Capitolo II: Il viaggio della speranza-2

2194 Words
Kalifa, nel sorreggere la moglie, temette di non farcela; il rischio era finire schiacciati dalla calca di disperati che facevano di tutto per sfuggire ai libici. Il solo modo per farlo era muoversi, senza mai fermarsi, lasciandosi alle spalle i soldati che non smettevano di urlare e di minacciare che avrebbero ucciso tutti. Nessuno dei profughi sapeva che quel giorno, nonostante la tensione e il nervosismo, nessuno avrebbe sparato, come invece era accaduto in passato. Karim era stato chiaro e risoluto sul fatto che tutti i migranti, nessuno escluso, dovessero essere imbarcati vivi. Non c’era spazio per quel genere di violenze gratuite che potevano sfociare in qualche brutale assassinio o in improvvisate esecuzioni. Accadeva spesso che, per calmare gli animi dei più riottosi, specie di coloro che si rifiutavano di attraversare il mare su certe bagnarole, i libici sparassero. In genere lo facevano in modo spietato, sotto gli occhi di tutti per riportare la situazione alla normalità. Un colpo alla nuca e un cadavere gettato nelle acque del porto servivano da monito per tutti coloro che non se la sentivano di salire sulle barche. Kalifa, pur nella confusione generale, individuò un angolo riparato sul ponte principale a prua, in uno dei saloni dotati di poltroncine per i passeggeri. Fece accomodare la moglie su una di esse, mentre Morathi lo aiutava. I due cercarono di far sistemare la donna nel modo più confortevole possibile. Il ragazzino sapeva che cosa avevano fatto a sua madre e si adoperava a suo modo per lenirne le sofferenze. Kalifa le poggiò una mano sulla fronte. Binta aveva la febbre. Tentò di dissimulare la sua preoccupazione per le condizioni di salute della moglie. Prese una delle due bottiglie di plastica piene di acqua che gli erano state date prima di salire e la fece bere. “Prendila. Vedrai che dopo ti sentirai meglio”, le disse accostandole la bottiglia alle labbra. Binta fece qualche sorso. Gli sorrise e infine si rannicchiò su se stessa e chiuse gli occhi. Poco dopo la stanchezza ebbe il sopravvento e si addormentò, vegliata dal marito e dal figlio. Intorno a loro altre famiglie prendevano posto, sistemandosi alla meglio. Quelli che non riuscivano a trovare un posto sulle poltrone si mettevano a terra, nei corridoi, all’esterno, ovunque ci fosse uno spazio per sedersi. Nessuno si lamentava. Dopo i giorni trascorsi a Bani Walid anche quel vecchio traghetto sovraffollato sembrava la migliore sistemazione che potessero augurarsi. “Tua madre ha bisogno di riposo. Vedrai che presto starà meglio”, disse Kalifa al figlio, accarezzandogli i capelli ricci con un gesto carico d’affetto. Cercò di nascondere tutta l’incertezza che provava nel pensare all’imminente viaggio. Era consapevole che rispetto agli altri profughi destinati alle imbarcazioni più piccole e addirittura prive di protezioni come i gommoni erano stati fortunati, ma i timori per la traversata rimanevano. Passarono alcune ore prima che i natanti salpassero dal porto di Misurata. Fu solo nel tardo pomeriggio che la nave si mosse e lentamente prese il largo. Gli uomini armati di Karim erano scesi, lasciando a un apposito equipaggio pagato dall’organizzazione il compito di condurre il traghetto verso l’Italia. I marinai scelti erano persone dei villaggi vicini, gente poverissima che per un po’ di soldi era disposta a compiere il viaggio. Si trattava di ex pescatori che durante la guerra avevano perso tutto ciò che avevano o ancora di marinai della vecchia marina militare libica che per sopravvivere si prestavano al ruolo di scafisti. Quasi tutti, una volta giunti in Italia, venivano rimpatriati e facevano ritorno in Libia per poi essere nuovamente impiegati in attività simili. L’assenza di militari a bordo rassicurò i passeggeri che per la prima volta, dopo settimane di prigionia, si sentirono liberi. Nessuno avrebbe mai dimenticato gli orrori visti e subiti, ma una nuova e timida speranza si affacciò nei cuori della maggior parte dei presenti, cullata dal monotono rollio dello scafo accarezzato dalle onde. Il mare quel giorno era placido. I migranti che affollavano i ponti esterni del traghetto rimasero incantati dallo spettacolo dell’orizzonte in cui un sole simile a un perfetto disco purpureo sfolgorava di riflessi sanguigni prima d’immergersi nelle acque scure. Per la maggior parte di loro era tutto nuovo. Molti non avevano neppure mai visto il mare né tantomeno erano saliti su di un natante. Con il calare della sera giunse una quiete che pervase tutti. Sui ponti e in tutti gli angoli della nave non si sentivano che voci sommesse o il pianto di qualche bambino piccolo, subito placato dalle cure amorevoli della madre. Anche Morathi, nonostante la stanchezza, rimase a guardare lo spettacolo della sera sul mare. Con un tozzo di pane per cena, lui e gli altri ragazzini, radunatisi all’esterno, osservavano rapiti quella vastità. Intorno a loro scorgevano a distanza alcune delle altre imbarcazioni che erano presenti a Misurata, ma altre erano troppo lontane per essere viste. Morathi cercò d’immaginare quella terra promessa di cui suo padre gli aveva tante volte parlato e dove lo avrebbe portato per iniziare una nuova vita. Non ci riuscì. Solo quando l’oscurità prese il sopravvento e il cielo si affollò di stelle, Kalifa condusse suo figlio nel salone interno per dormire. Il rumore basso e profondo dei motori del traghetto insieme al rollio dello scafo favorirono il sonno privo di sogni del ragazzino. Kalifa rimase per un po’ a osservarlo; accanto a lui Binta dormiva già da alcune ore; a volte aveva un sussulto, come se una fitta di dolore la raggiungesse e ne disturbasse il riposo. Poco prima di mezzanotte anche l’uomo fu sopraffatto dalla fatica e si abbandonò al sonno. *** Concluse le operazioni d’imbarco dei profughi, che erano durate tutta la giornata sotto la supervisione di Karim, quell’area del porto di Misurata ritornò a essere quasi deserta. Con la sera tutte le attività furono sospese per poi ricominciare il mattino successivo. Il libico e i suoi si erano ritirati nel loro quartier generale, lasciando al porto una nutrita guarnigione. C’era una cinquantina di uomini acquartierati in quelle che un tempo erano infrastrutture portuali, una serie di edifici e palazzine riadattate ad alloggi per la truppa. Quando Karim rientrò nella città vecchia, nella sua casa, provò una sensazione di pace e di sollievo, lontano dalla confusione e dalla massa di persone sulle quali aveva dovuto vegliare per ore. Si sedette all’ombra di una vecchia pianta di ulivo che dominava il piccolo cortile. Accanto vi era un pozzo dotato di una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. Karim prese un secchio che calò utilizzando la vecchia carrucola. Si lavò il viso con l’acqua fresca, concedendosene alcune sorsate abbondanti. Quel posto era molto diverso dalla casa in cui era vissuto. Karim era originario di Zliten, una cittadina che si affacciava sul mare e che faceva parte del distretto di al-Margub. I suoi genitori abitavano ancora lì, vicino alla moschea sufi, la stessa che nell’agosto del 2012, dopo la caduta di Gheddafi, era stata assaltata e semidistrutta. In quei giorni Karim era tra le file dell’esercito libico allo sbando, privato di colui che per decenni aveva guidato e mantenuto sotto l’ala del suo comando tutta la Libia. Karim aveva provato un senso di smarrimento nell’assistere alla furia devastatrice di una folla ostile ai sufi che aveva preso di mira proprio la moschea, tentando di raderla al suolo. I responsabili dell’attacco, decine e decine di persone, erano riusciti solo a bruciare molti dei libri lì conservati e a danneggiare, seppur in maniera pesante, la tomba del Mausoleo di Sidi Abdulsalam al-Asmar al-Fituri, un sufi morto nel 1575. La diffidenza nei confronti dei sufi, repressa per decenni ma mai del tutto sopita, era divampata in quegli anni in Libia e in altri paesi arabi subito dopo. Karim ripensò a quel periodo e a tutto quello che era accaduto in seguito. Da giovane sottufficiale dell’esercito libico si era ritrovato presto arruolato nel nuovo esercito di liberazione, ed era rimasto travolto dal sangue della guerra fratricida in corso. Nel paese in preda al disordine la sola via che gli era sembrata possibile era stata quella della violenza e della sopraffazione. L’alternativa era assistere al conflitto, rischiando di perire tra abusi, soprusi e miseria. In poco tempo il libico si era trasformato non solo in un assassino, ma soprattutto in un mercante di esseri umani. Se il somalo Osman era stato addestrato fin da adolescente a uccidere, Karim era giunto a quella pratica da adulto, con consapevolezza e di sua spontanea volontà. Quando ripensava a suo padre che per tutta la vita aveva fatto il pastore sentiva su di sé il peso della strada intrapresa e soprattutto la diffidenza che il genitore nutriva ora nei suoi confronti. Il vecchio padre non riconosceva più in Karim quel figlio che non aveva voluto seguire la sua strada e che aveva lasciato la casa natale prima per arruolarsi nell’esercito e poi per diventare il capo di una delle tante bande armate che si spartivano la Libia. Benché Karim non avesse mai fatto parola con gli anziani genitori di ciò che faceva a Misurata, le voci correvano ed erano giunte fino alla vecchia dimora nella quale egli aveva sempre vissuto. *** Quella sera Karim cenò con del capretto che i suoi uomini avevano macellato e arrostito. La carne era stata cotta su una griglia improvvisata, ricavata da una piastra di ferro che un tempo faceva da protezione al radiatore di un camion. Anni prima il mezzo era stato centrato e distrutto da un colpo di RPG sparato durante i combattimenti scoppiati in città. Dalla carcassa carbonizzata e dalle lamiere annerite e ritorte, i guerriglieri erano riusciti a recuperare materiale che poteva ritornare utile. Gli anni della guerra civile avevano insegnato alla perfezione l’arte del recupero e sviluppato ulteriormente uno spirito di adattamento già presente nella popolazione. Nella dimora che ora occupava c’era anche una televisione e l’antenna parabolica permetteva di vedere numerosi canali europei. Karim raggiunse le cucine che si affacciavano sul cortile. Da un piccolo frigorifero prese una birra e salì al secondo piano. Entrò in quelle che erano le sue stanze. Raggiunse un terrazzino dove si sistemò alla meglio. Si sdraiò su un’amaca. La fresca aria della sera gli diede un inaspettato sollievo. Si sentì addosso tutta la stanchezza della giornata, ma al contempo era soddisfatto per essere riuscito a portare a termine senza intoppi tutte le operazioni nel porto. Guardò in direzione dell’orizzonte, ma vide solo una distesa di tetti, terrazze e case. Pensò a tutti i profughi in viaggio e si interrogò su quale fosse il motivo di quella insolita partenza in massa di migranti. Non se ne era mai verificata una di simili proporzioni; la regola era che il somalo portasse a Misurata solo i profughi che avevano pagato. Poteva accadere che per intere settimane non partisse nessuno; solo quando il somalo radunava un numero sufficiente di profughi atti a lasciare la Libia, allora Karim si occupava della logistica secondo una catena di comando perfettamente collaudata. Si domandò ancora che cosa sarebbe successo quando Osman sarebbe partito e chi avrebbe preso momentaneamente il suo posto. Infatti nel pomeriggio di quel giorno, giunto al porto a bordo di uno degli ultimi camion, il somalo gli aveva comunicato la sua disponibilità a raggiungere l’Italia per conto dell’organizzazione. Munito di documenti falsi e di una nuova identità, Osman sarebbe partito di lì a due giorni a bordo di una barca insieme a un gruppo ristretto di migranti libici che non sapevano chi fosse. Si trattava di quattro famiglie che avevano pagato per partire, insieme a un’altra originaria del Ciad e giunta a Misurata attraverso altri mezzi di fortuna. Una barca, in buone condizioni, li avrebbe condotti in acque sicure fino all’incontro con un mercantile battente bandiera straniera, con il quale erano stati presi accordi. Osman sarebbe stato trasferito a bordo e avrebbe viaggiato fino al porto di Genova, dove sarebbe poi stato preso in carico da altro personale, prima di giungere a destinazione. L’imbarcazione con a bordo le famiglie avrebbe proseguito fino a raggiungere quella zona di mare dove sarebbero stati poi soccorsi. Il somalo sarebbe rimasto in Italia per poco più di un mese, poi avrebbe fatto ritorno in Libia. La natura della missione che lo attendeva in Italia gli era sconosciuta. Karim si domandò ancora quali fossero i motivi di quella scelta, perché avessero voluto in Italia Osman e non lui. I suoi diretti superiori non erano persone inclini al dialogo e alle confidenze e quindi non lo avrebbe saputo. Non provò invidia per quella possibilità che a lui non era stata offerta: sapeva che non si trattava di un viaggio di piacere. Forse nei giorni e nelle settimane a seguire la situazione sarebbe stata più chiara e avrebbe saputo qualcosa. Per ora poteva ritenersi sufficientemente soddisfatto. Accese la televisione. Dopo aver cambiato canale più volte si soffermò sulle immagini di una commedia francese trasmessa in quel momento da France 2. Karim non comprendeva quella lingua che però gli piaceva. In particolare, aveva un debole per le donne francesi. Lo attraevano per quei modi di fare sofisticati, mai volgari, a differenza di come gli apparivano certe bellezze d’oltreoceano. Rimase davanti alla televisione, riempiendosi i polmoni dell’aria che spirava dal mare.
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