Capitolo I: La collina degli angeli-2

2006 Words
Era Adusa, uno dei migranti più anziani del campo, malfermo sulle gambe a causa dell’età; aveva cercato di opporsi a ciò che gli uomini di Osman stavano per fare. Anche se non sarebbe toccato alla sua famiglia, l’uomo aveva reagito all’ennesimo scempio. Seppur debole e disarmato si era scagliato contro i miliziani che stavano per spartirsi quella che era poco più che una bambina. La ragazzina urlava, non voleva staccarsi dalla madre. Adusa non aveva retto alla scena straziante e si era avventato sugli assalitori. Ora l’uomo giaceva a terra, agonizzante. Gli sguardi ammutoliti dei presenti lo accompagnarono nel suo ultimo viaggio. La macchia di sangue scuro e denso che si allargava dal suo corpo veniva assorbita dalla terra con voracità. Gli occhi spalancati di Adusa osservavano increduli i presenti. In essi c’era tutto lo smarrimento per la sorte toccatagli e per la vita che lo stava abbandonando; pochi minuti e morì. L’ultima cosa che vide fu l’azzurro accecante del cielo della Libia che poco alla volta si faceva sempre più scuro, fino a diventare una notte eterna. Nell’edificio si diede inizio allo stupro. Madri, figlie e sorelle furono prese e gettate a terra, immobilizzate tra le stesse coperte nelle quali dormivano la notte accanto ai loro mariti e padri. Giacevano le une accanto alle altre, alcune imploranti mentre venivano denudate. Le guardie non avevano pietà. Alcune avevano lasciato la propria arma sul pavimento, a portata di mano. Altre appoggiavano la canna del proprio fucile alla testa delle loro vittime, godendo di un senso di onnipotenza derivante dal terrore instillato. Lo stupro collettivo sarebbe andato avanti fino a sera. Binta, madre di Morathi e moglie di Kalifa, fu strappata dall’angolo della stanza nel quale si era accovacciata. La sua bellezza, il viso color ebano dai tratti regolari non passavano inosservati. Nonostante le fatiche e le sofferenze patite da quando lei, Kalifa e Morathi erano partiti dall’Eritrea nel tentativo di raggiungere l’Europa, la sua bellezza sembrava destinata a perdurare. Gli uomini di Osman la sollevarono per le braccia e per le gambe, portandola al centro della camerata. Fu gettata con forza su dei materassi. Binta era come una bambola di pezza, incapace di reagire. Le strapparono i vestiti e la sommersero. Non ci fu bisogno di tenerla ferma. La violentarono, ghermendole le carni e l’anima. Si sentì lacerata nel corpo e nello spirito, ma ciò non le impedì di non cedere alla furia dei suoi violentatori. Non concesse loro un solo grido di dolore, tantomeno la soddisfazione di vederla soffrire e d’implorare misericordia. Subì la violenza di gruppo in silenzio, come se fosse già morta. Intorno a lei era un vorticare di volti e di corpi di altre donne e di ragazze accomunate dalla sua stessa sorte. Singhiozzi e pianti venivano soffocati dai gemiti di piacere dei loro stupratori. Quelle che si ribellavano subivano ulteriori tormenti. Una bambina presente quel pomeriggio sarebbe morta qualche giorno dopo per le ferite e i traumi riportati. Intanto, nello spiazzo sottostante dove si era giocata la partita, mariti, compagni e figli sapevano ciò che stava accadendo alle loro donne senza poter intervenire. I miliziani si davano il cambio; uscivano dalla palazzina presentandosi ancora ebbri di piacere, alcuni barcollanti e spossati; soddisfatti si sistemavano i pantaloni, scambiandosi battute e umiliando i migranti presenti. Il campo di Bani Walid era tutto questo e anche altro, un luogo dove le persone perdevano la dignità e spesso anche la vita. *** Erano da poco passate le diciannove. I prigionieri stavano per essere radunati per la distribuzione del pane, quando Osman ritornò al campo dopo un’assenza di due giorni. Si era recato a Cufra, un’oasi della Cirenaica a sud-est di Tripoli, vicina ai confini con Sudan ed Egitto. Cufra era uno snodo strategico e una tappa obbligata per i migranti durante i loro viaggi. Anche Binta, Kalifa e Morathi vi erano giunti, condotti a bordo di mezzi di fortuna; era lì che erano stati venduti a Osman da un altro trafficante di profughi al quale si erano affidati per giungere sulle coste libiche. Con la promessa che quella di Cufra sarebbe stata solo e soltanto una tappa in uno dei centri di accoglienza gestiti dal governo, Kalifa, la moglie e il figlio si erano ritrovati improvvisamente prigionieri, privati di quel poco che avevano portato con loro. Quello che doveva essere un centro di ricovero, di sosta e di accoglienza lungo il viaggio, altro non era che un campo di detenzione presso il quale i trafficanti come Osman si arricchivano con la complicità del governo. A Cufra erano rimasti per tre giorni, rinchiusi in celle. Gli uomini erano stati separati dalle donne e dai bambini. Tutti avevano dormito sulla nuda terra, in mezzo ai propri escrementi, stipati come bestie, bevendo acqua sporca e mangiando un pugno di riso a testa distribuito dai carcerieri. A Cufra succedeva spesso che i migranti si ammalassero e iniziassero un calvario fatto di privazioni, torture e malattie. La prima mattina di permanenza Kalifa aveva chiesto a uno dei soldati dove erano sua moglie e suo figlio; per tutta risposta era stato colpito col calcio del fucile e ridotto al silenzio. Il terzo giorno dal loro arrivo al campo si era presentato Osman nelle vesti di colui che li avrebbe condotti verso la libertà. Il somalo, prima della partenza per Bani Walid, aveva stabilito il prezzo della libertà: dodicimila dollari per ciascun migrante per poter salpare dalle coste libiche e giungere in Europa. La sola possibilità era mettersi in contatto con le famiglie nei paesi di origine affinché pagassero la cifra. Chi non poteva permettersi quei soldi, chi non aveva nessuno a cui appellarsi, chi era solo andava incontro a un destino da schiavo. Da Cufra, Kalifa, Binta e Morathi erano stati caricati su dei camion militari e portati a Bani Walid dove sarebbe stata decisa la loro sorte. Era già trascorso poco più di un mese da quando vi erano arrivati e non passava giorno senza che Osman e i suoi non brutalizzassero i prigionieri. Quella sera egli raggiunse la palazzina, ma prima di entrarvi si fermò a parlare con i carcerieri che tenevano sotto tiro Kalifa e i giocatori della sua squadra. Morathi e i ragazzini che erano rimasti come ai margini della scena erano troppo piccoli per rappresentare un pericolo. Il comandante somalo, alto e prestante, aveva da poco superato i trentasette anni. Indossava un abbigliamento militare simile a quello dell’esercito regolare libico, ma sul capo portava un cappello a tesa larga del tipo US Bonnie Hat americano, in colorazione desertica. Seppur logoro, non se ne separava mai. Diceva che era appartenuto ad un soldato americano da lui ucciso a Mogadiscio quando era poco più che un ragazzino. Correva il 1993 e il giovane Osman faceva parte delle milizie del generale Aidid. Quest’ultimo era uno dei più influenti signori della guerra; i suoi uomini, privi di scrupoli, controllavano la popolazione locale stremata dalla guerra civile e tenevano testa alle forze militari straniere giunte in Somalia. Quella che era nata come una missione umanitaria sotto l’egida delle Nazioni Unite si era ben presto trasformata per i militari stranieri in un inferno. Osman era uno di quei soldati-bambini che avevano avuto il loro battesimo di fuoco in quel periodo, addestrati alla spietatezza dai loro capi. Il comandante somalo osservò compiaciuto i migranti lì radunati; sapeva dell’ennesima umiliazione, la più tragica, che stavano subendo. Regalò loro un ampio sorriso con la chiostra di denti bianchissimi. “Non temete. Le vostre donne sono state trattate con il rispetto che meritano dai miei uomini…”, disse in tono deciso e rassicurante, negando l’evidenza dello stupro appena consumatosi. “Sono tornato da voi perché ho delle buone notizie. Domani alcuni di voi partiranno. Arriverete in Europa per iniziare una nuova vita”, disse avvicinandosi a uno dei migranti che teneva gli occhi a terra e non osava alzare lo sguardo. Osman con fare energico e plateale gli scosse le spalle per farlo reagire. “Non sei felice?!? Domani te ne andrai. Sarai libero!”, insistette, alzando il tono della voce e obbligando il prigioniero a partecipare a quella farsa. L’uomo, un africano dalla pelle scurissima e gli occhi enormi, accennò un sorriso privo di gioia. Osman, non ancora soddisfatto, gli prese la faccia fra le mani, con violenza; lo costrinse a sorridere, affondandogli le dita nelle guance svuotate, come uno scultore che imprime e modella la materia. Nei gesti del somalo c’era solo sadismo e nessuna volontà creativa. Il migrante, terrorizzato, cercò di sfoggiare un sorriso impossibile per sedare le ire del somalo. Quest’ultimo, non pago, ma indispettito dalla scarsa partecipazione della sua vittima al tragico gioco, decise di porvi fine. Con occhi spiritati raggiunse il miliziano a lui più vicino. Gli strappò di mano il fucile e giratosi verso il prigioniero che non sorrideva a sufficienza sparò. Una scarica di colpi raggiunse l’uomo al petto; il corpo squassato dai proiettili esplosi a distanza ravvicinata si afflosciò su se stesso e cadde a terra, riverso. Solo allora Osman parve ritrovare la calma. Restituì l’AK 47 al miliziano e si sfregò le mani, come se volesse ripulirsele dopo aver impugnato l’arma. Non badò al cadavere, ma guardò serafico i prigionieri. Questi ultimi erano spaventati, ma anche i suoi stessi soldati non erano da meno, seppur in modo diverso. Tra loro, in presenza del somalo, serpeggiava il nervosismo. L’imprevedibilità di Osman atterriva chiunque, anche coloro che erano al suo servizio. “Ingrati. Siete solo dei poveri ingrati senza patria…”, mormorò, lanciando un’ultima occhiata sprezzante ai migranti. “Per me siete come dei figli. Ho fatto tutto ciò che è in mio potere per assicurarvi un futuro migliore. E voi non mi mostrate nemmeno un briciolo della vostra gratitudine!”, sbraitò con ferocia, sputando poi per terra in segno di spregio. Morathi e gli altri ragazzini tremavano, in preda alla paura. Gli adulti come Kalifa erano statue di pietra, incapaci perfino di respirare. Un silenzio angosciante era calato sulla scena. Solo allora Osman parve quietarsi. Instillare il terrore in chi aveva davanti lo appagava come nessun’altra cosa. Anche i lineamenti del suo volto, da contratti che erano, si rilassarono. C’era un che d’infantile e di acerbo nel suo viso che contrastava con la sua ferocia. Osman poteva sembrare un uomo solamente dominato dai peggiori istinti primitivi; in realtà era anche dotato di un’astuzia fuori dal comune che all’occorrenza sapeva dissimulare. Preferiva far credere di essere solo crudele e ciò, spesso, portava gli altri a sottovalutarlo e a non comprenderne appieno la pericolosità. Osman si allontanò dai presenti per entrare nell’edificio. Due guardie lo scortarono all’interno della struttura. La sua improvvisa comparsa creò scompiglio anche tra i miliziani che erano all’interno. Nessuna delle donne era stata risparmiata. Molti soldati erano ancora seminudi, altri si stavano rivestendo alla meglio. Il somalo scrutò compiaciuto la scena, poi sollecitò i suoi uomini con ordini secchi. Il tono delle sue parole era tagliente. Il divertimento della truppa era terminato. Intimò di tornare ai posti di guardia e di prepararsi perché l’indomani mattina avrebbero imbarcato poco più di duecento profughi su di un traghetto che li attendeva ormeggiato nei pressi del porto di Misurata. Per quelle centinaia di migranti quella sarebbe stata l’ultima notte al campo di Bani Walid; l’Europa, e in particolare l’Italia, si facevano sempre più vicine. Nessuno però sapeva delle condizioni di viaggio che avrebbero dovuto affrontare. Se i giorni di prigionia al campo erano stati un inferno nel quale non tutti erano sopravvissuti, la navigazione che li attendeva non sarebbe stata priva di disagi. Una volta giunti al porto si sarebbero resi conto che il rischio di naufragare nel Mediterraneo era reale e non era solo una delle storie che di tanto in tanto circolavano. Per molti che avevano tentato la traversata prima di loro il mare era diventato un cimitero. Ciò non avrebbe comunque impedito a quelle persone di sperare di giungere a destinazione sane e salve. La sete di libertà e la necessità di fuggire dalla miseria erano più forti di qualsiasi timore.
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