Capitolo terzo

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Capitolo terzo “Triora è la Loudun italiana, la Salem europea. Ma è più giusto dire che Loudun è la Triora di Francia e Salem la Triora del New England, poiché il celebre processo alle streghe si svolse a Triora nel 1588, e indubbia è la sua priorità cronologica, mentre in nulla è inferiore agli altri due in quanto a spaventosa tensione. D’altra parte, il borgo arroccato sulle montagne liguri è uno dei punti del pianeta in cui si rompe la maglia rassicurante intessuta dalla cultura illuministica e in cui le tenebre elementari emergono allo scoperto. Su tutta la superficie terrestre esiste una rete di luoghi segnati, e se ne potrebbe tracciare una mappa; gli incroci di sulfuree coordinate, gli aleph di cui non si dovrebbe parlare”. Quirino Principe, introduzione a Donne, diavoli e streghe nella biblioteca di Padre Angelico Aprosio a Ventimiglia, a cura di Antonio Zencovich, 1998 I Spartaco divorò le scale di Palazzo Stella con la fretta di sempre, incurante delle persone che incontrava. Desiderava rinchiudersi nel suo ufficio dal quale dirigeva tutte le operazioni, prima fra tutte quella di oliare gli ingranaggi della politica. Ogni giorno doveva leccare il posteriore al sindaco e ai suoi collaboratori. – Sì, signor sindaco. Certo, signor sindaco. Sempre a sua disposizione, signor sindaco – ripeteva in continuazione, mentre la bile gli pulsava impazzita. Masticava amaro nel prostrarsi in quell’umile servilismo, ma non aveva scelta. Era la prima volta che organizzava le celebrazioni di Strigora e desiderava non solo che ogni cosa fosse perfetta, ma straordinaria. Sarebbe stata una cupa e truce rievocazione del processo. Aveva reclutato la migliore compagnia di teatro disponibile ad inscenare il dramma. Varò la giornata con una telefonata alla segreteria dell’assessore al Turismo della Regione Liguria per chiedere la conferma della sua presenza a Triora. Odiava quei maledetti cerimonieri buoni solo a fare notizia presso la stampa. La diplomazia non era mai stata il suo forte, ma per necessità lo era diventata. Anche in questo caso sarebbe stato un tripudio di: – Certamente, signor onorevole – o di – Sono onorato, signor onorevole. – Sono disgustato da lei e da quella scopa secca della sua fottuta consorte – gli sarebbe venuto meglio. Dopo dieci minuti di attesa, rispose il segretario dell’assessore. – L’onorevole conferma la visita – lo stoppò il funzionario stizzito, prima che Ariberti aprisse bocca. – Ne sono onorato – rispose mentendo. – Disponga tutto il necessario per evitarci intralci. L’onorevole presenzierà all’inaugurazione della serata, ma non ha tempo di assistere allo spettacolo. – Pezzo di merda – pensò l’archivista, mentre rispondeva con un laconico: – Saluti l’onorevole da parte mia. Siamo a sua completa disposizione. Il segretario aveva già riattaccato. – Crepa – gli augurò Ariberti di cuore. Si accese una sigaretta, contravvenendo ad ogni regolamento della dimora storica nel quale era insediato il Centro Studi. Palazzo Stella era la sua reggia personale, e il Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria la creatura di cui andava fiero. In quelle sale la sola legge che conosceva era la sua e non un antiestetico cartello antifumo. Lucilla, la sua assistente, bussò alla porta. Un gran pezzo di figliola, mora, alta e dall’espressione assente. A diciotto anni era stata eletta Miss Badalucco, con somma gioia dell’interessata fagocitata da un turbine di speranze. L’estate successiva ad Alassio aveva concorso per Miss Muretto rimediando un ultimo posto. Subito le era fioccata una proposta per girare un porno casalingo. Da pochi mesi lavorava al Centro Studi. Sua madre era segretaria in uno studio di commercialisti a Taggia; il padre, in pensione, di giorno curava l’orto, la sera si rovinava alle slot-machine del Casinò di Sanremo. Lucilla era una brava ragazza, senza grilli per la testa: perfetta da avviare sulla strada della perdizione. L’archivista, relegato in apparenza ad una vita di ricerche, aveva un debole per le ragazze giovani e disponibili che a Triora erano merce rara. Averne una per segretaria gli allietava le giornate. Al di là delle dicerie di paese, Ariberti non aveva ancora osato un approccio con l’assistente, combattuto fra il desiderio e la paura di uno scandalo. In questo caso il vecchio Panzer diventava minaccioso quanto un panzerotto. II – Dottor Ariberti, è arrivato un fax per lei. Lucilla avanzò verso di lui. Indossava un tailleur nero che agli occhi di Spartaco faceva tanto porno segretaria. – Dia qui – rispose burbero. Amava incuterle timore. Lo lesse velocemente, rimanendo perplesso. Il mittente era Flavio Cortini, neo laureato in storia medioevale all’Università di Genova con una brillante tesi sul processo di Triora del 1587. Una raccomandazione lo spediva direttamente dall’ateneo al Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria per affiancare Spartaco nel dirigere le ricerche di storia locale. Flavio Cortini era nipote del presidente della Provincia di Imperia. Il suo arrivo andava meditato. Già a primavera, parlando con Benedetto Borelli, sindaco di Triora, aveva appreso dell’esistenza di questo secchione con mire da ricercatore. Già nell’occasione si era chiesto per quale motivo questo figlio di papà era così interessato a venire a Triora a rompere i coglioni. Ecco che l’ipotesi diventava realtà. Occorreva strategia per capire con chi avesse a che fare. Il fax annunciava il suo arrivo a Triora per il giorno dopo. A parte i convenevoli, la lettera terminava con una sviolinata che solleticò il narcisismo di Ariberti: “Mi pregio di porgerle i miei più distinti saluti, in attesa di conoscere un illustre studioso di fama quale è lei”. – Il ragazzo ha la favella lunga e contorta, ma almeno è di buone maniere – pensò. Mise il fax da parte sulla scrivania e si rilassò. Con lo sguardo abbracciò le volte di pietra del soffitto. Il suo ufficio godeva della vista sulla piazza della Collegiata, il cuore del borgo. Antistante il palazzo già troneggiava il palco per la rappresentazione teatrale. Aveva ideato uno spettacolo itinerante, che sarebbe iniziato nella parte nuova del paese per proseguire lungo i sentieri disabitati della Cabotina e culminare lì. Ariberti si sollazzava al pensiero della sua vittoria personale. L’euforia del momento fu turbata dalla visita del maresciallo dei carabinieri Guastatore, di nome e di fatto. – Maresciallo! – lo accolse Ariberti a braccia aperte solo per metà. – Dotto’ – si presentò il militare salutando l’archivista. – Qual buon vento? – domandò l’Ariberti fiutando un sentore di pessime notizie. – Buon vento non è la parola esatta. Rischiamo problemi di ordine pubblico. Ariberti fece finta di non sapere niente. – E io come posso esserle d’aiuto? – Stiamo registrando casi di molestie e di vagabondaggio. La gente si lamenta. Temo di dover informare il prefetto se la situazione peggiora – lo informò il militare vistosamente scontento. – Faccia quello che vuole. Io sono solo stato incaricato di organizzare la manifestazione. Se poi capita qualche balordo nel pubblico questo non è un affare che mi riguarda – rispose scocciato. Il maresciallo sapeva di aver a che fare con una serpe che godeva di amicizie influenti. – Io l’ho avvisata, dottore. Anche a me dispiacerebbe se la manifestazione venisse annullata. Ariberti girò i dadi in tavola, approfittando del suo interlocutore: un uomo a suo modo onesto, ligio al dovere, ma poco brillante quanto a intuito. – Vede! Siamo entrambi d’accordo. Ariberti era uno stratega nato. – Certamente con qualche controllo in più sono certo che riuscirete a tenere la situazione sotto controllo. Tenga duro ancora per qualche giorno e poi tornerete al vostro meritato riposo – aggiunse sornione. L’ultima frase era una plateale presa per i fondelli, ma il militare non la percepì come tale. L’archivista, con la stessa naturalezza di un boss della mala, si attaccò al vivavoce che teneva sul tavolo. – Lucilla, sveglia. Portami una grappa per il maresciallo. Spicciati – le ordinò. L’ospite in divisa mostrò segni di gradimento; un grande amore lo legava all’acquavite. Ariberti, con la sua calcolata ospitalità, sperava di tagliare la testa al toro. – Caro maresciallo si sieda e si prenda una pausa. In questi giorni ne abbiamo tutti bisogno. La vedo un po’ sbattuto… – disse simulando una sincera apprensione. Se fosse schiattato in quel momento avrebbe brindato. – L’appuntato Russo è in malattia e sono costretto a farmi i suoi turni – si lamentò, perdendo del tutto la dignità conferitagli dalla divisa. Ariberti sapeva di averlo in pugno. L’arrivo di Lucilla non passò inosservato: i suoi grandi seni calamitarono l’attenzione dei due uomini, allontanando definitivamente le questioni impellenti. Guastatore si tolse il cappello trangugiando il bicchiere sotto lo sguardo attento del padrone di casa. Forse la situazione non era poi così grave come sembrava... III Redazione di Sanremo del “Secolo XIX”, ore 13 – Chi non muore si rivede! – esordì Zaccaria, accogliendomi funereo. Per la seconda volta mi toccai, ricambiando il saluto. Mi sentivo sfiorare nuovamente a parole da sora morte. Non essendo un devoto di San Francesco la cosa non mi rallegrava. – Chi ti dice che non sia davvero morto?! Potrei essere il fantasma di me stesso venuto a darti l’addio – ironizzai grottescamente. – Solo l’addio? Niente affitti arretrati? Mi avvicinai sventolandogli una mazzetta di banconote con la quale saldavo ogni debito e gli ridavo il buon umore. Zaccaria si lanciò verso di me per tastarmi le mani. – Sei vero! Miracolo! – constatò alla maniera di San Tommaso, ma intascando i soldi alla velocità di Superman. Non avendo stigmate lo invitai a rialzarsi in piedi. Preferivo il ruolo di debitore a quello di salvatore. Mi sedetti alla sua scrivania. Cinquant’anni suonati, pettinato come Paul McCartney ai tempi di Liverpool, la faccia da volpe, Zaccaria era il proprietario del mio ufficio-abitazione. – Non mi offri niente? – gli chiesi da scroccone indefesso. Mi piaceva provocarlo nel vivo. Da ligure verace non brillava per generosità. – Ho del pollo fritto. È di due giorni – disse indicandomi un contenitore per alimenti appoggiato sul forno a microonde. Zaccaria era un fanatico della cucina precotta, nonché un attento risparmiatore. – Eccellente – dissi accontentandomi e godendo come dice il proverbio. – Allora, cosa mi racconti, detective? È un po’ che non ti fai vedere. Addentai un’ala del pennuto prima di arrivare al sodo. – Pare che più nessuno abbia più voglia di farsi l’amante. Sono due mesi che non pedino nessuno. – Si saranno fatti più scafati – obiettò lo scribacchino. – Come te, giusto? Toccai il tasto dolente. – Leonardo, sono nella merda – gettò la maschera, perdendo il sorriso che il mio denaro gli aveva dato. – Vuoi il salvagente? – chiesi improvvisandomi bagnino. – Helena, mi vuole ricattare. Minaccia di spiattellare tutto a mia moglie se non la pago. IV Ero venuto a chiedere aiuto a un amico e mi ritrovavo mio malgrado invischiato nei suoi problemi. Alzai gli occhi a cielo invocando l’inquilino del piano di sopra. Come al solito non rispose, facendo orecchie da mercante. Non potevo biasimarlo; negli ultimi tempi lo nominavo più del dovuto. Se lo facevo era perché avevo bisogno di lui. Tornai alle questioni terrene che impellevano. Zaccaria si distraeva saltuariamente con una ballerina bulgara che lavorava in un night della città. La bella di notte assomigliava ad un residuato bellico dell’ex Unione Sovietica, rimesso a nuovo e pronto per il mercato terzomondista. L’avevo vista una sera che Zaccaria mi aveva portato dove lavorava. – La sua parola contro la tua – dissi di primo acchito. – Le sue fotografie contro la mia parola – mi corresse. – Che tipo di foto? Per tutta risposta mi porse una busta. La aprii. La faccenda si complicava. La passione per la fotografia amatoriale stava per travolgere il novello Rocco Siffredi del Ponente Ligure. Apprezzai le qualità fotogeniche della bulgara, meno gli attributi all’aria di Zaccaria. Poteva proporsi come pezzo d’antiquariato alla fiera dell’Est, la stessa cantata da Branduardi. Gli proposi un’equa soluzione. – Se vuoi parlo io con la tua amica. Le mie qualità diplomatiche sono provate sul campo. – Di battaglia? – Anche su quello. La funesta fama di picchiatore sembrava perseguitarmi, nonostante i miei quotidiani propositi gandhiani. A Sanremo, oltre alla mia nomea di esperto d’arte e di indagini, passavo per uno dei migliori maestri di karate. Davo lezioni private alle mogli di facoltosi imprenditori che mostravano di gradire più l’insegnante che l’arte marziale. Il tutto accadeva alle spalle dei mariti che dopo avermi conosciuto, diventavano collezionisti: di corna, ma anche di quadri. Negli ultimi anni avevo venduto in zona qualche bell’Irolli, soprattutto coloratissimi “Mercati del pesce” e una decina di “Casinò” del monzese Pompeo Mariani. Tornai al presente: la situazione richiedeva polso. Messo alle strette dalla prospettiva del divorzio mi affidò la missione pregandomi di non torcerle un capello. Non mi entusiasmavano questo genere di questioni per un semplice motivo: il mio codice da moderno bushi mi impediva di usare le maniere forti con il gentil sesso. Unica eccezione alla regola era la mia ex moglie che godeva nell’essere sculacciata. – Non voglio casini. Desidero solo troncare e non vederla più – mi spiegò con voce tremante. Se la stava facendo sotto. Prima di andargli a comprare una scorta di pannoloni per incontinenti, gli offrii i miei servigi. – Dove abita? – Piazza Eroi Sanremesi, sopra la libreria. Citofono 69. – Un numero evocativo – Già. Se riesci passa prima delle 10 perché poi va al night a lavorare. – Farò quel che posso. Ma tu dovrai darmi una mano con il mio nuovo caso – contrattai finendo il pollo. – Di cosa si tratta? – Una ragazza scomparsa. Zaccaria alzò gli occhi al cielo cercando conforto. Entrambi volevamo Dio dalla nostra, un po’ come quando si va in guerra. Il primo che se lo accaparra è già a metà dell’opera. – Un’altra? Se vai avanti di questo passo ti spediranno a condurre Chi l’ha visto? – sentenziò sarcastico. – Se fossi in te chiuderei baracca e burattini e me ne tornerei a Milano a vendere quadri e a fare la bella vita – mi consigliò per l’ennesima volta. Non lo sentii neppure. – Ti dice niente il nome di Silvia Fossati? Zaccaria, detto il Pico della Mirandola della Riviera dei Fiori, stracciò sul tempo ogni motore di ricerca. Prima o poi l’avrebbero quotato in borsa come Google. – Agosto dell’anno scorso, prima settimana del mese, Triora. Impallidii di fronte a tanta prontezza. – Non ho finito. Se ne occupò Antonetto che non ne cavò un ragno dal buco. Solo qualche vaga pista. La davano invischiata in un giro di droga. – Potrebbe essere un inizio. – Inizio un cazzo, amico mio. Se fossi in te non mi illuderei di fare la scoperta del secolo. È passato troppo tempo. – Per me non fa differenza. Certe tracce rimangono, basta solo fiutare la pista giusta – dissi citando il Lapo nazionale. Anche Zaccaria vantava una certa esperienza in polveri bianche. – Se vuoi ti posso dare la rassegna stampa del caso. Per il resto parlerei con Gianluca, prima di buttarmi in un’impresa così disperata. – Se l’impresa è disperata, io non sono da meno. V Zaccaria afferrò il concetto. Si attaccò al telefono e radunò a rapporto i suoi sgherri dalla penna affilata. Tra questi rispose all’appello l’assonnatissimo Antonetto, un allampanato trentenne reduce da una nottata in discoteca. Dopo di lui si presentò Giorgio De Nicola detto il “negus”, inossidabile inviato per la cronaca nera. La voce tonante di Zaccaria resuscitò i presenti come le trombe della battaglia di Armageddon. Il John Travolta travestito da giornalista si destò dallo stato comatoso in cui versava per eseguire gli ordini. De Nicola rimase impassibile ad ascoltare le istruzioni impartite dal capo. Dopo venti minuti sul tavolo di Zaccaria si materializzò un soverchiante fascicolo messo a mia disposizione: tutti gli articoli e le notizie riguardanti il caso di Silvia erano lì per essere sfogliati. Zaccaria era soddisfatto. – Questo è il mio contributo alle tue indagini. Da dove pensi di cominciare? – Da dove è stata vista l’ultima volta. Zaccaria presagiva la mia strategia: ripercorrere gli stessi luoghi frequentati da Silvia prima di scomparire e lì cercare di ricomporre il puzzle. Quel pomeriggio prenotai una stanza all’albergo Colomba d’Oro di Triora.
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