Capitolo III: Un triangolo alla crema-2

2052 Words
Quando fu certo di essere incolume, si rassegnò a non poter godere più della colazione. Raggiunse con passo incerto il salone attiguo. La scena che gli si parò di fronte aveva un che di catastrofico, ma al tempo stesso si rasserenò nel vedere che il mobilio era rimasto pressoché intatto, finestre a parte. Camminò su di un tappeto fatto di vetri e di schegge. Aprì il mobile bar in stile Déco nel quale, insieme ad alcune bottiglie di whisky, conservava la sua Ruger Lcrx in calibro 357 Magnum. Impugnò il revolver che teneva carico e pronto all’uso. Se tutti gli abitanti della via erano certi che si fosse verificata una fuga di gas di proporzioni spaventose, Raoul sapeva che non era così. Dopo aver oltrepassato il telaio ritorto di un serramento, arrivò a una delle finestre. Voleva vedere con i suoi occhi quello che già sapeva. L’odore di tritolo ammorbava l’aria. Si appoggiò al davanzale di pietra. Sentì il calore sprigionato dalle fiamme che arrivavano a lambire il primo piano e il balcone alla sua sinistra. Nell’aria vorticava un pulviscolo soffocante che aveva letteralmente oscurato la luce del mattino. Raoul, pur faticando a respirare in quell’inferno di aria arroventata, mantenne la sua proverbiale freddezza. Si sforzò di osservare la scena con distacco. Voleva coglierne tutti quei dettagli che avrebbero potuto tornare utili. Quelli che gli parvero secondi in realtà erano minuti. In quel lasso di tempo la scena dell’attentato era ancora deserta, priva di ogni tipo di presenza umana. Solo in seguito vide altri affacciarsi terrorizzati e increduli alle finestre dei palazzi vicini e qualche audace che si avventurava nella via per vedere che cosa fosse successo. Dopo un lungo, innaturale silenzio giunsero urla e imprecazioni; dai portoni fecero capolino i residenti sconcertati, i volti terrei di fronte all’unica auto parcheggiata, ora in fiamme, ridotta a un ammasso di lamiere contorte e fumanti. Alcuni, incuranti del pericolo e mossi perlopiù dalla curiosità, si avvicinarono al veicolo appena esploso; le fiamme però li obbligavano a tenersi ancora a debita distanza. La cortina di fumo nero che si alzava come un funesto totem tribale davanti al portone del palazzo di Raoul lo costrinse a spostarsi verso un’altra finestra, più distante dalle fiamme; il banchiere sapeva che di lì a poco avrebbe dovuto abbandonare l’ambiente se non voleva morire asfissiato. Con la memoria corse a decenni prima, quando un ordigno era stato fatto esplodere in prossimità della sua dimora: si trattava di un atto dimostrativo di poco conto, nemmeno paragonabile a ciò che era appena accaduto. Lia, sotto shock, raggiunse il banchiere. Apparentemente anche la donna era incolume, ma atterrita. Lui non la sentì arrivare perché ancora assordato dalla detonazione, ma si accorse della sua presenza con la coda dell’occhio. Prima che potesse avvicinarsi, le impose di allontanarsi subito da lì. Non era da escludere che gli attentatori fossero ancora in agguato, pronti a colpire gli occupanti del palazzo. Era una possibilità remota, degna del peggiore scenario di guerra urbana, ma il banchiere non la scartò. Raoul si mantenne di poco arretrato rispetto alla finestra, continuando a osservare, pronto anche a rispondere al fuoco. Tossì ancora, ma non si mosse. Voleva attendere il più possibile, osservare tutto ciò che poteva vedere, prima dell’arrivo delle forze dell’ordine. Quando il fumo si attenuò e l’odore del tritolo iniziò a mischiarsi con quello della plastica bruciata, Raoul distinse meglio la situazione in strada. Guardò verso via Broletto. Ciò che vide lo lasciò sgomento. Poi, l’ira s’impadronì di lui. *** Nonostante la sua dimestichezza con la morte e con la violenza, anche con quella più cieca, faticò a reggere la visione della bicicletta scaraventata a terra e delle due sagome distese a qualche metro di distanza da essa. C’era uno zaino di scuola rovesciato; poco più in là una donna con accanto una bambina. Giacevano immobili, come bambole di pezza. La scena, nella sua brutalità, aveva un che di surreale. Mentre il ronzio nelle orecchie del banchiere diminuiva, Raoul si accorse che i sistemi di allarme di appartamenti e negozi suonavano impazziti, confondendosi con il suono in distanza di alcune sirene. Non esitò oltre. Seguì l’impulso di abbandonare il suo appartamento. Dimenticò ogni precauzione. Non era quello il momento per pensare o formulare ipotesi. Seppur stordito, era determinato ad affrontare chiunque si ponesse sulla sua strada. Nel tamburo del revolver aveva cinque colpi, ognuno dei quali era in grado di fermare un toro in corsa. Se anche ci fosse stato qualcuno in strada ad attenderlo gli avrebbe riservato una sgradita sorpresa. Scese lo scalone di casa che conduceva nel cortile del palazzo. Lì trovò ad attenderlo Amedeo, il suo autista e factotum. L’uomo, avvezzo a ogni genere d’imprevisto, sempre a fianco del banchiere in ogni situazione, era vestito e armato. Imbracciava un fucile semiautomatico Beretta Tactical 1301 calibro 12 caricato con munizioni a pallettoni. Raoul non ebbe tempo di compiacersi per la prontezza del suo braccio destro. “Non muoverti da qui! Solo se senti sparare, raggiungimi”, gli ordinò Raoul, determinato a uscire da solo. Giunto nell’androne, il banchiere constatò la furia distruttrice dell’ordigno: il mastodontico portone d’ingresso era stato divelto per l’esplosione. I due pesanti battenti erano stati scaraventati a terra; intorno c’erano solo calcinacci e schegge. Alcune di queste avrebbero certamente ucciso chi si fosse trovato nel momento della detonazione nel cortile di casa. Di fronte al banchiere c’era l’auto esplosa. Una vampata di calore lo costrinse a ripararsi alla meglio il viso con la mano. Incurante, si avvicinò alla carcassa dell’auto. Il manto stradale si era come fuso lasciando il posto a una piccola voragine. Oltrepassò il mezzo, avanzando nella strada. La carreggiata era invasa da pezzi di cornicioni caduti, da persiane di legno e da vasi di fiori. I vetri in frantumi scricchiolavano sotto i piedi del banchiere. Impugnando la pistola, Raoul si precipitò verso la bicicletta che aveva scorto dalla finestra. Il cuore gli batteva con un incessante pulsare nelle tempie. Si avvicinò alla madre e alla bambina immobili, preparandosi al peggio. Si chinò sulla piccola. Non solo respirava, ma era viva e cosciente. Aveva qualche escoriazione, ma nulla che facesse pensare a ferite più gravi. Sperò che non avesse subito dei traumi interni. La madre era anche lei viva e dolorante; quando le fu accanto, la donna stava chiamando disperatamente la figlia. Raoul mostrò, seppur per poco, il suo lato umano. Le disse di non muoversi, ma la rassicurò sul fatto che sua figlia fosse viva. Non si rese neppure conto di quello che stava facendo, ma era il suo istinto a suggerirglielo; sarebbe rimasto con loro fino a quando non fossero arrivati i soccorsi. Le parole di conforto che ebbe per quelle vittime gli uscirono spontanee, cogliendolo alla sprovvista. Lui che era abituato a infierire sul prossimo, ad addestrare quotidianamente il proprio cinismo e a tenere in pugno le persone con l’arma del ricatto, agì in nome dei suoi valori più intimi. Non temeva quella che a tutti gli effetti era una dichiarazione di guerra nei suoi confronti, ma gli risultava inaccettabile che i suoi avversari non si facessero scrupolo di colpire innocenti. In quegli attimi di attesa che parvero infiniti, mentre aspettava l’arrivo delle ambulanze, Raoul accarezzava delicatamente i capelli scarmigliati della bambina cercando di consolarla. Nessuno aveva mai visto il banchiere nero riservare tanta tenerezza a un altro essere umano. Si infilò il revolver nella cintola, dietro la schiena, occultandolo sotto la giacca. Non voleva suscitare altra paura. Ebbe un flash che lo riportò indietro negli anni, quando grazie alle sue disponibilità economiche finanziava organizzazioni armate eversive, in lotta con lo Stato. Lui stesso prendeva parte a quelle attività sul campo. Il sogno di annientare l’ordinamento democratico, di sovvertirlo, a Raoul e a pochi altri appariva, se non a portata di mano, almeno realizzabile. E in quanto tale lo avrebbero perseguito e ottenuto a qualsiasi costo o quasi. Quel “quasi”, stava a significare un limite oltre cui il banchiere non sarebbe mai andato. Già in quel periodo, e anche prima, durante i cosiddetti “anni di piombo”, Raoul aveva preso coscienza del fatto che, pur nella pratica della violenza anche fine a se stessa, lui non era come gli altri. Questo non lo faceva sentire migliore o peggiore, ma lo aveva portato a delle scelte, a prendere decisioni che i suoi compagni non avevano compreso. Raoul cercava solo lo scontro alla pari dal quale traeva piacere anche sul piano personale. Il macchiarsi del sangue di innocenti rappresentava per lui un’onta indelebile. Non era disposto, per raggiungere i suoi scopi, a sacrificare vite di persone che non c’entravano nulla, a considerarle danni collaterali o un male necessario. Anche per uno come lui, assimilabile a un mostro privo di sentimenti, esistevano dei precisi confini invalicabili. Ripensò alla cosiddetta “strategia della tensione”, a quella pratica affinata e utilizzata sul finire degli anni Sessanta e per tutti gli anni successivi da quello Stato di cui ancora oggi si sentiva nemico e con cui non voleva avere niente in comune. Quello Stato che, indebolito dalle tensioni sociali, seminava il terrore con le bombe sui treni e nelle piazze, attraverso uomini dei suoi apparati e manovalanza nera o rossa che fosse. Diffondere la paura e il terrore per far sì che la gente diffidasse di chi davvero lottava contro il Sistema; centinaia di innocenti erano morti così, per rendere più forti le istituzioni e i loro apparati più o meno deviati. Questo era il pensiero di Raoul. Il banchiere riconosceva di essere un assassino, ma non di innocenti. Ecco perché in quel mattino milanese ciò che gli suscitò disgusto fu la spietatezza dei suoi invisibili avversari, disposti a tutto, pur di lanciargli il loro avvertimento. *** Il sopraggiungere della prima ambulanza lo riportò al presente. Lasciò che fosse il personale medico a occuparsi della bambina e della madre. Rimase a osservare i libri di scuola che spuntavano dallo zaino. Una scheggia di ferro, probabilmente della stessa auto esplosa, era conficcata in mezzo a esso. I libri, con il loro spessore, avevano impedito al frammento metallico di raggiungere la piccola. La bambina era stata miracolata. Il banchiere si allontanò, certo ormai che la sua presenza fosse inutile. Provò una rabbia profonda, quasi incontrollabile, scuotergli la coscienza. Se solo avesse avuto davanti anche il semplice esecutore materiale dell’attentato non avrebbe esitato a scaricargli la 357 Magnum in corpo, certo che ne avrebbe tratto godimento. Potendo scegliere gli avrebbe tirato almeno un colpo in testa, solo per vedere il cranio esplodere. Per il momento quella possibilità appariva remota. Tornò alla sua abitazione, rientrandovi dall’ingresso sfondato. La scena andava via via animandosi; molti degli abitanti dei palazzi vicini avevano preso coraggio ed erano scesi in strada, ma si tenevano ancora a distanza. Lui osservò l’auto in fiamme con disprezzo, come fosse il simbolo di una viltà di fondo, della mancanza di coraggio nell’affrontarlo apertamente. Se ne fece una ragione. Indifferente all’odore di bruciato, cercò un momentaneo conforto in un sigaro. Dalla tasca della giacca sfilò il suo astuccio in pelle di coccodrillo e ne prese uno. Il banchiere fumava solo Habanos Cohiba, i migliori cubani a detta sua, provenienti dalla zona di Vuelta Abajo. Ne incendiò uno con un fiammifero Minerva. La prima boccata di tabacco lo rinfrancò quel poco che gli bastava. Scorse Amedeo che era rimasto all’interno della proprietà, ma pronto a intervenire. Gli bastò un’occhiata per fargli intendere che la situazione era sotto controllo e che poteva riporre le armi. Inesorabilmente la scena, nei minuti che seguirono, si trasformò come era prevedibile: poliziotti e carabinieri sembrarono spuntare da ogni parte, i volti cupi ed esterrefatti per lo spettacolo che si parava ai loro occhi. Un’autobomba in centro a Milano non era cosa che accadeva ogni giorno. Il solo aspetto positivo era che per puro caso non c’erano stati morti, a differenza dell’ultimo tragico attentato risalente alla sera del 27 luglio 1993 in via Palestro. Sulla scorta di quel semplice ricordo era a tutti evidente che la carica di tritolo utilizzata in quella mattina era stata certamente inferiore. Pur avendo distrutto il portone e danneggiato le finestre, la struttura del palazzo aveva retto l’onda d’urto, a differenza del Padiglione d’Arte Contemporanea che era stato in parte sventrato in quella sera di fine luglio di tanti anni prima.
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