1.
Alexandra Von Röeten-Loewe non lavorava, naturalmente.
Non c’era da stupirsi: era semplicemente troppo ricca, di famiglia troppo antica, di indole troppo delicata, per farlo. Su questo tutti erano perfettamente d’accordo. Nessuno aveva mai pensato che fosse strano, discutibile, eccentrico.
In una nicchia dell’imponente ingresso della tenuta di famiglia chiunque poteva posare lo sguardo sul fragile arazzo della sua genealogia.
Sempre che riuscisse a individuarlo, visto che il faretto che avrebbe dovuto illuminarlo era rotto da molti anni. E sempre che ci si trovasse fisicamente nell’ingresso della sua tenuta.
Entrambe le condizioni non erano molto probabili, visto che lady Von Röeten-Loewe non era solita ricevere ospiti e visto che la nicchia era veramente molto scura a quasi tutte le ore del giorno.
Anche questo era naturale, pensò John Fillmore, aguzzando lo sguardo: la stoffa delicata dell’arazzo doveva patire i raggi del sole come tutte le stoffe antiche.
Si sporse ancora un po’ verso la nicchia, il lungo naso fremente per l’odore di polvere. I nomi dell’albero genealogico che riusciva a scorgere erano ricamati in un’elaborata grafia a filo d’oro, le lettere a stento riconoscibili.
C’erano il padre e la madre della signorina, i nonni, un gran numero di prozii e prozie. Man mano che si saliva risultava più difficile distinguerli nell’oscurità. Era ovvio che Eloisa Guillardini Von Röeten-Loewe (John si chiese oziosamente come la donna facesse a ricordare tutti i suoi cognomi) era di origini italiane. La nonna paterna, d’altronde, Gwen McAllister, doveva essere scozzese. Mentre la nonna materna rivelava nel suo, Genevieve Rochefoix, chiare ascendenze francesi.
John provò a decifrare i nomi dei bisnonni materni e paterni, appena più in alto e nemmeno a metà strada rispetto all’inizio dell’albero, e forse ci sarebbe anche riuscito, malgrado l’oscurità si infittisse, se il contatto di una mano sulla spalla non l’avesse fatto sobbalzare.
Si voltò di scatto, un’involontaria espressione di colpa stampata in faccia, e si ritrovò a fissare un uomo vestito di nero, dalla candida camicia bianca e dall’insolito farfallino verde bottiglia.
Socchiuse le palpebre insospettito, senza capire chi fosse quello strano individuo dalla faccia immobile.
«Mi scusi se l’ho disturbata, signore» disse l’uomo, movendo a stento la bocca in un sussiegoso mormorio dall’accento impostato, «ma la signorina adesso la può ricevere».
Un maggiordomo! pensò John, dandosi dell’idiota per non aver riconosciuto la professione del suo interlocutore. Fece un cenno d’assenso.
«Da questa parte, prego» gorgheggiò l’altro, incoraggiandolo a seguirlo.
John si mise alle calcagna del maggiordomo, che incedette a grandi passi silenziosi su per uno scalone di marmo e lungo larghi corridoi immacolati.
Usò il tempo di quella specie di scampagnata – John considerava innaturale compiere più di dieci metri a piedi – tentando di prefigurarsi l’aspetto della sua ospite.
Quando il professor Eliah Wittman gli aveva consigliato di rivolgersi a lei, John non aveva la minima idea di chi si trattasse. Da bravo piedipiatti aveva quindi svolto qualche veloce ricerca, venendo in possesso di una gran quantità di informazioni inutili, tra le quali annegavano alcuni (pochi) dati oggettivi.
Tra questi non c’era né una fotografia della donna successiva ai suoi dieci anni, né alcun accenno alla sua vita privata.
Per quel che aveva potuto appurare Alexandra Von Röeten-Loewe poteva benissimo passare tutto il suo tempo a dormire, senza mai uscire di casa.
Quando finalmente il maggiordomo si arrestò davanti a una massiccia porta di legno intagliato e bussò discretamente sullo stipite, John aveva ormai il fiatone.
E quando la porta fu aperta e poté lanciare una prima occhiata indagatrice all’interno, il poco fiato rimasto gli si strozzò completamente in gola.
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Alexandra Von Röeten-Loewe non si considerava troppo nobile, troppo ricca o di indole troppo delicata per lavorare. Ma si considerava troppo ricca per farsi pagare e sentirsi a posto con la coscienza, così le lunghe ore che passava aiutando i suoi pazienti figuravano sempre sotto alla voce “pro bono” presso i suoi datori di lavoro.
Con la polizia aveva già collaborato in un paio di occasioni, ma non era di certo la sua occupazione preferita. Normalmente aveva a che fare con persone ferite dalla genetica o dal destino, preferiva evitare quelle ferite da altri esseri umani, se poteva.
Ma quel giorno, dopo aver ascoltato la richiesta del sergente Fillmore, capì di non potere.
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Reston, Regno Unito, contava poco più di cinquantamila abitanti. E tanti bastavano a rendere le giornate dei membri dalla polizia locale più interessanti di quanto avrebbero voluto. C’erano un paio di quartieri che avrebbero fatto sfigurare Peckham e Brixton. Un distretto economico che era l’habitat ideale per lo sviluppo dei più intricati crimini dei colletti bianchi. Un’ampia e sonnacchiosa suburbia di case mono e bi-familiari che invitavano a nozze i ladri. E un centro storico di stradine intricate e sempre dannatamente troppo scure, perfettamente adatte agli stupri e alle rapine.
Al Detective Inspector James Artington della NCA, pertanto, era già capitato una volta di vedersi spedire in quell’apparente oasi ecologica del nord, esperienza da cui aveva tratto la conclusione che la tranquilla cittadina sul Wayton era tutt’altro che da sottovalutare.
Alla sua prima visita si era trovato coinvolto nel primo caso autoctono di serial-killing. Il fatto che in zona non ci fossero precedenti non aveva certo reso l’assassino più timido e sprovveduto di un suo collega di una grande città, anzi: il Carpentiere, com’era stato denominato dalla Reston Gazzette per il suo simpatico vezzo di crocifiggere le vittime su due assi incrociate ad X, si era dimostrato un intenditore di crudeltà ed efferatezza all’altezza della più nera casistica internazionale.
Il che si coniugava perfettamente con i gusti personali di Artington.
Durante lo stesso caso il longilineo ispettore aveva anche avuto modo di conoscere e, dopo una prima fase di ambientamento, apprezzare il sergente John Fillmore, una specie di istituzione cittadina.
Entrando di soppiatto nella centrale di polizia di Reston e infilandosi non visto su per le sciatte scale in fondo all’atrio, Artington, quindi, aveva un’idea piuttosto precisa di che cosa aspettarsi.
Era assolutamente improbabile che nei tre anni trascorsi dall’ultima volta che si erano incontrati il sergente Fillmore fosse in qualche modo cambiato.
Per questo, quando entrò silenziosamente nell’ufficio del sergente, non fu affatto sorpreso di trovarsi di fronte a uno spettacolo che ad altri sarebbe sembrato insolito.
Innanzitutto l’angusta stanzetta strapiena di oggetti era letteralmente immersa in una coltre di fumo. Le pigne di incartamenti pericolanti, le scatole di cartone che contenevano reperti mai riconsegnati al magazzino, i bizzarri memorabilia che si affastellavano ovunque e la malconcia scrivania straripante carte, emergevano indistinti come fantasmi nella nebbia.
La stessa imponente figura acciambellata nella consunta poltrona in finta pelle al centro della stanza appariva sfocata, immobile se non per le volute di fumo che sbuffava, movendo appena l’aria sopra la sua testa.
John Fillmore era un uomo sulla quarantina, dal corpo decisamente tondeggiante e un po’ budinoso, la faccia contornata da una serie di morbidi doppi-menti e lo sguardo acuto e benevolente. Aveva un naso piuttosto importante, aquilino e dalle froge spesso frementi, e una fronte alta e levigata.
Il suo corpo portentoso era a suo agio in un completo color ruggine di pessima fattura e i suoi piedi sproporzionatamente piccoli calzavano un paio di consunte scarpe di pelle marrone dall’aspetto comodo.
Nel momento in cui Artington si chiuse dolcemente la porta alle spalle i piccoli occhi scuri del sergente gli si puntarono addosso e il suo corpo tremolò, come scosso dall’emozione.
«Questa sì che è una sorpresa!» esclamò, togliendosi la pipa accesa dalla bocca. «Anche se non è del tutto inaspettata» aggiunse, più pensieroso.
Artington si affrettò a scavalcare gli oggetti che si frapponevano tra lui e la finestra e la spalancò, aspirando l’aria gelida dell’esterno con evidente soddisfazione.
«Vedo che non ha perso la pessima abitudine di avvelenare l’aria con i suoi miasmi, né di ignorare le prescrizioni anti-fumo degli uffici pubblici» disse, ridendo.
«Né lei smette di insinuarsi qua e là come un ladro» replicò altro, appoggiando la pipa accanto a sé, proprio sulla cima di un’instabile montagnola di libri.
Poi si guardò attorno un po’ spaesato, come se cercasse qualcosa che non trovava. «Ehm… le offrirei una sedia, ispettore Artington, ma temo che non ve ne siano».
«Sto bene qua dove sono, la ringrazio» si affrettò a aggiungere lui, chiaramente spaventato dall’idea di allontanarsi dalla finestra aperta.
Fillmore ridacchiò. «Bene. Veniamo a noi, dunque. Il commissario Williams mi aveva anticipato che avrebbe chiesto l’aiuto della National Crime Agency, ma ignoravo che il detective incaricato sarebbe stato proprio lei».
Artington si appoggiò languidamente al davanzale della finestra, la snella figura resa ancora più sottile dalla luce di mezzogiorno che lo illuminava da dietro, solitari fiocchi di neve che gli cadevano alle spalle.
«Non vedo perché. Sono già stato qui in precedenza, conosco i luoghi…»
«Certo, come no» sventolò una mano Fillmore, come a dire che non si beveva le sue storie. Artington si limitò a stringersi nelle spalle.
«Parliamo del caso, allora» propose.
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Melissa Hank aveva visto benissimo l’uomo che si infilava disinvoltamente nell’ufficio di Fillmore e l’aveva anche riconosciuto.
Adesso stava meditando se entrare per offrire tè e pasticcini o rimanersene al suo posto. Sapeva che il Detective Inspector Artington l’avrebbe certamente apprezzato, ma sapeva anche di doversi attendere ululati di rimprovero da parte di Fillmore. Fillmore detestava essere interrotto, anche quando non faceva altro che starsene seduto nella sua sgangherata poltroncina a fumare come un turco. In effetti il suo ufficio era pressappoco off-limits per tutta la centrale, compreso il commissario Williams, e solo Melissa aveva di tanto in tanto il permesso di entrarci.
Melissa lo considerava alla stregua di una dispensa papale.
D’altro canto non c’era molto che le si potesse nascondere, dopo anni di fedele lavoro come segretaria, e nessuno, nemmeno Fillmore, osava dimostrarsi troppo severo nei suoi confronti.
Così, alla fine, decise che poteva permettersi di offrire un po’ di tè al bizzarro londinese, magari addolcendo Fillmore con la proposta di un buon whisky.
Scivolò via dalla sua scrivania e si avvicinò in punta di piedi alla porta del sergente. Decise che non era sicuramente il caso di bussare e, preso fiato, infilò rapidamente la testa nella stanza.
Fillmore era, come si aspettava, nella sua poltroncina, mentre l’ispettore Artington era appoggiato sul davanzale della finestra a braccia conserte.
«Che cosa ci fa lei qua?» le arrivò la voce chioccia del sergente, non appena ebbe fatto il suo ingresso. Non si era nemmeno dato la pena di voltarsi e quindi non si capiva proprio come facesse a sapere a chi si stava rivolgendo.
«Ho visto l’ispettore Artington che entrava, sergente, e ho pensato che avrebbe gradito una tazza di tè con qualche biscotto» replicò Melissa Hank, senza il minimo segno di contrizione, anzi, quasi in tono di sfida.
«Ma che idea gentile!» sbraitò Fillmore.
«Davvero gentile» fece eco Artington, in tutt’altro tono. «Sono felice di vedere che il tempo non passa per lei, signorina Hank».
Melissa si toccò con sussiego la stretta crocchia argentea, gongolando.
«Un po’ di tè sarebbe ben accetto, visto che si è offerta di portarcene una tazza».
«Sì, ispettore Artington» disse Melissa Hank, soddisfatta. «E lei desidera qualcosa, sergente? Magari un goccio di Glenn Grant?».
«Se proprio non può farne a meno» brontolò Fillmore, che però, come Melissa aveva previsto, si era un po’ raddolcito.
«Arrivano subito» cinguettò lei, e si richiuse la porta alle spalle.
Fatto questo trotterellò tutta soddisfatta verso il bollitore e lo riempì di acqua naturale in bottiglia. Sapeva che Artington era di gusti un po’ difficili e che non avrebbe apprezzato il sapore dell’acqua della boccia.
Era più o meno come se lo ricordava.
Alto e magro, con una strana grazia nei movimenti. Doveva avere meno di trentacinque anni, ma aveva uno sguardo serio che faceva pensare a quello di una persona più anziana. Il suo strano viso dai tratti incredibilmente regolari, un po’ allungato, gli occhi chiari e la pelle liscia e vellutata, in contrasto con i vestiti scuri e antiquati e con i capelli corvini, continuavano a darle la strana impressione di un bambino che si fosse travestito da vecchio.
Era però la persona più squisita e gentile che le fosse mai capitato di incontrare e talvolta il suo viso si modellava in una tale espressione di stupita innocenza che quasi ti veniva voglia di allungargli un cioccolatino di nascosto.
Proprio per questa ragione Melissa Hank pensò bene di appoggiare sul vassoio un piattino di cremini ricoperti di cioccolata, fatti in casa da lei stessa. Li avrebbe voluti portare alla nipote quella sera, ma che cosa importava? Quella bambina deliziosa ma capricciosa ne avrebbe tratto forse un decimo del piacere, rispetto all’uomo della NCA.
E Dio sapeva se quel povero giovanotto non sembrava aver sempre bisogno di un buon pasto!
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«E, insomma, le hanno consigliato di rivolgersi a questa Alexandra Von Röeten-Loewe» stava dicendo Artington, pensieroso, quando la segretaria entrò con il tè. «Non so perché, ma il nome non mi è nuovo. Grazie, signorina Hank. Il profumo è delizioso».
Fillmore si limitò a grugnire, prendendo dal vassoio il suo whisky e appoggiandolo in cima alla montagnola pericolante, accanto alla pipa.
«È l’ultima discendente o giù di lì di un’antica famiglia nobile, ma specialmente danarosa. Sono stato a casa sua questa mattina, sempre che si possa chiamare casa quella specie di reggia di Versailles nel mezzo del nulla».
Artington sorrise in modo accondiscendente, mentre la segretaria se ne andava.
«Mai visto niente del genere in vita mia. Giuro che nell’ingresso si potrebbe giocare a golf, se solo ci fosse l’erba!».
«Tutto il Regno Unito è pieno di queste antiche residenze nobiliari» si mantenne sul vago Artington.
«A Reston siamo boscaioli. No, non avevo idea che a quaranta minuti ci fosse la dannata Downton Abby». Fillmore diede una gagliarda boccata al suo bicchiere sventolando l’altra mano nell’aria «In ogni caso, il professor Wittman dice che fa parlare anche i muti, se le lasci abbastanza tempo, e Dio sa se non abbiamo bisogno che Pamela Stones ci racconti quello che le è successo».
«Quindi è… che cosa, una psichiatra?» chiese Artington, portandosi elegantemente alla bocca la tazza del tè.
«Una specie. Non esercita. Pare che abbia una serie di titoli di studio praticamente infinita, ma che non svolga proprio nessuna professione».
Artington fece un sorrisetto. «Andrebbe d’accordo con mia nonna» disse.
«A ogni modo» continuò l’altro, senza badargli, «Wittman sostiene che è veramente un’esperta nei casi di… aspetta, com’è che ha detto?».
Fillmore frugò in una vaschetta piena di carte fino a trovare un foglietto tutto spiegazzato.
«Catatonia, conversione isterica, mutismo nervoso… insomma, tutti quelli che non parlano, con lei finiscono per farlo. Wittman le aveva anche chiesto di esporre i suoi metodi a un convegno, ma lei si è rifiutata.»
«Curioso» commentò Artington, pressoché rapito nella contemplazione di uno dei cremini.