Capitolo secondo

3087 Words
Capitolo secondo “Mio carissimo Cecchino, senza tanti preamboli ti dirò che domani sera 2 giugno 1874 alle ore 10 parto per Parigi. Ho fatto questa brillante risoluzione e la metto in atto con la massima velocità perché non avvenga un pentimento che mi faccia piantar le radici a Firenze. Non so quanto mi tratterrò nella grande città perché parto senza idee preconcette per cui abbandono l’avvenire in mano della mia dea protettrice – La Combinazione”. Da una lettera di Federico Zandomeneghi all’amico pittore Francesco Gioli I Sanremo, ore 9.30, Special Investigation Service. La desolazione del deserto dei tartari di Buzzati era nulla in confronto a quella del mio ufficio, a cominciare dallo scarno arredamento suggerito da una cronica penuria di money: tavolo Ikea (il più scadente), sedia finta pelle, recuperata da un’asta fallimentare di un alberghetto a ore di Diano Marina, pianta ornamentale di plastica, portafotografie con annessi ritagli di “Glamour”. Spacciavo patinate sventole per mie recenti conquiste. La sola ragione che mi inchiodava in quell’eremo di solitudine all’alba dei primi giorni di agosto era la mia ostinazione unita a un cliente che mi aveva contattato due giorni prima. Aveva letto la pubblicità dell’agenzia in quelle vetrine lerce che addobbano i sottopassi pedonali, adibiti a pisciatoi notturni, da me stesso collaudati in gioventù. La particolarità nasceva dal fatto che il cliente avesse letto quella pubblicità a Milano. Nemmeno mi ricordavo di aver pagato tre anni prima per comparire in una location di tale prestigio. Mancavano pochi minuti all’appuntamento. Mi sforzai di dare un tono all’ambiente riordinando le poche carte presenti sulla scrivania: le bollette della luce e del telefono, la lettera dell’avvocato della mia ex moglie e uno sconto di 20 euro da spendere nel sexy shop sotto casa. Feci sparire quei residuati di vita personale, non per amore dell’ordine, ma per salvare le apparenze. A volte è l’abito a fare il monaco e non viceversa. Misi da parte il buono acquisti, certo che l’avrei usato. Ero un grande estimatore del cinema hard in genere ed ero sempre aggiornato sulle novità. Il nome del cliente mi era famigliare, anche se non riuscivo a collegarlo a nulla: Pierleone Fossati. Avvocato. Avrei potuto chiedere ai miei abituali informatori in divisa, ma la fortuna mi era avversa: Gianluca Albanese, ispettore di polizia a Sanremo, era in ferie in Puglia. Il richiamo del paese natio era troppo forte per non tornarvi ogni anno. Senza di lui difficilmente avrei estorto informazioni in commissariato dove ero visto come la concorrenza, o peggio come un disgraziato. Forse lo ero. Due anni prima aveva risolto il caso della figlia di un imprenditore di Imperia rapita a scopo di estorsione. Una brutta storia maturata nel mondo dei produttori d’olio d’oliva taggiasca e della ‘ndrangheta calabrese trapiantata al Nord. Ne ero uscito vincente, liberando la ragazza e recuperando il malloppo sganciato dal padre. Come ricompensa mi ero visto recapitare a casa, da parte dell’industriale, due casse di extravergine e del buon paté d’olive per bruschette. Quello però era un passato archiviato, che mi aveva regalato una certa notorietà. “Detective-gallerista libera la figlia del re dell’olio” titolavano i giornali, osannando l’eroe del momento e omaggiandolo di interviste. In quel periodo ricevetti le offerte di lavoro più disparate: un ruolo nel film Il commissario Trombatutte, un porno casalingo di un regista emergente, un posto di guardiano su una piattaforma petrolifera nel Golfo Persico e infine il modello per un noto stilista italiano. La natura mi aveva dotato di un buon fisico sul quale avevo apportato sostanziali modifiche attraverso disumani allenamenti a base di pesi e arti marziali. Una volta solleticato il mio virile narcisismo, avevo accettato di provare anche l’esperienza di calcare le passerelle delle sfilate, dove ci provavo con tutte. Durai una stagione; tempo di annientare la mia invidiabile forma fisica da atleta con grandi bevute in compagnia di asettiche modelle che mi guardavano con orrore ingurgitare birra e crogiolarmi nel racconto di episodi poco edificanti della mia turbolenta vita. Chiusa la parentesi modaiola con una forma fisica perfetta per il seguito de Il piccolo Buddha, tentai il ritorno all’attività di detective, ma una volta calato il sipario il bis non era previsto. Fiorentini non ripete. Non mi era rimasto che relegare la mia vita spericolata ad un’attività part-time e a rivedere la mia opinione riguardo ad un mestiere sicuro. Dunque avevo fatto mio il lavoro di gallerista ed esperto d’arte; dirigevo infatti, insieme a mia madre, la blasonata Galleria d’arte Sacerdoti di via Sant’Andrea a Milano, ereditata da mio nonno. Costui, mosso dal sacro fuoco dell’arte, si era messo a vendere e comprare tele d’autore dall’età di sedici anni, lasciando le raccolte di figurine Panini ai suoi coetanei. Così nel 1950 aveva comprato la galleria per la gioia dei collezionisti dell’epoca. Oltre ad aver riempito di quadri le case della buona borghesia milanese, il mio avo aveva stipato anche la sua, lasciandomi una collezione d’eccezione che andava dalle tavole dei “primitivi” del XIII secolo ai maestri del XIX secolo. Edmondo Sacerdoti anche nel tempo libero pensava ai quadri, sua magnifica ossessione; io invece davo sfogo alla mia seconda identità, quella di investigatore privato. Ero nato rampollo di buona famiglia, ma spaventato dalle mie stesse origini benestanti. Questo di­sadattamento si era fatto vivo in me una volta raggiunta la maggiore età; ero un tipo tormentato, non solo a livello intestinale. Non volevo finire bollato come un ragazzo della Milano bene; solo il termine ipocrita mi provocava un urto di vomito. Desideravo conoscere i meccanismi dell’animo umano per dare a me stesso delle esaurienti spiegazioni che mi facessero vivere meglio. Per farlo non c’era facoltà di psicologia che reggesse né un libro di Freud da spulciare. Ai detective privati si rivolgono coloro che nella vita sono perseguitati dal dubbio: così, facilitato da una naturale predisposizione a vedere il marcio anche dove non c’era, mi ero messo a dispensare certezze, il più delle volte amare. Questa era la parte del lavoro che meno mi piaceva, soprattutto quando c’erano di mezzo gli affetti. Al contrario godevo un mondo nell’assistere a furibonde lotte tra avvoltoi per un’eredità o un gruzzolo di soldi. Giocare al detective mi piaceva e non solo perché avevo cominciato a indossare un Panama bianco d’estate e a impestare chi mi stava vicino con i sigari; alla ricerca di dipinti di Giovanni Fattori, Giorgio De Chirico e Giovanni Boldini avevo affiancato quella di persone scomparse, ma anche di amanti in fuga da occhi indiscreti. Non riuscendo però a sopravvivere solo con l’agenzia di investigazioni, mi dividevo tra Milano e la Liguria: dal lunedì al giovedì bazzicavo in galleria, i restanti giorni tornavo in Riviera a placare la mia sete d’avventura. Mi sentivo una specie di Magnum P.I. della mutua in perenne ricerca di un miliardario che mi ospitasse nella sua villa da sogno e mi desse la sua Ferrari da scarrozzare in giro. Nel frattempo mi ero dovuto accontentare di un modesto pied-à-terre a Sanremo in affitto e di una macchina di seconda mano. In Riviera avevo trovato anche una moglie, divenuta “ex” nel giro di tre anni. Ad infierire sulle mie velleità investigative da un mese a questa parte si era aggiunta la mancanza di clienti. Per fortuna in galleria c’era mia madre a mandare avanti la baracca e a darmi di che mangiare. Mentre lei furoreggiava sulla piazza milanese facendo schizzare alle stelle i prezzi degli amati Zandomeneghi, io faticavo a stare a galla. Con il mio attuale stipendio di spione non mi sarei potuto permettere neppure una “natura morta” di Luigi Bartolena, pittore post-macchiaiolo di quarta segata. Nonostante avessi allargato da mesi il mio campo d’azione, anche i cornuti che un tempo mi chiedevano di pedinare la moglie andavano rarefacendosi. Probabilmente la fedeltà era tornata in gran voga o i fedifraghi si erano fatti più scaltri. Brutto segno. Anche il collega savonese Daniele G. Genova, detective a tempo pieno, era latitante da tempo: da quando aveva cominciato a scrivere libri, il successo se l’era portato via. Un rapimento in piena regola. II Il campanello suonò distogliendomi dalle mie meditazioni da investigatore sull’orlo di una crisi di nervi. Aprii la porta. – Buongiorno. Sono l’avvocato Fossati. Ho chiamato due giorni fa – disse il nuovo arrivato radiografandomi. – Piacere avvocato. Si accomodi – contraccambiai allungandogli la mano e incontrando una stretta d’acciaio. L’uomo, alto e brizzolato, mi ricordava un grizzly. Si tolse gli occhiali da sole color petrolio e si accomodò sulla poltrona sprofondandoci dentro. Temetti che la struttura in materiale riciclato svedese cedesse. – Le anticipo che gli investigatori privati non mi vanno a genio. Mi sanno di gente inconcludente – esordì selvatico. – La sincerità è una dote che non le manca – osservai, trattenendo il giramento che la frase aveva sortito sui miei gioielli. – Infatti – puntualizzò saggiando il mio allenamento alla diplomazia. – Bene, allora mi chiedo cosa ci faccia qui. Non è un buon inizio – replicai più innervosito che incuriosito. – Non è un inizio, ma la fine. Lei è la mia ultima spiaggia. La frase suonò come un epiteto sepolcrale. Scaramanticamente mi toccai. – Veramente è lei la mia ultima spiaggia – replicai a me stesso, visto che ero al verde. – Si spieghi meglio. – Il nome di Silvia Fossati non le dice niente? Feci mente locale, ma senza i risultati sperati. – È scomparsa un anno fa. Inghiottita nel nulla. – Mi dispiace – dissi esalando pietà a fatica. Non credevo nella compassione ipocrita. Ce n’era già abbastanza in televisione. – Non si deve dispiacere. Silvia era mia nipote, figlia di mio fratello. Se sono qui è solo per rispetto all’anima sua. – Vuole che la ritrovi? – Ovvio. Anche se per me è morta dal giorno che è uscita di casa – Infanzia difficile?– gli chiesi sparando a caso. Il mio metodo investigativo era intuitivo e andava di pari passo ai miei stati d’animo. – Naturalmente. Trascorsa a vivere tra Montenapoleone e via Sant’Andrea a Milano – rispose ironico. Era chiaro che il nerboruto individuo non sapesse che il quadrilatero della moda di Milano, dove avevo la galleria d’arte, era la mia seconda casa. Mi resi conto che di ritrovare la nipote non gliene fregava niente. Era solo una pietosa questione di principio. L’avvocato era uno di quegli uomini all’antica o piuttosto uno stronzo come tanti. Si accese un Antico Toscano, il mio preferito. Quello fu il primo punto a suo favore: avevamo gli stessi gusti in fatto di tabacco. Me ne offrì uno e mi calai nei panni del detective navigato. Il secondo punto che ci accomunava era l’insofferenza verso la legge del ministro Sirchia. Di questo passo rischiavamo di diventare amici per la pelle. III Mi limitai ai fatti continuando con le domande di rito. – Dove è stata vista l’ultima volta? – A Triora – rispose scocciato, come se avessi dovuto conoscere i dettagli. – Il paese delle streghe – specificò disgustato. Anch’io conoscevo Triora per quella nomea. Era uno dei tanti borghi dell’entroterra sanremasco, pittoresco e traboccante di leggende acchiappaturisti. – Silvia aveva una morbosa passione per l’esoterismo. È la sola cosa che so. – Ha una sua foto? – Tenga – disse allungandomi una polaroid. Era una bella ragazza, occhi castani, capelli lunghi corvini, viso angelico. Un bel bocconcino. Tipe come lei difficilmente facevano ritorno a casa. Gli risparmiai il commento incoraggiante. – Immagino che la polizia abbia condotto delle indagini? – Hanno brancolato nel buio per mesi. Il caso è stato archiviato lo scorso gennaio. Come da prassi gli sceriffi in divisa avevano mollato il colpo poco dopo. A questo punto toccava al sottoscritto entrare in scena per salvare il salvabile. L’incarico aveva il sapore di una causa persa in partenza. – Ha tutto il tempo che vuole per trovarmela. Viva o morta che sia – tagliò corto alzandosi in piedi. Era un uomo di poche parole; questo fu il terzo punto a suo favore. Detestavo i perditempo. Mi adattai a tanto cinismo senza troppa fatica. – Ci sono dei costi – gli feci notare. Pierleone mi sganciò sotto al naso una mazzetta di euro che sapevano di nuovo. – Pecunia non olet – pensai alla vista dei bigliettoni. – Duemila posso bastare per ora? – mi chiese con un sorriso da squalo. Annuii. – Questi sono i miei recapiti – disse appioppandomi un biglietto da visita con una sfilza di numeri e uffici. A confronto Perry Mason era una pulce, non solo per la stazza. Non avevamo più niente da dirci. Quei soldi mi servivano. Mi sentii sollevato nel racimolare un po’ di spiccioli, ma al tempo stesso condannato dall’ingaggio. Così come era arrivato se ne andò. Rimasi col sigaro offertomi a meditare sulle disgrazie umane, sulle mie in particolare: l’avvocato della mia ex moglie che mi stava lentamente rovinando, una causa in corso con l’Associazione per la Tutela dell’Opera di Filippo de Pisis e mia madre che reclamava la mia presenza in galleria. Sosteneva che fossi cresciuto per giocare a guardia e ladri. Forse in parte aveva ragione; ma quando la sera camminavo solitario sulla passeggiata di corso Imperatrice, scrutando il mare, riuscivo a dimenticare le miserie della vita e a sentirmi un sorta di capitano di ventura pronto a salpare per lidi misteriosi. A Milano invece quando camminavo lungo i Navigli affollati di gente, osservando le plumbee acque dei canali, provavo il solo desiderio di affogarmici dentro per chiudere baracca e burattini. Osservavo immobile la foto di Silvia e i soldi lasciati sul tavolo; tutto questo non era un gioco. IV Era il secondo caso di persona scomparsa che mi toccava. Sapevo di non essere all’altezza, ma tanto valeva provarci. Mal che andasse sarebbe stato il mio ultimo incarico prima di chiudere bottega. Il dopo non mi spaventava: avevo fior di mostre di pittura da organizzare per la gioia di quegli ingrigiti appassionati d’arte che come moribondi affollavano la galleria ad ogni vernissage. Pensai a Silvia. Strano posto per scomparire, Triora. Di gente che scompare nel nulla è pieno il mondo. A volte te ne vai di tua volontà, altre volte ti fanno sparire tuo malgrado. Ricordo il caso di un’allegra famigliola a detta del figlio partita per le vacanze, in realtà fatta a pezzi e messa a riposo anzitempo; ci sono affaristi in fuga con tesori miliardari. Avevo sentito parlare di un posto in Messico, Ciudad Juárez, dove ogni anno scompaiono decine di donne e bambini. Traffico di organi o un convegno permanente di killer seriali sono le ipotesi più accreditate. Silvia però era scomparsa a Triora, che non era certo il Messico. A Triora c’ero stato una volta sola. Un tizio del posto mi aveva chiamato perché possedeva un quadro di Giuseppe Palizzi, un buon artista dell’Ottocento napoletano, specializzato in scene campestri con animali. Avevo sempre pensato che lui e gli altri tre fratelli, tutti pittori, fossero degli zoofili incalliti. La loro produzione artistica traboccava di scene ossessivamente bucoliche da suggerire una profonda e poco invidiabile conoscenza del buco del culo. Per la cronaca il quadro in questione era l’ennesima composizione di ovini e caprini, perfetta da regalarsi a Pasqua. Avevo dribblato l’acquisto con la mia frase di rito: “Il quadro è piacevole, se fossi in lei lo proporrei a una casa d’asta”. Tornando a Triora per quel che ne sapevo era un paese tranquillo dove si respirava l’aria buona. Avevo pure pensato di comprarmi un rustico, ma sono quelle idee che ripeti a te stesso fino alla fine dei tuoi giorni illudendoti che lo farai. Preferivo andarmene a Cap d’Agde a rifarmi gli occhi sulla spiaggia nudista e a tentare approcci con femmine di­sinibite. L’eccessiva tranquillità dopo un po’ mi angosciava. Così come il vedere sempre le stesse facce. Mi sporsi dalla finestra dell’ufficio godendomi la fumosa compagnia del Toscano. Pensai a Lazzaro Santandrea con il quale a Milano condividevo la passione per i sigari e i guai. L’ultima volta che lo aveva sentito mi aveva detto di aver visto la Madonna. Beato lui, avevo pensato. Neppure io mi lamentavo: mio nonno di “natività” ne aveva collezionate parecchie nel corso della sua attività di mercante. Pur essendo un ateo a parole, era un credente di fatto. Sotto di me piazza Colombo pullulava di umanità. Ce n’era per tutti i gusti, eccetto che per i miei. Respirai a pieni polmoni, nonostante i gas di scarico degli autobus che sostavano sulla piazza. Mi guardai nel riflesso della finestra. Non ero poi tanto male; alla soglia dei trent’anni potevo dar del filo da torcere a tanti playboy più giovani di me: capelli castani lunghi e allergici al pettine, sorriso da baronetto un po’ fighetto e barba di tre giorni che mi dava un’aria da uomo vissuto e forse mai cresciuto. Nel corpo portavo i segni delle mie contraddizioni. Abbandonata ogni giovanile velleità da culturista, avevo intrapreso una sana e gratificante carriera di bevitore e buongustaio incallito; nonostante questo drastico cambio di stile di vita, il mio fisico sembrava rimanere pressoché fedele agli antichi fasti. La mattina, osservandomi allo specchio, mi sembrava di vedere uno di quei magnifici palazzi nobiliari dalla facciata strepitosa, ma con il retro di tutt’altra fattura. Mi consolavo col fatto che la società di cui ero figlio dava un grande valore alle apparenze. Ultimamente però incappavo in un fastidioso problema sostanziale con le donne: arrivato al dunque, facevo cilecca. Come una pistola a salve tuonavo in una perenne esercitazione. Il dottor Vermiglione, luminare di Ventimiglia, mi aveva rassicurato. – Fiorentini, non è il solo. Si rilassi. Aveva diagnosticato impotenza da stress da lavoro, o meglio da non lavoro. Secondo le sue previsioni presto sarei tornato a sparare cartucce vere; in pratica mi aveva predetto il ritorno alla corsa agli armamenti in breve tempo. Per una rapida occhiata alla rampa missilistica mi aveva estorto due bigliettoni da cento euro. In teoria, con il nuovo incarico, avevo risolto anche questo inconveniente. Eppure mi sentivo come un naufrago in mezzo al mare. Un mare senza terraferma in vista, che mi avrebbe portato lontano contro la mia volontà. V Uscii dall’ufficio. Mi sedetti al bar Colombo, testimone delle mie innumerevoli bevute. Ordinai un gelato alla crema, innaffiato con Grand Marnier e polvere di caffè. Sanremo stava diventando una succursale di Mosca: bionde matrioske bevevano champagne alla faccia dei mariti al Casinò. I miei pensieri scivolavano lungo vertiginose scollature. Da tempo fantasticavo sulle capacità amatorie di quelle bambole cresciute a vodka e patate. Cercai di distogliere lo sguardo, ma la vita del centro era sempre la stessa: teppistelli in fuga su motorini truccati, vecchi alcolizzati aggrappati a bicchieri di Rossese, mendicanti di professione e colletti bianchi dall’aria arrogante. Con questi ultimi ce l’avevo a morte. Predicatori dell’essere di tendenza, del marketing e del cattivo gusto in generale, s’imponevano nella vita di tutti i giorni. Se avessi potuto li avrei rimessi in riga con la collaudata cura del manganello e dell’olio di ricino. Ai fanatici dell’abbronzatura artificiale e delle vacanze tutto l’anno, preferivo i topi di fogna di cui la Pigna di Sanremo traboccava: ratti a due gambe con un coltello in tasca che non ci pensavano due volte ad aprirti in due per quattro soldi. I miei pensieri facevano voli pindarici. Decisi che avrei fatto l’impossibile per trovare Silvia, ma anche per svuotare il portafogli dello zio. Ero in vena di buoni propositi. Non volli perdere tempo, anche perché non avevo altri impegni. La mia prima mossa sarebbe stata quella di rinfrescare l’antica alleanza con il quarto potere: la stampa. Un caffè alla redazione del “Secolo XIX” avrebbe sancito l’inizio delle indagini.
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