
«Mio padre conosceva suo padre, ispettore Artington. Io ero una bambina. Mi pare che gli assomigli molto».
«È probabile» concordò l’ispettore, affabile, ma Alexandra ebbe l’impressione che tutta quella somiglianza non gli fosse particolarmente gradita. Senza lasciarle modo di continuare con i convenevoli iniziò a sgomberare una vecchia seggiola traballante da un mucchio di libri, deponendoli via via sul pavimento. Fillmore sembrava indifferente a che Artington stesse modificando a suo piacimento l’assetto del suo ufficio.
«Si accomodi» finì per dire l’ispettore, offrendole un sorrisino a metà strada tra il rammarico e il divertimento. Alexandra si sedette con prudenza e aprì la cartella di cuoio.
«Dalla Reston Civic Mental Health House, dopo una certa resistenza, mi hanno inviato la cartella medica di Pamela Stones…» iniziò, sfogliando alcuni incartamenti. «La loro diagnosi è di sindrome da conversione post-traumatica con mutismo e ritiro psicotico. Ho parlato al telefono con il dottor Aaron Melitto, che ha in cura Pamela, e che mi ha spiegato nel dettaglio la sintomatologia della ragazzina. Mi conferma che potrò vederla oggi alle cinque, sergente Fillmore?».
Lui annuì, prese in mano la sua pipa e fece per riaccenderla.
«Si trattenga per qualche minuto» disse Artington, in tono dolce, ma deciso. Fillmore, di malumore, la riappoggiò.
Alexandra parve non accorgersi di niente.
«Mi potrebbe spiegare con maggiore precisione che cosa vorreste che io faccia?» chiese, invece.
«Senta. Quella ragazzina è scomparsa da casa per una settimana. È riapparsa scalza e senza cappotto vicino a un’area di servizio e nessuno è riuscito a cavarle di bocca qualcosa. So che è praticamente Natale e tutto quanto, ma adesso un’altra ragazzina è scomparsa…»
«Naturalmente» lo interruppe la donna, con un sorriso gentile. «Ma… mi scusi per l’insistenza, non credo di poterla aiutare in alcun modo, se non mi mostra il fascicolo».
Fillmore la fissò interdetto.
«Io lavoro in questo modo» sembrò quasi scusarsi Alexandra. «Sono disponibile a firmare qualsiasi documento che mi vincoli alla confidenzialità».
Fillmore rise. «No, no. Lei non capisce. Non abbiamo proprio un accidenti di niente».
«In che senso, scusi?».
«Non sappiamo in che punto Pamela sia scomparsa… non sappiamo proprio un cavolo. Il succo è questo: se lei non si fa dire che cosa le è successo, siamo fregati. L’altra ragazzina, Timothea Brown, è scomparsa nello stesso modo. Non si sa che fine abbia fatto, sembra che si sia volatilizzata!»
Alexandra si accigliò.
«Qual è l’ultimo punto in cui è stata vista?».
«Con certezza, a scuola. Ma poi non siamo riusciti ad avere la sicurezza che sia salita sull’autobus per tornare a casa. Vede, usava le linee pubbliche, non lo scuolabus».
«Ah» fece Alexandra.
«E perché non usava lo scuolabus?» chiese Artington, innocente.
«Perché quello è per i bambini piccoli… o, almeno, così mi hanno detto. Io non li posso sopportare i bambini».
Gli altri due accolsero l’informazione in silenzio.
«Non le… ehm. Non le hanno fatto niente di male, giusto?» chiese alla fine Artington.
«Non sembra. Le hanno fatto un check-up, naturalmente, ma a parte una lieve disidratazione sembrava in buona salute. Ma non parla, quindi non credo che stia tanto bene».
«E chi l’ha trovata?».
«Il benzinaio della stazione di servizio l’ha vista vagare. Si è ricordato della foto sui volantini e ha chiamato la polizia. Non sa come sia arrivata lì. Non si ricorda di averla vista scendere da nessuna macchina».
«Era a piedi scalzi, ha detto?».
«Sì. Ed erano anche abbastanza puliti, credono».
L’ispettore alzò un sopracciglio. «Credono?».
«Sì, ecco… l’agente che l’ha prelevata ha pensato bene di pulirglieli un po’, prima di farla salire in macchina».
«Pulirglieli?». Artington sembrava attonito.
«Sì, maledizione! Con uno straccio che aveva in macchina. Impossibile capire quale sporco venga dai piedi della bambina e quale da chissà dove».
«Mah…» fece l’ispettore «…più che altro non capisco come gli sia venuto in mente di pulire i piedi a una ragazzina appena ritrovata dopo una settimana, che non parlava, che non aveva reazioni…»
«Avrà pensato che non voleva sporcare l’auto di pattuglia» ipotizzò Fillmore.
L’altro gli lanciò uno sguardo interdetto, come se l’idea lo lasciasse senza parole.
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Uno dei vantaggi che Fillmore aveva ottenuto con l’esercizio pluriennale del suo talento per le buone maniere e la temperanza era quello di avere un autista neanche si trattasse del capo della polizia.
Così, mentre un giovane agente guidava una Vauxhall senza contrassegni e piuttosto scassatella lungo le strade periferiche di Reston, Fillmore e Artington se ne stavano sprofondati nel sedile posteriore, le molle sporgenti dell’imbottitura piantate nelle ossa – nel caso di Artington – o nella ciccia – nel caso di Fillmore. Ogni cosa era coperta dalla coltre bianca della neve e le luminarie natalizie mandavano i loro barbagli dorati sopra le strade e ai balconi.
«Secondo lei quanto può costare una macchina del genere?» sbottò a un certo punto il sergente, continuando a guardare quasi rabbiosamente la Bentley color crema che li precedeva.
Artington gli lanciò uno sguardo divertito.
«Non so, Fillmore. Con il mio stipendio di sicuro non me la posso permettere».
Le sopracciglia cespugliose dell’altro si incontrarono nel mezzo della sua ampia fronte. «Il che significa, presumo, che io non la posso nemmeno sognare».
«Dormire, morire, sognare forse…» mormorò Artington, palesemente fuori registro. Aveva assunto quella particolare aria sognante, appunto, che Fillmore collegava ai suoi momenti di più intensa riflessione. Decise che non era il caso di provare a conversare oltre. Magari poteva uscirne qualcosa di buono.
Seguirono silenziosamente, quindi, la lustra Bentley di Alexandra Von Röeten-Loewe fino al cancello in ferro battuto della Reston Civic Mental Health Home, finendo per parcheggiarle accanto nel parcheggio di asfalto screpolato e ancora da ripulire dalla neve della clinica.
L’autista della donna si affrettò ad aprirle la portiera e a darle riparo sotto al suo ombrello, mentre quello dell’auto-civetta non fu altrettanto solerte.
«Avresti qualcosa da imparare da quello!» borbottò Fillmore al giovane agente, spingendo la sua grossa massa fuori dall’auto e tirandosi su con ostentazione il bavero del vecchio cappottone grigio. Artington, dal canto suo, scivolò fuori con la fluidità felina che gli apparteneva, apparentemente rapito dalla lenta caduta dei fiocchi di neve.
Non appena il gruppo si fu riunito si diressero verso l’entrata principale della clinica. «Spero solo che non facciano storie» commentò il sergente, spingendo la porta a vetri con malagrazia ed entrando per primo.
Artington, silenzioso, tenne la porta aperta ad Alexandra Von Röeten-Loewe ed entrò anche lui.
L’interno della clinica era bianco-verdognolo e l’odore di disinfettante era abbastanza forte da stendere le mosche in volo. In compenso qualcuno aveva addobbato le pareti spoglie con sgargianti nastri natalizi dorati, che però tendevano a cadere sulle pareti come liane nella foresta pluviale. Rispetto all’esterno la temperatura era soffocante. Un’infermiera che competeva in massa con il sergente gli si piazzò davanti, sbarrandogli la strada.
«L’orario delle visite è terminato!» gli urlò nelle orecchie, abbastanza forte da farsi sentire in tutto il corridoio.
La fronte di Fillmore assunse un’intensa sfumatura color pulce, mentre estraeva dalla giacca spiegazzata il suo distintivo.
«Non credo proprio!» sbraitò, evidentemente deciso a farle vedere che la poteva battere non solo nella stazza, ma anche nei decibel emessi. «Anzi, sarà meglio che chiami subito il dottor Melitto!».
L’infermiera, travolta dall’onda d’urto, rinculò prontamente verso il bancone e sollevò il telefono l’aria scettica.
Dopo una decina di minuti di paziente attesa, finalmente si fece vedere un giovane uomo dalla faccia mal rasata e dal passo strascicato. Fillmore, che stava lottando con un distributore di caffè istantaneo, mise fine con flemma alle operazioni e squadrò il medico con aperta diffidenza.
L’altro, per tutta risposta, finse di non notarlo e si rivolse direttamente a Artington.
«Che cosa desiderano?» chiese.
Artington sorrise urbanamente, estraendo un portadocumenti in pelle dalla tasca interna della giacca e facendolo balenare sotto il naso del dottore.
«D.I. Artington, NCA» disse, con voce flautata. «La signorina Pamela Stones è sua paziente?»
«Sì. Non può ricevere visite, al momento».
«Oh, è un vero peccato, dottor Melitto...»
«Già, provate tra qualche giorno» lo interruppe il medico, con aria scostante, «anche se dubito che vi potrà dire qualcosa».
Stava per voltarsi e tornare alle sue occupazioni, quando si accorse che una mano piuttosto salda lo faceva nuovamente ruotare verso i suoi interlocutori. Le sue sopracciglia si aggrottarono come a preannunciare tempesta.
Artington ritrasse la mano e si sistemò il nodo della cravatta, come se l’intenzione di tutto il movimento non fosse altro che questa.
«Stavo dicendo, dottor Melitto, che è un vero peccato che questa sia la sua opinione, perché purtroppo, invece, faremo in un altro modo».
Il medico sbatté velocemente le palpebre, confuso.
«Sì, vede…» andò avanti Artington, sempre con quel suo modo educato e di leggera scusa. «Abbiamo convenuto che la signorina Stones, da oggi in avanti, sarà seguita personalmente dalla dottoressa Röeten-Loewe, nostra consulente, che ci risulta essere una vera autorità in materia.»
L’altro fece per aprire bocca, ma Artington lo ignorò. «Vede, la dottoressa Röeten-Loewe ha una grande esperienza nel campo delle sindromi con mutismo. Si è laureata in medicina summa c*m laude a Oxford, con una tesi sugli effetti della somministrazione di L-dopa ai pazienti catatonici, si è specializzata in psichiatria a pieni voti e ha anche una seconda laurea in psicologia dello sviluppo. Ha partecipato a numerosi seminari sul trattamento dei pazienti autistici con metodi all’avanguardia e…» non solo il dottore, ma anche Fillmore lo stava guardando con gli occhi fuori dalle orbite «…insomma, non voglio tediarla con le questioni accademiche. Le basti sapere che la dottoressa ha tutto il nostro appoggio e che il suo interessamento gioverà a noi quanto alla paziente. Inoltre abbiamo l’ordinanza di un magistrato. Se non ci sono domande, quindi, sarebbe così gentile da accompagnarci fino alla sua stanza?».
«M-ma…» Melitto stava evidentemente cercando di riorganizzare il suo discorso dopo il fiume di educate parole che l’avevano investito.
«Oh, ma che sbadato, sergente!» lo interruppe nuovamente Artington, con aria contrita, «Dimenticavamo di mostrargli il foglio di consenso della famiglia Stones».
Sorrise dolcemente, mentre Fillmore tirava fuori da una tasca un foglio un po’ spiegazzato e lo porgeva al medico.
«Se vuole farci strada…»
Mellito, le labbra sottili come linee, si voltò senza una parola e si incamminò lungo un corridoio.
Gli altri tre gli si piazzarono alle costole. Fillmore continuava a guardare l’ispettore con gli occhi fuori dalle orbite.
Lui, dal canto suo, senza badargli minimamente, si voltò verso Alexandra Von Röeten-Loewe e la gratificò di un sorrisetto timido.
«Non sono uno stalker, ho solo una buona connessione mobile».
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Artington stava piegando i suoi effetti personali con puntiglio irritante e li stava riponendo con calma nei cassetti dell’armadio della suite che aveva occupato al penultimo piano del miglior albergo di Reston. Fillmore, affondato in un angolo del letto, lo guardava fumando. Non capiva come un ispettore potesse permettersi una tale sistemazione, ma aveva già notato durante la visita precedente che Artington sembrava preoccuparsi molto poco dei soldi che spendeva.
«Senta un po’, se la venissi a trovare a Londra mi dovrei aspettare una specie di castello tipo quello della Röeten-Loewe?».
Artington si voltò e lo guardò con aria perplessa.
«Non ho mai visto la residenza in questione» disse dolcemente, riprendendo a sistemare i suoi vestiti, «ma se mi sono fatto un’idea del tipo, non credo proprio».
«Dio, inizio a sentirmi l’unico spiantato della situazione!» rincarò l’altro.
Artington rise.
Il sergente sbuffò, si alzò in piedi e cominciò a gironzolare nella stanza da letto. Dopo poco meno di un minuto sembrò ritenere l’esercizio sufficiente e si lasciò ricadere a sedere, questa volta su una poltroncina.
«Come faceva a sapere tutte quelle cose sulla dottoressa?» decise di cambiare argomento.
«L’ho cercata su mednet» rispose l’altro.
«E che cos’altro sa?»
Artington si strinse nelle spalle. «Non molto di più di quello che ho detto a Mellito, in realtà. Ma perché è così interessato?».
«Quella donna è strana. Quanti anni ha, per esempio?»
«Boh? Intorno ai trenta?».
«E come ha fatto a prendersi tutte quelle lauree?»
«Probabilmente ha seguito i corsi contemporaneamente».
«Visto? Un maledetto freak. È quello che dicevo!»
Artington si voltò lentamente verso di lui. «Anch’io ho preso due lauree contemporaneamente» disse, reciso.
«Ah sì? E in che cosa?» chiese l’altro, del tutto immune a qualsiasi forma di imbarazzo.
«Giurisprudenza e linguistica».
«Linguistica? Vuol dire che parla qualche lingua strana?»
Artington sorrise. Era completamente impossibile tenere il muso a Fillmore per più di qualche secondo. «Parlo alcune lingue straniere, sì, ma la linguistica si occupa di studiare le lingue in generale… i ceppi comuni da cui originano, le corrispondenze e le strutture grammaticali, l’evoluzione della lingua nei secoli… roba del genere, insomma».
«E che cosa c’entra, questo, con giurisprudenza?».
L’altro tentennò. «Immagino che più che altro abbia fatto felice mia nonna. Ci teneva molto che non disperdessi la mia cultura umanistica». Non sembrava esserci ironia nelle sue parole.
Fillmore aveva un’altra domanda in punta di lingua, ma il suo ospite in quel momento si alzò con un sorriso soddisfatto.
«Ho finito» gli comunicò. «Grazie per essere stato così gentile da aspettarmi. Potremmo andare a sentire se ci sono progressi, adesso?».
Fillmore lo guardò come se fosse un alieno. «Personalmente metterei volentieri qualcosa sotto ai denti».
Artington rise. «Giusto. A volte mi dimentico di mangiare».
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«Non vi aspetterete dei risultati in un giorno, immagino».
Alexandra Von Röeten-Loewe li guardava in quel suo modo distaccato, ma gentile, come se avesse a che fare con due dei suoi bambini difficili.
Artington scosse la testa.
«Non servono grandi chiacchierate» puntualizzò Fillmore. «Ci va bene anche un disegnino di dove è stata».
«Be’, mi dispiace, ma per il momento i disegni di Pamela non assomigliano a nulla del genere. Dovete capire che per queste cose ci vuole tempo».
«Lo capiamo» disse Artington.
Fillmore sbuffò. «Lo capiamo, ma c’è un’altra bambina scomparsa, dottoressa».
«Ne sono consapevole. E mi rendo conto che sia frustrante. Purtroppo non posso che chiedervi di attendere e fidarvi del mio giudizio».
«Ci fidiamo» disse Artington. Alexandra aveva l’impressione che se anche non si fosse fidato lei sarebbe stata l’ultima ad accorgersene. Il Detective Inspector era educato al limite dell’arrendevolezza, ma il modo in cui aveva trattato Mellito le aveva fatto capire che non era il caso di prenderlo sottogamba.
«Ci fidiamo, per il momento» grugnì Fillmore. Da lui, al contrario, Alexandra non si aspettava sorprese.
Artington si alzò in piedi e le porse un biglietto da visita.
«Questo è il mio numero. Sarò fuori città fino a domani sera. Se succede qualcosa mi avverta».
«Che cosa?». Anche Fillmore si alzò, con uno scatto del quale nessuno lo avrebbe ritenuto capace. «Che cosa!» ripeté a volume ancora più alto. Artington era l’uomo delle sorprese dell’ultimo minuto. Che diavolo significava che sarebbe stato fuori città per un giorno? Aveva appena finito di mettere la sua roba nell’armadio!
«Arriva qua, assume il comando delle indagini, spinge, minaccia, strepita… e adesso se ne va?!».
L’ispettore gli rivolse un’occhiata calma.
«Motivi familiari imprevisti» spiegò, senza spiegare un bel niente. A quanto ne sapeva Fillmore Artington non aveva una famiglia.
«Sua nonna?» domando, quindi, sardonico.
Artington parve ghiacciarsi sul posto.
«Mia nonna gode di ottima salute, grazie».
Evidentemente non aveva voglia di parlare di fatti personali. Fillmore alzò le mani a mo’ di scusa, dimostrando che non era intenzionato a insistere.
Artington, tornando ai consueti modi educati, fece un piccolo inchino e girò sui tacchi.