1.

2314 Words
1. Quando ti trasferisci in un posto nuovo pensi sempre: “Ancora non mi appartiene, ma un giorno lo farà”. Pensi che vivendo lì riuscirai a mettere radici e che quello che in un primo momento ti è sembrato estraneo, presto sarà per te familiare. Di solito è quello che pensi, solo che io non lo pensavo. Quando mi trasferii a Brooklyn ero sicura che quel posto non sarebbe mai diventato casa mia, ma sarebbe rimasto per sempre il triste parcheggio in cui ero stata sistemata. Con affetto e con le migliori intenzioni, certo, nonché per mancanza di alternative. Ero stata nove anni in Africa, di cui gli ultimi quattro in Kenya. Era quello il mio mondo, ma il mio cervello maledetto aveva deciso di strapparmelo. Che, sì, è un modo per dire che comunque era colpa mia. La ONG per cui lavoravo, Aid for Africa, mi aveva trovato quell’appartamento in un condominio di Brooklyn, dato che la loro sede centrale era a New York. Avevo chiuso con il lavoro sul campo, ma non mollavano così i loro collaboratori: avevo avuto un posto nell’organizzazione. Per molti versi mi sembrava di essere passata dall’essere l’operatrice di un’associazione di volontariato, che aiutava gli altri, a una poveretta che aveva bisogno della carità di un’associazione umanitaria. In fondo il mio nuovo posto di lavoro era più o meno quello: un atto di carità da parte dell’AfA. Il condominio in quanto tale era piuttosto grazioso. Di mattoni rossi, si sviluppava attorno a un piccolo giardino centrale in cui nelle giornate di sole giocavano i bambini. Gli appartamenti erano relativamente spaziosi, i servizi condominiali comprendevano la lavanderia e un solarium... era un bel posto dove venire parcheggiata e non potevo lamentarmi di nulla. Gli altri abitanti del palazzo sembravano tranquilli e perbene. Al piano strada c’erano un’agenzia immobiliare e un dojo. Nel portone comparivano quattro targhe di studi professionali: una pediatra, un avvocato specializzato in casi di discriminazioni, un istruttore di difesa personale e un commercialista. Il quartiere era un quartiere liberal e multietnico. Non potevo lamentarmi, davvero. Se ero infelice e abbattuta non dipendeva dal quartiere, dal distretto, dalla città o dalla nazione in cui ero. Dipendeva dal continente. +++ Prima di trasferirmi a Brooklyn, avevo vissuto per tre settimane in New Jersey. Il giorno del trasloco cenai con Karen, una mia collega all’AfA e cercai di dimostrarmi ottimista. L’aria era ancora fredda, ma la primavera stava per arrivare. Poi rientrai in quell’appartamento ancora pieno di scatoloni, in cui il rumore dei miei passi rimbombava, e mi dissi che il resto della mia vita sarebbe stato uno schifo. Misi la biancheria al letto e mangiai una ciotola di cereali davanti alla TV. Prima di tornare negli Stati Uniti erano anni che non guardavo un intero programma. Non mi piacevano per niente. Mi lavai i denti, mi misi in pigiama, presi le mie pillole e andai a chiudere tutte le tende. Poi mi infilai sotto il piumino, in quel letto matrimoniale a cui non ero abituata. Anche in quel caso... erano anni che dormivo in letti singoli e scomodi. Il materasso di lattice mi lasciava molto perplessa. Chiusi gli occhi e cercai di non pensare alla vita che mi ero lasciata alle spalle. Ossia pensai per un’ora abbondante a tutte le cose che avrei voluto fare a Kayole, se solo il mio cervello non mi avesse piantata in asso nel momento sbagliato. Piansi un po’, una cosa che facevo tutte le sere, ma alla fine mi stavo quasi per addormentare, quando iniziarono i rumori dall’appartamento vicino. Qualcosa sbatteva contro il muro. Tump-tump-tump, e così via a ritmo regolare, quasi ipnotico. Sentii un lamento, poi dei gemiti sempre più forti. Gemiti femminili. Una voce che diceva cose che non capivo per intero e che comunque non volevo... Okay, cose che capivo quasi per intero, in realtà, perché la signorina, chiunque fosse, voleva comunicarle all’intero palazzo. Cose tipo: “Oh, sì, scopami, sfondami con quell’arnese gigante”; e tipo: “Oh, sì, ancora, sei così grosso, mi fai tanto male, la mia farfallina non resiste più, ti prego continua”. Scusate se non riesco a rendere l’enfasi. Era piuttosto enfatica. Lui, il possessore dell’arnese gigante, non emetteva un suono. Immaginavo che fosse il responsabile del tump-tump-tump ritmico, e che il tump-tump-timp fosse la testiera del letto che sbatteva contro il muro, ma non ne avevo le prove. Sembrava solo l’ipotesi più ragionevole. La faccenda andò avanti per una decina di minuti, poi la tizia emise una serie di veri e propri ululati e i colpi sul muro finirono. La donna disse qualcosa ridendo, lui sempre muto. O, insomma, parlava a voce troppo bassa perché potessi farmi i fatti suoi. Mi chiesi chi vivesse nell’appartamento accanto al mio, è ovvio. Mi chiesi anche se fosse una coppia (in quel caso forse era meglio che spostassi la mia camera da letto) o una single. Speravo per loro che scopassero così tutte le sere, ma speravo per me che fosse solo una cosa occasionale. Certo che ci avevano dato dentro. Mmm... erano millenni che non scopavo, e comunque non l’avevo mai fatto con quella foga, ne ero sicura. Non so quanto tempo passò. Stavo di nuovo per addormentarmi, quando un nuovo gemito mi mise sul chi vive. A seguire, i mugolii sempre più forti della mia nuova vicina e del suo focoso ragazzo. Il quale, per quel che ne sapevo, poteva anche essere muto. Questa volta erano mugolii più lunghi, più sofferti, e il letto non sbatteva contro il muro. Lei gemette sempre più forte, condendo il tutto con vari “aprimi in due” non proprio femministi. Non che una debba essere femminista anche in quei frangenti, ma, insomma, le sue incitazioni un po’ mi infastidivano. I continui riferimenti alle dimensioni di lui, gli inviti a venir presa più forte, diversi “oh, sì, fammi male” e anche un “sei così maschio” che mi fece quasi scoppiare a ridere. Mi trattenni. Forse in altre circostanze avrei trovato quell’involontario voyerismo – o come si dice quando origli solo – persino eccitante, ma in quel periodo avevo la libido di un frigorifero, quindi capirete che più che altro ero seccata. Il secondo orgasmo la fece urlare come se la stessero scorticando. Seguii qualche minuto di silenzio. Poi, per la prima volta, intuii la voce di lui. Fu un suono indistinto, perché aveva un timbro piuttosto basso. Lei rispose ridendo. Altro timbro basso. Lei rispose senza più ridere. Li sentii che parlavano. Il rumore dell’acqua, nel loro bagno. Rumore di passi. Poi rumore di tacchi. Poi una porta che si apriva e chiudeva, sul corridoio. Infine, il silenzio. Mi addormentai poco dopo. La mia nuova vicina in realtà era un vicino. La sua ragazza non si era fermata per la notte. Forse potevo evitare di spostare la camera da letto. +++ Passai la settimana cercando di rendere più o meno abitabile casa mia. Dal Kenya non mi ero portata nulla, perché la sola idea di rivedere gli oggetti che avevo quando vivevo lì mi faceva male al cuore. In questo modo, però, l’appartamento assunse un aspetto molto anonimo. Decisi che non aveva importanza. Mi trascinavo al lavoro (da Brooklyn era molto più comodo che dal New Jersey) e sulla via del ritorno passavo da qualche grande magazzino a comprare varie cose per la casa: biancheria, pentole, tende nuove (quelle che c’erano erano orrende), detersivi... Nessuno faceva caso a me. Nella mia cittadina natale in Idaho, una vita prima o giù di lì, la gente stava sempre a giudicarmi per come mi vestito o per come mi comportavo. Per i tessuti colorati che mi erano sempre piaciuti, per un certo amore per il batik, le collane lunghe di materiali poveri, la completa allergia per i vestiti da signora e le scarpe con il tacco... Okay, sono sempre stata un po’ fricchettona, suppongo. Metà dei cooperanti che lavoravano con me in Kenya lo erano. E a New York, questo va detto, a nessuno importava nulla dei miei pantaloni alla turca, dei miei sarong, o del mio stile in generale. Sul lavoro non dovevo per forza truccarmi o travestirmi da newyorkese raffinata. Andavo bene così com’ero, e almeno quello era un sollievo. Più o meno una settimana dopo essermi trasferita, un venerdì sera, usai per la prima volta la lavanderia del condominio. Era nei sotterranei e c’erano in tutto cinque lavatrici e cinque asciugatrici. Sinceramente mi sembrarono un po’ pochine, ma mi dissi che forse molti inquilini ne avevano di personali in casa. Quando arrivai vidi che quattro delle cinque lavatrici erano in funzione. Ognuna aveva un timer che indicava quanto sarebbe durato il lavaggio prescelto e quello mi sembrò un punto a favore dell’amministrazione. Caricai la mia lavatrice, la feci partire e poi mi attardai a leggere tutti i cartelli del regolamento. Sottolineavano in modo particolare come lasciare i propri panni bagnati o appena asciugati nel cestello fosse un comportamento poco rispettoso degli altri. Ero d’accordo. Stavo finendo di leggere quando una delle lavatrici finì il suo ciclo. Aggrottai la fronte, già pronta a pensare male del possessore degli indumenti al suo interno, ma un attimo dopo arrivò un tizio. Il tizio mi rivolse un educato cenno di saluto, aprì il cestello e iniziò a svuotarlo. «Oh, merda» sospirò. Avevo vissuto per anni in un posto dove la privacy non ha grande considerazione. Allungai il collo, incuriosita. A quel che pareva le sue mutande e i suoi calzini erano diventati tutti rosa. Gli offrii un sorriso di simpatia. «Succede» dissi. «Non ha senso» ribatté lui, aggrondandosi. Era di poco più vecchio di me. Alto, in forma, direi piuttosto belloccio. E ora era irritato a morte, cosa che lo rendeva un po’ buffo. Lo vidi frugare nella sua biancheria, fino a estrarne uno straccetto rosso. «C’è sempre qualcosa che va a finire nel posto sbagliato» commentai, fatalista. Lui aprì lo straccetto. Era un tanga di pizzo rosso. «Non è il mio» disse, molto scocciato. «Un po’ lo pensavo». Mi lanciò un’occhiata innervosita. Okay, forse ero invadente. Mi ripromisi di andarmene senza fare ulteriori commenti, ma lui disse: «Nel senso che non è della mia ragazza». «Non so se è il caso di dirglielo». Sbuffò. «Volevo dire: non ho una ragazza. Questo è un sabotaggio». «Un sabotaggio» ripetei, perplessa. «Quella stronza deve averle infilate in un calzino o qualcosa del genere, non pensi? Poi, durante il lavaggio, le mutande sono scivolate fuori dal calzino e voilà. È un piano astuto, a suo modo». «Ehm». Fece un gesto irritato con la mano. «Non importa. Sa per caso come far tornare tutto del suo colore?». «Mi dispiace, non si può. O meglio, potrebbe mettere la biancheria in candeggina, ma gli elastici di boxer e calzini si rovinerebbero. No, l’unica cosa da fare è tenersi le mutande rosa. A forza di lavaggi, alla fine, torneranno del loro colore». «Ne sembra molto sicura». «Già». Scosse la testa, disgustato, e iniziò a buttare la biancheria in un’asciugatrice. «Va be’. Grazie lo stesso». Dissi “prego” e me ne andai. +++ Una mezz’ora più tardi, quando andai a mettere il mio bucato nell’asciugatrice, lo trovai di nuovo lì. Era belloccio sul serio, con i capelli scuri, il viso angoloso e la pelle di un bel colore ambrato. Il suo aspetto aveva qualcosa di mediterraneo: spagnolo, italiano, greco, o forse nordafricano. Il suo americano era privo d’accento, quindi forse era straniero sul serio. «Ciao» mi disse, vedendomi entrare. «La tua lavatrice ha appena finito». Era vero. Tirai fuori i miei panni e li misi nell’asciugatrice. Lui, nel frattempo, tirava fuori i suoi. «È ancora tutto rosa» mi comunicò, con aria infelice. «Lo supponevo» dissi. Gli rivolsi un sorriso di simpatia. Mise tutto in un sacchetto di stoffa e si buttò il sacchetto su una spalla. «Mi chiamo Asher. Lo capisco, se la mia biancheria intima non ti interessa più di tanto». Aveva un sorriso un po’ sornione, che mi fece venir voglia di sorridergli di rimando. «Samantha. Sam. E bisogna ammettere che quaggiù non ci sono molte cose più interessanti delle tue mutande». Dato che avevo ancora quasi un’ora da aspettare e non intendevo farlo nella lavanderia, ci avviammo entrambi verso l’ascensore. «Ti sei trasferita da poco? Non ti ho mai vista in giro» chiese Asher, educatamente. «Una settimana». «Ah. Sei nuova in città, o...» «Quasi nuova. Ho vissuto in Africa per diversi anni, ma sono tornata da poco più di un mese. Prima stavo in New Jersey, ma era scomodo. Così mi hanno trovato un posto qua». Per un attimo avevo avuto la tentazione di non dirgli niente sui miei ultimi nove anni. Non avevo voglia di parlarne. Ma, d’altro canto, abitavamo nello stesso palazzo. Era possibile che ci incontrassimo di nuovo. Se fosse venuto fuori in seguito sarebbe stato un po’ imbarazzante spiegargli perché non lo avevo detto subito. Avrei dovuto spiegare cose. La sola idea mi fece iniziare a sudare le mani. Sudore freddo come quello che precedeva un attacco di panico. Perché non mi lasciate in pace, stupidi neuroni? «Capisco. Vedrai che ti ambienterai bene. Tutti si ambientano bene, a New York. È mille città in una. Devo andare al quarto, e tu?». «A-anch’io». Ero felice che non avesse fatto domande sull’Africa. Non ero molto felice di essere in un ascensore. Ma se gli avessi chiesto di scendere dopo che le porte si erano già chiuse sarei sembrata davvero strana, no? Dovevo solo resistere per una trentina di secondi. Mi guardai nello specchio. La mia carnagione, già pallidissima, era quasi cadaverica. Avevo la fronte sudata, delle occhiaie viola e la testa un po’ incassata nelle spalle. Inoltre – me ne accorgevo solo in quel momento – i miei capelli rosso fiamma erano raccolti in una buffa crocchia proprio sopra alla testa. «Ah, Cristo» sospirai, e cercai di sciogliermela. Per farlo quasi mi strappai una ciocca di capelli. Asher mi rivolse un sorriso divertito. «Non devi preoccuparti. Tutti vanno in lavanderia vestiti da casa». «Mi ero dimenticata di...» «Era un’acconciatura interessante». Le porte dell’ascensore si aprirono. «Respira». Lo guardai, piuttosto spaventata. Lui mi prese per un gomito e mi guidò dolcemente fuori dall’ascensore. «Non stai per avere un attacco di panico? Respira». «N-no, non... non credo che mi verrà, alla fin fine». Sorrise. «Meglio così». Non gli chiesi come facesse a sapere che stavo per avere un attacco di panico, mi vergognavo troppo. Lui sembrava così tranquillo. Borbottai un saluto e me la filai alla velocità della luce. Solo una volta chiusa nel mio appartamento i miei neuroni impazziti iniziarono a calmarsi. Respirai contando da uno a otto e poi al contrario per cinque o sei volte. A quel punto sentii la porta dell’appartamento accanto che si apriva e si chiudeva e capii di aver appena conosciuto Mr. Arnese Gigante. Feci di tutto per non mettermi a ridere.
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