Capitolo III: Un triangolo alla crema-1

2084 Words
Capitolo III Un triangolo alla cremaMilano, primi giorni di maggio, via del Lauro, ore 6:55 del mattino, dimora del banchiere Raoul Sforza Il banchiere aprì la porta antica a doppio battente. Per un attimo si attardò con lo sguardo sui fini intarsi con cui era decorata e nei quali si alternavano motivi naturali e geometrici. Dopo essersela richiusa alle spalle, l’uomo fece capolino nella grande sala da pranzo dall’aspetto monacale. Il bianco delle pareti evidenziava i pochi arredi antichi che caratterizzavano l’ambiente. Senza discostarsi dalle proprie abitudini, Raoul osservò i due soli dipinti presenti nella stanza: due preziose tavole lignee dell’artista rinascimentale marchigiano Carlo Crivelli. La sua attenzione si concentrò in particolare su una delle due, quella che ritraeva un Cristo re, attorniato da una schiera di angeli. Nel volto stranamente austero del figlio di Dio, nel suo sguardo inflessibile, riconobbe con piacere quella stessa severità e asprezza che caratterizzavano la sua persona. Quel Cristo così esteticamente poco incline ai valori che avrebbe dovuto rappresentare gli era sempre piaciuto; i suoi occhi sembravano risplendere di una luce più simile all’ira, cieca e funesta, che all’amore incondizionato per gli uomini. Al centro della stanza c’era un lungo tavolo fratino, a quell’ora già apparecchiato per la colazione. Erano quasi le sette. Quella mattina Raoul indossava un paio di pantaloni di lino chiari, con un taglio oversize e un fondo gamba ampio a evocare le tendenze della moda britannica degli anni Venti del secolo scorso. Vi aveva abbinato una camicia in cotone e seta a righe molto sottili, un gilet e una giacca dello stesso tessuto dei pantaloni. Come calzature, aveva optato per dei sandali da pescatore fatti a mano in pelle di vitello brunita e fibbia color oro. Si sedette in attesa che Lia, l’anziana governante, gli servisse la colazione. Secondo un rito mai mutato negli anni la donna, dopo qualche minuto, fece la sua comparsa da un’altra porta che dava l’accesso alla cucina. Lia, impeccabile nella sua divisa scura con il grembiule bianco legato in vita, i capelli argentei raccolti in uno chignon, spingeva un carrello portavivande. Salutò il banchiere con un “buongiorno”, e gli chiese, come sempre, se avesse dormito bene. Lui le sorrise, ricambiando il saluto e mostrando alla donna un’affabilità e una gentilezza che riservava a pochi intimi. Lia lo aveva visto crescere e si era sempre presa cura di lui. La donna, che non aveva avuto figli e non si era mai sposata, aveva trascorso tutta la sua vita al servizio della famiglia Sforza. Di ciò non aveva mai avuto rimpianti. Lia posò in tavola un bricco di alluminio nel quale c’era il caffè bollente e lo versò nella tazza sotto lo sguardo attento dell’uomo, inebriato dall’aroma intenso che se ne sprigionava. Raoul considerava la colazione un rito sacro e imprescindibile dal quale sarebbero dipesi il suo umore e l’andamento della giornata. Osservò quasi rapito il bricco, come se fosse un gioiello dal valore inestimabile. Quell’oggetto di uso quotidiano un tempo aveva fatto parte delle stoviglie utilizzate presso la Pensione Moderna di Bonassola per servire le colazioni. Lo aveva ottenuto dalle proprietarie dell’albergo, Carola ed Eleonora, alle quali l’aveva chiesto espressamente. Le due donne erano abituate alle richieste, spesso insolite e bizzarre, dell’uomo. Lo conoscevano da sempre; si ricordavano di lui fin da quando erano piccole, essendo Raoul maggiore di età. Raoul sosteneva che il caffè servito in quel bricco avesse un valore aggiunto, qualcosa che gli riportava alla memoria ricordi e suggestioni di un tempo perduto. Non si riferiva a momenti legati esclusivamente alla sua giovinezza, ma ad altro, a qualcosa di ancora più profondo che nemmeno lui riusciva a spiegarsi. Ecco perché non rinunciava mai al latte e al caffè serviti in quel bricco. Raoul era conscio di risultare ermetico e indecifrabile per gli altri, ma ciò non gli importava. Lia gli porse un piatto con delle fette di pane nero tostate, burro salato e un triangolo di sfoglia con all’interno della crema pasticciera. Raoul, estasiato dalla perfezione di quella colazione, si concentrò sul dolce. “Da quando ho scoperto questa prelibatezza, non sono più riuscito a farne a meno. Il segreto sta tutto nell’armonia degli ingredienti. La crema, oltre a essere delicata, non è poca, ma neppure troppa. In certe miserevoli pasticcerie ne metterebbero soltanto un velo, naturalmente per andare al risparmio”, osservò sprezzante. Raoul detestava i piccoli calcolatori da bottega, coloro che inventavano forme di risparmio tese a un misero guadagno a scapito degli altri. Un pasticciere che risparmiava sugli ingredienti ai suoi occhi altro non era che un patetico spilorcio. “Ma anche l’eccesso di crema avrebbe due aspetti negativi. Il primo, da subito evidente, sarebbe quello di rendere pesante e stomachevole un dolce così appetibile e leggero. Il secondo, forse anche peggiore dell’altro, di renderne difficile l’assaggio. Vedere la crema pasticciera che cola ai lati della bocca di chi lo addenterebbe mi farebbe passare la voglia di mangiarlo. Le scene più ripugnanti le ho proprio viste in certi bar, quando taluni avventori masticano le brioche sporcandosi di briciole o di crema, alla stregua di maiali che rotolano nella loro sozzura”, proseguì il banchiere, perdendosi nelle sue elucubrazioni mattutine a voce alta alle quali Lia aveva fatto l’abitudine. “Il vero peccato è che la pasticceria ‘Alla foce’, di Sanremo non sia qui dietro l’angolo. Mi auguro solo che la proprietaria, Patrizia, mantenga la parola e mi rifornisca, ogni volta che lo desidero, di questa delizia”, concluse lui, rivolgendosi alla governante che annuiva. Dopo aver terminato di servirgli la colazione, la donna tornò in cucina, lasciandolo solo. Raoul rimase a osservare la luce che filtrava dalle finestre che si affacciavano sulla sottostante via del Lauro. Anche se la strada era angusta, già a quell’ora il sole riusciva a penetrarvi; i raggi sembravano piovere nella stanza da quella ristretta porzione di cielo delimitata da tetti e grondaie. La luce illuminava e riscaldava la sala, creando strani giochi di ombre. I folti capelli color cenere dell’uomo, la sua carnagione bianca al limite del pallore, sembrarono farsi ancora più chiari e splendenti in quella luce mattutina. Nell’ambiente tutto pareva sfolgorare, a cominciare dall’oro presente nei dipinti antichi appesi. Raoul, senza dover tirare le tende per osservare il cielo, sapeva che lo attendeva una giornata quasi estiva. Con il pollice della mano destra scorse il touchscreen del cellulare; dopo aver letto i titoli di alcune notizie che non suscitarono in lui alcun interesse, si concentrò sulla musica, la sua più vera e autentica passione. Gli serviva un brano per accompagnare la colazione. La maggior parte delle ore della sua giornata era scandita dalla musica. Quando aveva tempo amava suonare la chitarra, una pratica fondamentale per il benessere della sua persona. La musica per lui non era svago, era energia vitale da far scorrere. Al secondo piano del palazzo c’era un salone dedicato proprio all’utilizzo dello strumento. Raoul non suonava una chitarra qualsiasi, ma come ogni cosa che faceva o che gli apparteneva, essa doveva riflettere la sua personalità; così anche lo strumento musicale doveva possedere una storia particolare, unica e irripetibile. La chitarra di Raoul era una Gibson Les Paul Custom “Black beauty”, del 1957, costruita da Les Paul in persona. Ma lo strumento, già di per sé prezioso, in passato era appartenuto al chitarrista inglese Jimmy Jones, morto a Londra in circostanze a dir poco misteriose. Tra la notte del 30 aprile e il 1° maggio del 1976, qualcuno era riuscito a introdursi nell’appartamento di Jones, in un palazzo della City, e lo aveva ucciso orrendamente. Il corpo era stato ritrovato in condizioni pietose, in gran parte scarnificato, ridotto a brandelli come se un qualcosa lo avesse in parte divorato. Il colpevole non era mai stato individuato. *** Raoul impiegò qualche minuto per selezionare il brano perfetto per iniziare la giornata. Si trattava di una scelta dettata unicamente dall’umore del momento. Quella mattina aveva in programma di partecipare a una riunione con i vertici della sua banca, la Sforza Mayer, fondata dal suo bisnonno nel 1869 e della quale era Presidente e azionista di maggioranza. L’idea non lo allettava più di tanto, ma quando era necessario presenziare e far sentire la sua voce, ovvero quella del padrone, non si tirava indietro. L’istituto bancario era florido, non aveva particolari problemi, ma Raoul amava tenere sotto pressione i manager alle sue dipendenze. Non credeva in quel concetto, caro a talune aziende, che esse potessero diventare per i dipendenti una sorta di seconda famiglia. Quando gli si parlava del concetto di team building, della necessità di fare squadra e addirittura di attività ludiche per il personale, gli saliva il disgusto. Trovava tutto ciò assai patetico e ipocrita. Raoul, tra i suoi dipendenti, coglieva solo quelle dinamiche di bieco arrivismo che si instauravano tra coloro che ambivano a raggiungere i vertici della struttura. Tutti gli apparivano alla stregua di squali, piccoli o grandi che fossero, determinati a farsi fuori l’uno con l’altro. Così, forte del suo cinismo, il banchiere amava torturare psicologicamente i suoi dipendenti, scegliendo tra coloro che si dimostravano più ambiziosi degli altri. Quelli che si gettavano a capofitto nel lavoro per avanzare di carriera, gli stacanovisti e i leccapiedi erano le sue vittime preferite. Il solo fatto di suscitare in loro uno stato di ansia quando lo vedevano arrivare, di per sé lo rallegrava. Probabilmente anche quella mattina, durante la riunione, non si sarebbe risparmiato. In quanto a sarcasmo e a osservazioni caustiche Raoul non aveva uguali e nessuno aveva mai osato rispondergli a tono. Le sue parole generavano gelo e imbarazzo ma, essendo il Presidente, tutto gli era concesso. Probabilmente Raoul avrebbe apprezzato se qualcuno gli avesse tenuto testa in quei momenti, ma finora tutti avevano preferito tacere e sfoggiare sorrisi di circostanza. La ricerca del pezzo si trascinò ancora, fino a quando si interruppe dopo aver scorso nella sua vasta playlist il brano Run to the Hills degli Iron Maiden, risalente al 1982. Raoul li ascoltava e li amava da sempre; il dettaglio, seppur irrilevante dal punto di vista musicale, che Bruce Dickinson, la voce del gruppo, fosse anche pilota di aerei di linea, lo esaltava. L’immagine di lui in grado di passare con disinvoltura dal palco di un concerto alla cabina di pilotaggio di un Boeing lo accompagnava ogni volta che lo ascoltava. Non gli rimase che iniziare a gustare il triangolo alla crema. La batteria di Steve Harris iniziò a martellare nell’aria con prepotenza, facendo sussultare le due casse acustiche nascoste dal cartongesso. “Questa musica spacca…”, pensò a voce alta, esaltato. Affondò i denti nella croccante sfoglia. Sentì il sapore della crema. In quell’istante, all’unisono, i vetri delle finestre della sala esplosero tutti, andando in frantumi per lo spostamento d’aria che li investì. Raoul non ebbe il tempo di sottrarsi. Il banchiere venne proiettato indietro e schiacciato contro la parete, come se una gigantesca mano invisibile lo volesse ridurre a una poltiglia di carne e ossa. Quella stessa mano che con un colpo secco aveva devastato la sala, provocando una pioggia di vetri, legno e pezzi d’intonaco. Il tutto fu accompagnato da un boato che parve squassare dalle fondamenta l’intero palazzo. Tutto tremò con violenza inaudita. *** Quando il banchiere riaprì gli occhi, la prima cosa che vide furono i tendaggi divelti. I brandelli che ne rimanevano volteggiavano anneriti nell’aria greve e densa. Raoul, da terra, seppur stordito nei sensi, riconobbe l’odore acre, simile a quello della polvere da sparo, ma diverso, che stava saturando la sala. La musica degli Iron Maiden si era interrotta, spazzata via da un insopportabile ronzio alle orecchie. Raoul era rimasto sordo per la detonazione. Si rialzò a fatica, guardando con disappunto il tavolo rovesciato. Il prezioso bricco, la tazza piena di caffè e tutto il resto erano sparsi sul pavimento. Pensò che la giornata non solo non fosse iniziata come aveva previsto, ma che sarebbe stata più difficile del solito. Impassibile si controllò le braccia e le gambe; poi si passò entrambe le mani sul viso alla ricerca di ferite o di pezzi mancanti. Voleva escludere che una qualche scheggia gli si fosse conficcata nelle carni: essendo ancora “anestetizzato”, dal trauma dell’esplosione e dall’adrenalina in corpo, poteva non essersene accorto. Gli venne in mente un amico che durante un giro in moto era stato vittima di un incidente stradale. Soccorso da Raoul, il ferito non si era reso conto subito di aver perso il piede, letteralmente tranciato nell’impatto.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD