Capitolo primo

1824 Words
Capitolo primo I Triora (Imperia), giorni nostri. La kermesse di Strigora era prossima. Il paese delle streghe usciva dal suo atavico torpore per inscenare la parodia di uno scempio di secoli prima. Le avanguardie di neo-hippie, Wicca, fanatici dell’occulto e adepti della scopata di gruppo, camuffata da messa nera, erano giunti da alcuni giorni. Legioni stralunate di moderni zombie, figli della cultura punk, e figli di puttana, si aggiravano per i carruggi in attesa dell’evento mediatico. Secondo le previsioni sarebbe stato il migliore degli ultimi anni. Lo spiazzo della ex caserma Tamagni, lugubre ricordo della guerra, aveva accolto camper, caravan e tende. L’aroma di cannabis si mischiava all’odore di salsicce cotte su rudimentali griglie e improvvisati falò. Capezzoli al vento marchiati da piercing, balli tribali e il rullio ossessivo dei bonghi scandivano i pomeriggi e le serate. Nel borgo aleggiava un’atmosfera messianica, degna della fine del mondo. John Carpenter vi avrebbe girato il seguito de Il signore del male. In quei giorni di festa i trioresi superstiti uscivano mal volentieri dalle loro case. Alcuni mandavano avanti le proprie attività commerciali: minuscole botteghe dove si vendevano cialtroneschi saggi di magia e bambole di streghe made in China. L’artigianato locale era morto da tempo. I pochi oggetti rimasti della scomparsa civiltà contadina erano custoditi presso il Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria, ritrovo delle intellighenzie italiane e straniere in materia di studi antropologici. Si trattava di un circolo di esaltati dediti alla riesumazione di riti dimenticati che appartenevano più al mito che alla storia. Il borgo, dall’aspetto medioevale, arroccato sul monte Fronté, contava circa duecento anime. Duecento trioresi costretti a fare i conti con l’asprezza della vita di montagna e con gli allucinati progetti di studiosi venuti da città lontane. Il processo per stregoneria del 1587 era un marchio che il paese non si era mai riuscito a scrollare di dosso. Una stella a cinque punte cucita sulla giacca che ne aveva sancito la dannazione. Un biglietto di sola andata per la bocca del forno. Il tempo però a volte gioca tiri mancini. A Triora la tragedia di secoli prima si era trasformata in una grande opportunità. Un po’ come se a Dachau si fossero messi a vendere ai turisti camere a gas in bocce di vetro con la neve o kit per montare a casa propria il forno crematorio. Nel paese le streghe nessuno si era ribellato all’idea. Col senno di poi il processo si sarebbe potuto definire come il più grande investimento che il paese avesse mai fatto. Con cinquecento scudi, racimolati allora dal Parlamento locale per imbastire il procedimento, e con una pazienza di secoli, Triora era diventata il punto di riferimento fra coloro che vedevano nell’entroterra ligure la nuova linfa per il turismo di una regione in crisi. Pazienza per quelle duecento donne incarcerate e torturate. Il loro sacrificio era valso la pena. Per non parlare degli inquisitori e del commissario speciale Giulio Scribani; senza la loro tenacia il processo non avrebbe avuto il giusto eco, relegando Triora all’oblio del tempo. Anche gli aguzzini delle presunte streghe erano stati così riabilitati. Se non a parole, certamente nella coscienza collettiva. Triora, un presepio a cielo aperto, i cui figuranti se l’erano squagliata altrove nell’immediato dopoguerra, era tornata così a vivere. II Un uomo, più di tutti, aveva contribuito con i suoi studi e la sua perseveranza a questa inaspettata rinascita. Costui era l’attuale direttore del Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria. L’archivista Spartaco Ariberti reggeva la carica da cinque anni con l’appoggio incondizionato della giunta comunale. Ottenuto l’incarico alla soglia dei cinquantacinque anni, aveva fatto le valigie abbandonando l’ateneo genovese e stabilendosi definitivamente a Triora. Corpulento e barbuto, aveva la faccia da bambino viziato e avvizzito. Vestiva sempre uguale preferendo completi di velluto d’inverno, possibilmente marroni, abiti color cammello d’estate. Suo accessorio preferito era il borsello di pelle nera che portava a tracolla. Vi teneva dentro il telefono cellulare, l’agenda e un piccolo cannocchiale. Aveva la passione per le camminate nel verde e per il bird- watching. Qualcuno diceva di averlo visto sulle rive del torrente Argentina in cerca di coppiette da spiare. A tratti occhieggiava come una civetta drogata: un tic, senza tac, che gli dava un’aria femminea. Per occultare questa sua debolezza ricorreva al pelo ispido che lasciava crescere in viso. La barba era il solo attributo a sua disposizione in quel deserto di virilità. Madre natura non era stata generosa con lui nemmeno al piano di sotto. Il piccolo virgulto di cui disponeva era rimasto uguale a se stesso, imperturbabile alle tempeste ormonali della pubertà. Di riflesso anche il suo carattere subiva questa difficile convivenza di tendenze: alternava l’atteggiamento da despota a crisi isteriche da donna in menopausa. Ogni mattina usciva di casa alla stessa ora fermandosi al bar Della basua (della strega, nel dialetto locale), nella parte nuova del paese, per la colazione. Abitava in una villetta di recente costruzione sulla strada per Loreto, frazione di Triora. Gli era stata assegnata gratuitamente dal comune una volta nominato direttore del Centro Studi. III La mattina del 10 agosto il corazzato studioso varcò implacabile la soglia del bar scaricando sui presenti il suo cattivo umore condensato in una smorfia contrita. Nessuno lo aveva mai visto sorridere. – Buongiorno, dottore – lo salutò Zanin, il proprietario. Come gli altri concittadini non lo aveva mai digerito, ma era comunque un suo cliente e soprattutto uno che a Triora dettava legge. Ariberti lo guardò sprezzante. – Crede davvero che lo sia? – contraccambiò, alludendo a un gruppo di ragazzi giunti per Strigora. I tre rasta nostrani, seduti ai tavolini della bettola, trangugiavano Bud e fantasticavano sulle streghe del passato. Il loro interesse era tutto per le leggendarie orge notturne che, nella tradizione, si svolgevano alla Cabotina, fuori dalle mura del paese. Ariberti li guardò disgustato, come usurpatori di un passato di cui lui era il solo ed esclusivo depositario. – Almeno oggi si lavorerà un po’ di più – mormorò Zanin indifferente. Gli preparò il solito cappuccino bollente. Suo passatempo preferito era lamentarsi del lavoro che non c’era. Con Strigora tutti incrementavano i loro guadagni. Era la legge del soldo a fare da padrone, mettendo a tacere il buon gusto per un pugno di euro. In questo modo l’economia locale sopravviveva. Se a rimpinguare le casse del paese era una folla di fanatici, ciò era il minore dei mali. Ariberti guardò Zanin con i suo occhi di ghiaccio. Lo gelò come una granita. Quel poveraccio, così pietosamente aggrappato ai suoi biechi interessi, non meritava risposta. Il solo scopo dell’archivista era quello di consolidare ulteriormente la sua posizione al Centro Studi. Anche lui avrebbe preferito un pubblico migliore, ma non aveva scelta. Lo spettacolo di lì a poco inscenato non avrebbe deluso le aspettative dei turisti arrivati da ogni parte d’Italia. Mancavano due giorni al fatidico giorno, ma i preparativi erano in alto mare. Non poteva permettersi un flop, tanto più che il consiglio comunale gli aveva dato un compenso extra di ventimila euro. La schiuma del latte calda gli bagnò le labbra regalandogli due baffi bianchi. Bevve con avidità senza curarsi dei presenti che a quell’ora si trovavano nel locale: Aristide Borelli, segretario comunale, il vigile Sandro Accame e Maria Gastaldo, organizzatrice di pesche benefiche in parrocchia. Ariberti li aveva catalogati fin dal primo giorno del suo incarico esattamente come reperti da museo. Forse da morti avrebbero guadagnato in simpatia. La Gastaldo era una ripugnante beghina dalla parlata petulante. Gli altri due dei sempliciotti abbagliati da un’illusione di potere. Il vigile gigioneggiava quotidianamente menando la paletta a destra e a manca, appioppando multe e chiudendo un occhio dove voleva. Il Borelli scaldava la sedia in Comune con i suoi mefitici peti rendendo grama la vita a chi gli stava intorno. Soffriva infatti di meteorismo e delle sue note conseguenze, prima fra tutte la solitudine. Sia lui che il vigile vivevano di bustarelle, sperimentando in piccolo il gran piacere della pubblica corruzione. Nessuno dei presenti si stupì dell’innata allergia ai rapporti umani dell’archivista, accentuata per l’occasione. Ariberti terminò in silenzio la colazione. Lasciò una moneta sul bancone e uscì. IV La giornata era afosa. Una spessa foschia scivolava giù dal cimitero che sovrastava il paese, conferendogli un’aurea spettrale. Non a caso lo sperone di roccia su cui sorgeva il camposanto si chiamava Monte delle Forche. Un tempo vi si impiccava la gente, oggi la seppellivano soltanto. L’archivista andava di fretta per natura. Macinava strada come un Panzer tedesco in Polonia. Non conosceva ostacoli. Un nugolo di commenti al fulmicotone si levò non appena uscì dal bar. – Mi chiedo chi si creda di essere?! Ieri sera l’ho incontrato alle Spianate. Eravamo io e la negra. L’abbiamo salutato, ma lui ha fatto finta di non vederci! – gracchiò la Gastaldo più acida di un acido. – Non invidio la Lucilla che lo deve sopportare tutto il giorno – fece il segretario comunale, ravanandosi la patta e dispensando scoregge per tutti. Le sue parole si riferivano alla giovane collaboratrice dell’archivista. I presenti colsero l’ironia, malcelata da una crassa risata finale. – Voi uomini siete tutti uguali – sbottò la Gastaldo indignata. Recitò istericamente un’Ave Maria nel tentativo di allontanare i cattivi pensieri che reprimeva in sé. Il vigile e il segretario si scambiarono sguardi eloquenti. Provavano un’invidia tutta maschile per quei pettegolezzi che allietavano la vita dei trioresi da settimane. Un anonimo informatore aveva detto di aver sentito dei gemiti provenire dalla casa dell’archivista. Il voyeur di turno aveva assicurato di aver visto Lucilla nuda, incatenata al letto, e frustata dall’Ariberti. La Gastaldo non riusciva a togliersi di testa l’immagine della ragazza schiava di Ariberti. La sua stizza nasceva dal fatto di non poter competere con la giovane assistente. Non le restava così che l’astio e la solitaria compagnia delle verdure. Ogni settimana comprava borse di cetrioli al mercato di Sanremo. Sosteneva di usarli per fantomatiche maschere di bellezza. Nessuno però ne aveva mai visto i risultati. V Dal bar Della basua la distanza a Palazzo Stella, sede del Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria, era breve. Ariberti avanzava solitario. Le bancarelle degli ambulanti affollavano la strada con ogni genere di mercanzie: elefanti di legno del Senegal, dvd contraffatti e cianfrusaglie di ogni tipo spacciate per antichità. A margine di questa fiera del tarocco, sopravvivevano due fruttivendoli che mettevano in mostra corone d’aglio di Vessalico, sacchi di fagioli Rundin di Badalucco e l’acre stoccafisso ligure che puzzava di piscio. Tempo qualche anno e i due venditori sarebbero stati solo un ricordo. Da autentico cultore delle tradizioni locali Ariberti, se avesse potuto, li avrebbe fatti impagliare per collocarli nella sezione Arti e Mestieri del museo locale. I loro visi aguzzi, erosi dalla fatica come scogliere battute dal mare e dai venti, sarebbero stati perfetti per raccontare ai posteri la storia del luogo. Già li immaginava imbalsamati nell’atto di offrire i loro prodotti: le mani tese e adunche, protratte in un ultimo eterno gesto di offerta. Ariberti si compiacque del suo senso del macabro che no­nostante la giornata gli metteva il buon umore. Forse con una scrittura privata, e un compenso di pochi spiccioli, poteva davvero cavare a quei due disgraziati la promessa di cedergli i cadaveri per scopi didattici. I rintocchi delle campane della chiesa di N.S. della Collegiata gli parvero una solenne marcia intonata per il suo arrivo nella parte più antica del borgo.
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