Capitolo II: Il viaggio della speranza-1

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Capitolo II Il viaggio della speranzaPorto di Misurata, Libia Lo sciabordio delle acque contro le chiglie delle imbarcazioni creava strani riflessi metallici sulla superficie del mare. Un’alba esangue, screziata da venature violacee, aveva iniziato ad illuminare da est un cielo grigio e piatto. Le ultime stelle della sera andavano via via spegnendosi. Diverse guardie armate stavano sedute lungo le banchine; molte avevano trascorso la notte lì, a vegliare l’improbabile e variegata flottiglia radunata nei giorni precedenti. Si erano costruite ripari per la notte con tende di fortuna e sfruttato vecchi bidoni di ferro nei quali avevano tenuto accesi fuochi per illuminare e scaldarsi. I più organizzati si erano addirittura muniti di fornelletti da campo e caffettiere per disporre sempre della nera bevanda. Nell’aria c’era un clima di attesa. Tutti sapevano che di lì a poco quella zona del porto in apparenza dismessa si sarebbe riempita di persone. Un brulicare di uomini e donne e bambini, costretti a stiparsi e ad ammassarsi gli uni sopra gli altri sotto il sole cocente in attesa dell’imbarco. Alcuni sarebbero scivolati in acqua dalle banchine, sospinti dalla massa assiepata. Scene che si ripetevano ogni volta che c’era una partenza in atto. La presenza di vecchi barconi dall’aria usurata, un tempo utilizzati dai pescatori locali prima della guerra, o addirittura di gommoni provenienti dai depositi saccheggiati dell’ex marina militare, non facevano pensare che quel luogo fosse il principale punto di partenza di profughi dalle coste libiche. Gli stessi migranti, quando venivano condotti al porto, pur giungendo da paesi poverissimi provavano stupore e incredulità di fronte all’improbabile flotta usata dagli scafisti. Nessuno credeva che fossero quelle le imbarcazioni a loro destinate per il viaggio. Poi man mano che la voce si diffondeva e capivano che non sarebbero arrivate altre navi a prenderli, allora si rassegnavano. Era evidente che la maggior parte dei natanti sui quali avrebbero proseguito il viaggio era del tutto inadatta alla lunga traversata che li attendeva. La sola speranza era di essere soccorsi il prima possibile dalle navi delle Ong che pattugliavano la zona di mare verso cui erano diretti. Quel mattino si percepiva nell’aria come un fremito, uno stato di crescente fibrillazione che normalmente non c’era e che ben presto aveva dissipato ogni traccia di sonno e di stanchezza dai volti degli uomini di Karim. Quello era il primo giorno con il quale si dava il via alla più grande operazione di imbarchi mai fatta da quando erano iniziate le migrazioni dal Nordafrica verso l’Europa. Sarebbero stati giorni febbrili quelli che si prospettavano per i mercanti di schiavi. Nel giro di qualche ora la quiete di un mattino come altri fu spazzata via da voci, ordini urlati a squarciagola, raffiche di mitra esplose in aria e dal rumore dei motori diesel di vecchi mezzi di trasporto che giungevano in prossimità del porto annunciando il loro arrivo a colpi di clacson. L’odore della nafta delle imbarcazioni si mischiava al salmastro del mare e a quello dei gas di scarico dei camion. L’aria si fece ben presto acre, soffocata da una cappa di fumi densi e di umidità ristagnante. Il porto assunse l’aspetto di un gigantesco formicaio nel quale migliaia d’insetti si accalcavano e andavano a occupare e a riempire ogni spazio libero. La scena, vista dall’alto, evocava una bolgia dantesca di anime in cerca di redenzione, esseri umani che si affannavano nel disperato tentativo di sopravvivere. Erano tutti migranti giunti dal campo di Bani Walid. Quel mattino erano stati svegliati prima del solito. Gli uomini di Osman avevano intimato di prendere le loro poche cose e di radunarsi in uno degli spiazzi del campo. In breve, si erano formate lunghe file di persone in coda dagli edifici in cui alloggiavano fino al luogo prescelto. L’insolita presenza di numerosi camion aveva messo in allarme i profughi, sempre più incerti sul loro destino. In pochi minuti si era sparsa la voce che sarebbero partiti tutti; la notizia aveva generato una strana euforia. Le centinaia di volti sofferenti sembravano ora come sbigottiti dalla prospettiva insperata di andarsene. Seppur ancora prigionieri e alla mercé dei loro aguzzini, presto divenne chiaro a tutti che avrebbero lasciato in massa il campo. Alcuni sarebbero partiti subito, altri nei giorni successivi, ma nessuno sarebbe rimasto lì, compresi coloro che non avevano alcuna speranza di andarsene e per i quali non erano stati pagati riscatti. Tra i primi a salire su uno dei camion e a intraprendere l’ultimo viaggio prima dell’imbarco c’erano Kalifa, Binta e Morathi. Stremati per tutto ciò che era accaduto poche ore prima, i tre erano saliti attoniti sul retro del mezzo, tenendosi vicini. Si erano portati appresso i pochi vestiti che avevano e un telefono cellulare, il solo mezzo con il quale erano rimasti in contatto con i parenti in Eritrea. Binta si reggeva in piedi a fatica per la violenza subita il giorno prima. Kalifa l’aveva sorretta e aiutata a sistemarsi in un angolo del camion; con alcune coperte aveva creato una sorta di giaciglio sul quale farla sedere affinché stesse più comoda durante il trasferimento. Nessuno ne conosceva la durata. L’uomo era preoccupato per le condizioni della moglie; era come se le avessero estirpato l’anima. Binta era in uno stato vegetativo, incapace di reagire, se non agli stimoli più elementari. Kalifa l’aveva tenuta stretta a sé per tutto il tragitto, cercando con il suo corpo di ripararla dal sole. Il viaggio fino a Misurata era durato due ore, senza soste, lungo strade dissestate, senza acqua né cibo. Una spessa cortina di fumo e di sabbia mista a terra, sollevata dai mezzi che aprivano la lunga colonna in marcia, avvolgeva gli occupanti dei camion. Giunti a destinazione, la maggior parte dei migranti era già spossata. Karim aveva dato precise disposizioni ai suoi miliziani per velocizzare le operazioni d’imbarco e cercare di creare meno confusione possibile al porto, evitando quindi che si creassero disordini o che qualcuno dei profughi cercasse di fuggire alla vista delle navi. Il libico dormiva in una grande casa antica all’interno della città vecchia. Lì aveva installato il suo quartier generale, all’ombra di mura secolari, vicoli tanto stretti da lasciar passare soltanto una persona, archi e archetti che collegavano tra loro le abitazioni. Quel mattino era giunto di buon’ora scortato dai suoi luogotenenti e da un manipolo di fedelissimi. Subito aveva cercato riparo dalla calura in uno dei vecchi uffici della guardia marittima dai quali poteva godere di una vista completa sul molo, sulle banchine e sui natanti attraccati. Gli fu servito del caffè bollente e molto zuccherato. Si mise a osservare soddisfatto il sistematico trattamento riservato ai profughi via via che scendevano dai mezzi. I suoi uomini agivano di concerto tra di loro, come truppe perfettamente addestrate. In realtà, a tenere unite le fila di quella milizia composta da assassini e reietti non era lo spirito di corpo, ma la paga sostanziosa, specie se rapportata alle condizioni di generale povertà in cui versava il paese. L’aver dato loro la possibilità d’imbracciare le armi, indossando le vecchie divise dell’esercito libico, era già molto, specie in una nazione allo sbando in cui solo il più forte sopravviveva. Al loro arrivo i migranti venivano fatti scendere velocemente dai camion. Chi si attardava veniva trascinato giù senza complimenti. Dopodiché li si obbligava a lasciare tutto quello che avevano portato con sé. Presto iniziò a formarsi una piccola montagna di vestiti, coperte e lenzuola che cresceva man mano che le persone arrivavano. A nessuno era dato conoscere il motivo della necessità di abbandonare ogni effetto personale, ma gli ordini dei soldati erano categorici. Nessuno fiatava, ma tutti eseguivano ciò che veniva detto loro. Anche le madri con i bambini più piccoli erano costrette a lasciare perfino quel poco che sarebbe potuto servire per il viaggio. Dietro a quella richiesta in apparenza inspiegabile si celava una precisa esigenza logistica. Karim sapeva che i natanti radunati non avevano la capienza sufficiente per accogliere tutte le persone in arrivo da Bani Walid, ma avrebbe fatto di necessità virtù. Non si sarebbe fatto scrupolo di stiparle all’inverosimile, incurante delle condizioni del viaggio e dei rischi annessi. Ogni metro quadro risparmiato equivaleva al posto che un migrante poteva occupare. Karim aveva stimato che in quei giorni da Misurata sarebbero dovute partire poco più di duemila di persone solo dal campo di Bani Walid. A esse se ne sarebbero aggiunte altre da Cufra, che non avrebbe neppure fatto transitare per il campo di Osman, ma che il somalo avrebbe dovuto far giungere direttamente al porto. Quelle in sovrannumero sarebbero servite come margine in caso di perdite e di naufragi. Il numero di migranti che doveva giungere in Italia questa volta doveva essere garantito. Non si trattava semplicemente dello smercio di esseri umani che finiva nel momento in cui lasciavano le coste libiche. Le disposizioni erano chiare: i migranti salpati dovevano giungere vivi e in massa a destinazione, approdando a Lampedusa e altre isole adatte allo scopo. Le navi delle associazioni volontarie presenti in acque internazionali avrebbero obbligatoriamente fornito un aiuto. Il primo obiettivo era creare una situazione di emergenza nei centri di accoglienza predisposti a ospitare un limitato numero di profughi per volta. Si voleva giungere al collasso delle strutture così da avviare l’attivazione di un ponte straordinario per il trasferimento dei profughi dalle isole alla terraferma. Questo era tutto ciò di cui il libico era a conoscenza. Una volta lasciati gli effetti personali, ai migranti veniva data dell’acqua, una bottiglia per ciascuno, e del pane. Chi chiedeva altro si sentiva rispondere che sulle barche c’erano viveri a sufficienza per il viaggio. In realtà le scorte di acqua e cibo erano ridotte all’osso e non sarebbero state sufficienti per compiere l’intera traversata. L’importante era che salpassero alla svelta per giungere il più rapidamente possibile in Italia. Le condizioni del mare, secondo le previsioni, sarebbero state favorevoli anche per tutti i giorni successivi. Osman, da parte sua, si era attenuto agli ordini. I camion, una volta scaricate le persone, tornavano senza sosta a Bani Walid per prelevarne altre e portarle di nuovo a Misurata. Le operazioni sarebbero andate avanti fino all’imbrunire. *** Quando Kalifa, Binta e Morathi giunsero al porto, presero coscienza che il momento tanto atteso era arrivato. Dopo settimane di viaggio e di privazioni, la visione del mare fu quasi traumatica. Non provarono sollievo, ma una crescente ansia che si sommò alle sofferenze patite. Raggiunsero le centinaia di esseri umani che sostavano in attesa di salire alla spicciolata sulle barche. Chi si attardava o si mostrava incerto veniva spinto e strattonato con la minaccia delle armi. I più sfortunati erano quelli destinati ai grandi gommoni: ragazzi, in genere, ritenuti più resistenti e in grado di arrivare vivi prima di essere tratti in salvo. Sui vecchi pescherecci e sull’unico traghetto presente, un tempo destinato al trasporto di mezzi e persone dalle coste della Libia a quelle della Tunisia, furono fatte salire le famiglie. I passeggeri, frastornati dalle urla delle guardie, salivano affrettandosi pur di allontanarsi da loro. Tutti cercavano di sistemarsi alla meglio, in particolare trovando rifugio lungo i vari ponti del traghetto, ma soprattutto all’interno delle sale, confidando in un riparo dalle intemperie e dal sole. La vista del portellone di poppa spalancato apparve in tutta la sua grandezza a Kalifa, a Binta e a Morathi; i tre non avevano mai visto un’imbarcazione simile e non pensavano neppure che potesse esistere. Vi entrarono, sospinti da una massa di persone che come loro desideravano trovarvi un posto e lasciarsi alle spalle finalmente gli orrori del campo. Il grande ventre metallico li accolse al suo interno suscitando in loro stupore e sorpresa; non ebbero il tempo di rendersi conto di dove fossero e neppure fu concesso loro di orientarsi e prendere confidenza con quel luogo. I militari libici sembravano spuntare da ogni recesso del traghetto con i loro volti aguzzi, sui quali affioravano solo odio e disprezzo per le persone che stavano imbarcando. Kalifa sentì la canna di un mitra premergli brutalmente nella schiena. Era un invito a non perdere tempo e a salire lungo una delle ripide scale di ferro interne che portavano ai ponti superiori. Temette per Binta che si aggrappò a lui per riuscire a fare i gradini, resi scivolosi dalla salsedine. Anche Morathi sosteneva la madre, spaventato da tutto ciò che vedeva e succedeva intorno a lui: l’odore persistente del carburante che gli entrava nelle narici, le voci concitate e le decine di volti, divenuti ormai familiari, di coloro con cui aveva condiviso la permanenza al campo. Il bambino fece in tempo a scorgere alle sue spalle Amir, un coetaneo, che lo seguiva lungo la scala insieme a sua sorella Aisha e ai genitori Abebe e Jemila. Gli sguardi dei ragazzini che erano diventati amici durante la comune odissea s’incontrarono per qualche istante. Sui visi affiorò un breve sorriso d’intesa, presto sommerso dalla massa di corpi che li spingeva e li obbligava a non fermarsi.
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