Capitolo I: La collina degli angeli-3

2729 Words
*** Una luna diafana annunciò la sera facendo capolino dalle colline intorno al campo. Contemporaneamente si udiva un latrare lontano di cani, portato dalla brezza fredda che spirava da nord. Gli uomini che quel giorno avevano giocato la partita, perdendola, si ricongiunsero con le loro famiglie. La rassegnazione allo scempio subito ebbe il sopravvento. Ogni altro sentimento fu annullato. Il desiderio di vendicarsi dei propri aguzzini era un qualcosa di sconosciuto a chi aveva subito ogni genere di umiliazioni. Morathi rimase fuori dalla palazzina, in quell’angolo nel quale aveva trascorso l’intero pomeriggio. Kalifa lo raggiunse e gli porse la mano. Era giunto il momento di andare. Padre e figlio si guardarono cercando disperato conforto l’uno nell’altro. Kalifa si sentiva in colpa per non essere stato in grado di difendere la sua famiglia dall’orrore di quei giorni. Avrebbe voluto piangere, ma non versò una lacrima. In quel momento doveva essere di esempio a suo figlio. Morathi non si mosse. Il padre si chinò e gli accarezzò il viso. Solo allora i grandi occhi del bambino si fecero lucidi. Kalifa lo abbracciò, stringendolo a sé. L’uomo si sforzava di non pensare a sua moglie e a ciò che le era stato fatto. Le gambe gli tremarono per la stanchezza, ma cercò di consolare suo figlio. Apparve più forte di quello che era. “Ti prometto che presto sarà tutto finito. Ce ne andremo da qui. Devi essere forte, figlio mio”, gli sussurrò il padre, più sperando che credendo in ciò che gli aveva appena detto. Kalifa sapeva che i suoi parenti, qualche giorno prima, avevano pagato il riscatto chiesto dagli uomini di Osman per poter proseguire il viaggio. Forse l’indomani sarebbero partiti davvero come il somalo aveva preannunciato. Una volta lasciate le coste della Libia per affrontare le insidie del mare allora avrebbe potuto sperare che il calvario fosse giunto al termine. Ma fino a quel momento, ogni cosa era incerta. *** Quasi tutti i migranti erano rientrati nell’edificio per ricongiungersi con le loro mogli e figlie. Solo pochi si attardavano, temendo che Osman fosse ancora all’interno. In realtà il somalo se ne era già andato, uscendo dalla parte opposta. C’era un’altra scala che ne permetteva l’accesso. Dopo aver richiamato all’ordine i miliziani, egli si era ritirato nel suo alloggio. Nessuno dei migranti si poteva avvicinare a quella costruzione più bassa delle altre nella quale risiedeva. In qualità di comandante disponeva di tutte quelle comodità che per gli altri erano impensabili: acqua corrente e acqua calda, un condizionatore, un frigorifero e la televisione. Le sole che avevano visitato quelle stanze erano state alcune prigioniere che il somalo aveva voluto a sua disposizione. Osman non prendeva parte agli stupri di gruppo, ma preferiva scegliere, tra le donne presenti nel campo, quelle destinate a soddisfare i suoi desideri. Aveva un debole per le ragazze giovanissime. Più erano giovani e indifese e più accendevano il suo sadismo. Alcune di queste, dopo aver subito le violenze, venivano ricondotte alle famiglie in condizioni drammatiche. Talvolta non riuscivano nemmeno a sopravvivere, anche a causa delle precarie condizioni sanitarie del campo e quindi dell’impossibilità di curarsi. Non esistevano medici. Bambine e ragazzine morte di setticemia per le lesioni e le torture inflitte venivano seppellite nei pressi del campo, gettate in una buca e ricoperte con un po’ di terra quando andava bene. Se i miliziani non avevano voglia di scavare, ed era quasi sempre così, lasciavano i resti delle vittime in pasto ai cani randagi. “La collina degli angeli”: era questo il nome con cui i migranti avevano iniziato a chiamare la piccola altura che si scorgeva a sud del campo, oltre il reticolato e il filo spinato. Era lì che venivano portati i bambini e le bambine che morivano a Bani Walid. A nessuno dei genitori era permesso di assistere alle rare inumazioni. Quando uno dei piccoli moriva, il corpicino veniva caricato dalle guardie su un pick-up e avvolto in un sacco di plastica come fosse immondizia. Il mezzo si fermava sul crinale della collina, dove sorgevano pochi ulivi ritorti, soffocati da sterpaglie e rovi. Vi rimanevano il tempo necessario che occorreva per liberarsi di quell’inutile fardello. I genitori che avevano perduto in quel modo i propri figli avevano giurato che un giorno sarebbero tornati lì, per dare loro una sepoltura adeguata. Avrebbero cercato i resti tra i tanti, magari riconoscendoli dai vestiti o da qualche ninnolo che portavano al collo. Secondo il rito musulmano, li avrebbero avvolti in un lenzuolo per poi seppellirli in un vero cimitero. Con il passare dei mesi e degli anni, in realtà, della maggior parte di quelle creature innocenti non restavano che pochi frammenti di ossa spolpate dagli animali selvatici. Nelle giornate di sole essi rilucevano bianchissimi, sferzati dai venti che spazzavano la sommità del colle. E se per quelle ossa non c’era pace, un destino altrettanto tragico spettava a quei minori che giungevano al campo da soli o affidati a un solo parente, anch’egli in fuga. Mandati in viaggio da famiglie poverissime, essi erano alla mercé dei miliziani. Nessuno li avrebbe mai neppure reclamati e della loro esistenza non sarebbe rimasta traccia alcuna. E ancora c’erano gli orfani che venivano condotti al campo dopo le retate che gli uomini di Osman facevano nei villaggi. Questi, per lo più adolescenti, vittime dei tanti conflitti dell’Africa subsahariana, venivano portati via e condotti in schiavitù dai moderni trafficanti di schiavi, venduti e ceduti tra bande di predoni, usati come moneta di scambio. Esseri umani destinati al traffico di organi, utilizzati al pari di animali da laboratorio, ceduti come schiavi del sesso. Bani Walid era il principale crocevia di questo mercato clandestino e Osman ne era il responsabile. *** Quando il comandante aprì la porta dell’alloggio trovò Karim Farag ad attenderlo. Il militare libico stava sprofondato nel vecchio divano con gli anfibi impolverati appoggiati sul tavolino; sorseggiava una Heineken ghiacciata, godendosi l’aria fresca del condizionatore. Colse un moto di sorpresa e di stizza attraversare lo sguardo di Osman, ma a differenza di altri, non lo temeva. Si conoscevano da tempo e fra loro c’era confidenza. Con uno sforzo, vincendo la stanchezza per la giornata appena trascorsa, Karim si tirò in piedi e lo salutò. Quest’ultimo era poco più alto dell’altro, l’incarnato olivastro e una barba incolta a incorniciarne i lineamenti scavati. Sul capo portava un vecchio basco di un colore verde stinto. Dapprima il somalo rimase immobile a squadrarlo, quasi a sottolineare l’atteggiamento insolente che aveva nei suoi confronti. Era il suo modo di fare; poi lo raggiunse e lo abbracciò in modo fraterno. Il loro sodalizio durava da anni. Era stato Farag a scegliere Osman tra i vari mercenari africani che avevano partecipato al conflitto libico e a metterlo a capo del campo profughi come suo uomo di fiducia. Un incarico di assoluta responsabilità, ma anche di prestigio, con il quale il somalo si era arricchito. “As-salaam alaykum1, fratello”, disse Karim stringendolo a sé e mostrando tutta la sua amicizia in quel gesto dal significato profondo. “Devi scusarmi se non ti ho avvisato del mio arrivo, ma sono partito oggi pomeriggio stesso e speravo di trovarti qui. Ho provato a chiamarti, ma non eri raggiungibile. Quando sono arrivato mi hanno detto che saresti ritornato in serata da Cufra. Così ho deciso di mettermi comodo e di aspettarti”, proseguì il libico, spiegandogli il motivo della sua improvvisa comparsa. “La mia casa è la tua casa. Tu sei sempre il benvenuto, fratello”, rispose Osman sfilandosi dall’abbraccio e andando a sedersi su una vecchia e logora poltrona di pelle posta di fronte al divano. “Hai sete?”, chiese l’ospite, dimostrando un autentico riguardo nei confronti del somalo che gli era secondo in comando. Osman annuì; prima che potesse alzarsi, Karim stava già prendendo dal frigorifero una bottiglia di birra che porse a Osman. Dopodiché si risedette di fronte a lui. Da una tasca della mimetica prese un pacchetto di sigarette e l’accendino. Ne accese una. Non le offrì al somalo perché sapeva che non fumava. Karim si concesse una profonda boccata di tabacco, seguita da un sorso di birra. “Dobbiamo svuotare il campo”, fece lapidario. Osman a quelle parole trasalì. L’indomani come da routine avrebbe trasferito poco più di duecento profughi. Non comprese che cosa intendesse Karim. Prima che potesse aprire bocca, il libico entrò nel merito della questione che incombeva. “Non dipende da me. È una decisione giunta in queste ore. Abbiamo una settimana per portare tutti a Misurata e imbarcarli per l’Italia. Cominciamo domani da Bani Walid. Successivamente andremo a Cufra per trasferirne altri”, gli annunciò il militare con tono calmo, ma risoluto. Quell’ulteriore spiegazione non placò la crescente irritazione del somalo, ma sortì l’effetto contrario. “Che cosa stai dicendo?!?”, sibilò Osman sbalordito, mentre i suoi occhi si facevano stretti come due fessure. Karim fece un sorriso. “Sono ordini, fratello, che non dipendono dalle nostre volontà. I finanziatori ci chiedono questo. Sai che non ammettono ritardi o scuse. Noi siamo qui per eseguire la loro volontà”, proseguì serafico il libico. “Molti di questi straccioni non hanno ancora pagato il loro riscatto! Ci sono transazioni in ritardo. Non posso permettere che s’imbarchino prima di aver ricevuto i soldi!”, insistette l’altro. Karim scosse la testa, ma senza perdere la sua pazienza. “Credo che tu ancora non ti renda conto dell’entità e dell’importanza di ciò che ci chiedono. Desiderano una partenza in massa di persone, qualcosa che non si è mai verificato prima. Spetta a noi organizzarla e garantirgliela. Per noi non cambierà nulla, se è questo che ti preoccupa”, specificò Karim, conoscendo bene l’avidità del somalo. “I nostri guadagni ci verranno garantiti. Hai la mia parola. In questo preciso momento le priorità sono gli imbarchi per l’Italia. Dobbiamo garantire a tutte le persone che abbiamo in carico di raggiungere il paese e di arrivarci vive. Almeno quasi tutte”. “Perché?”. “E chi lo sa… Esegui gli ordini, esattamente come farò io. Occupati dei trasferimenti fino al porto di Misurata. Io ho già il mio bel da fare a reperire imbarcazioni a sufficienza”, aggiunse Karim alzando la bottiglia di birra in segno di brindisi. “Alla nostra, fratello. Non è tempo di porci domande, ma di agire”, suggerì il libico con il sorriso enigmatico che Osman aveva imparato a conoscere. Karim, al di là del suo modo di fare cerimonioso, non era da sottovalutare in quanto a crudeltà. Lo stesso Osman lo aveva visto all’opera in più di un’occasione. Era accaduto che durante le operazioni d’imbarco alcuni migranti non volessero salire sui barconi malmessi. Karim per tutta risposta aveva sparato su chi si era ribellato, donne e bambini compresi. I cadaveri erano rimasti sulla spiaggia, a monito di tutti quelli che avessero voluto imitarli. Quello era il capitano Karim Farag dell’Esercito di Liberazione libica che controllava il distretto di Misurata. Prima che Osman potesse dire la sua, il libico prese ancora la parola. Sapeva che avrebbe lasciato sgomento per la seconda volta il suo interlocutore. Fece un tiro di sigaretta e subito dopo si allungò verso un posacenere pieno di mozziconi spenti e che recava impresso il logo sbiadito della Cinzano. “Ho anche una proposta, ma spetta a te accettarla o meno. Mi hanno chiesto di offrirti la possibilità di andare in Italia per qualche tempo. Lì conosceresti alcuni dei nostri referenti e svolgeresti per loro degli incarichi”. Osman non mostrò alcun tipo di reazione, almeno in apparenza. Si limitò ad ascoltare, serrando la mascella in maniera impercettibile. “E che cosa avrei da guadagnarci?”, domandò con tono vagamente risentito. L’inattesa proposta lo trovava impreparato. Karim gli fece un sorriso benevolo. “Fratello, io e te siamo molto simili. Diversamente non ti avrei scelto fra i tanti che combattono qui. Il nostro mondo è pieno di assassini, ma la maggior parte di loro è inadatta al comando essendo uomini che non mantengono la parola. Inaffidabili per natura, infidi. Tu fino a oggi hai dimostrato di essere diverso da tutti coloro che ti hanno preceduto alla guida del campo di Bani Walid”, rispose Karim. Fece una pausa e poi aggiunse: “So a cosa stai pensando. Temi che ti vogliano togliere di mezzo, che questa offerta non sia altro che un modo per sbarazzarsi di te…” Osman non commentò, ma il suo silenzio equivaleva a un sì. Per natura non si fidava pienamente mai di nessuno, neppure dell’uomo che aveva di fronte e che lo aveva sempre aiutato. “Pensi davvero che occorra tutta questa messinscena per farti fuori? Mi basterebbe allungare qualche dollaro a uno dei tuoi soldati per spararti, magari alla schiena, mentre dopo cena ti siedi qui fuori, nella tua veranda e sorseggi una di queste”, scherzò bieco Karim, indicando la bottiglia di birra. Il militare conosceva alla perfezione le abitudini del somalo. “Un tempo questa era una piccola caserma. Una delle tante presenti nel paese, costruita ai tempi del Colonnello Gheddafi. Io stesso per un periodo prestai servizio qui. Era un posto tranquillo. Poi con la guerra è cambiato tutto e anche noi ci siamo dovuti adattare. Questo posto per me e per te è diventato la nostra fortuna. Altri luoghi simili sono stati distrutti o dimenticati. Per molti la Libia si è trasformata in un inferno, ma non per noi. Abbiamo avuto una grande opportunità e dobbiamo fare in modo che continui a esserlo”, osservò il libico sperando che Osman fosse del suo stesso avviso. “Che cosa dovrei fare esattamente?”, chiese il somalo, guardando di sottecchi il suo ospite mentre già con il pensiero valutava la possibilità, appena prospettatagli, di lasciare il paese. “Continuare a obbedire agli ordini. Domani inizierai a svuotare il campo. Ti manderò altri camion da Misurata. E se non ti bastano i camion caricali sulle jeep, purché tu li faccia giungere a destinazione. Una volta arrivati al porto me ne occuperò io. Sono riuscito già a requisire sufficienti imbarcazioni per il viaggio. Staranno magari un po’ stretti e qualcuno non arriverà vivo in Italia, ma mi è stato chiesto di garantire un numero altissimo di sbarchi ed è quello che intendo fare”, fece il libico sorridente, mostrando i pochi denti superstiti, ingialliti dalla nicotina. Per qualche istante ci fu silenzio. Entrambi stavano pensando all’imminente futuro e a ciò che li attendeva. Quello dei due a nutrire ancora dei dubbi era Osman, che si chiedeva il motivo di quella richiesta. La possibilità di partire per l’Italia lo aveva gettato in uno stato di agitazione. Dopo che per anni si era occupato di smerciare senza pietà esseri umani desiderosi di approdare sulle coste del Bel Paese, ora questa possibilità veniva offerta a lui stesso. Si chiese se fosse pronto a lasciare quel campo che era diventato a tutti gli effetti la sua dimora. Ma la domanda principale che si poneva era se partendo avrebbe perduto tutti quei privilegi di cui godeva. A Osman piaceva esercitare il comando, avere uomini al suo servizio, sentirsi riverito e temuto. Incutere il terrore in tutti coloro che transitavano per Bani Walid era per lui una fonte di piacere alla quale avrebbe rinunciato con fatica. S’interrogò su quali potessero essere i compiti che gli sarebbero stati affidati in Italia, ma non riuscì a darsi alcuna risposta plausibile. Karim terminò la sua birra, appoggiò la bottiglia vuota a terra e si alzò. “Ci rivedremo domani, agli imbarchi. Stanotte avrai il tempo per pensare alla proposta che ti è stata fatta. Fossi in te, accetterei subito. Dicono che l’Italia sia un bel posto. Hayyakallah2, amico mio”, disse il libico congedandosi. Fuori era già buio. All’esterno del campo c’era una jeep ad attenderlo e un’altra di scorta, pronta a seguirlo. Raramente il libico si muoveva con il buio, ma questa volta non aveva avuto scelta. Nei territori controllati dall’Esercito di Liberazione vigeva il coprifuoco. A preoccuparlo non era la possibilità di agguati, quanto la condizione delle strade e la guida dei suoi guerriglieri che il più delle volte si dimostravano imprudenti. La totale mancanza d’illuminazione rendeva il tutto particolarmente insidioso. Karim non ci pensò e partì per fare ritorno a Misurata.
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