Capitolo I: La collina degli angeli-1

2013 Words
Capitolo I La collina degli angeliCampo profughi di Bani Walid, distretto di Misurata, Libia Primi giorni di aprile Morathi, rannicchiato all’ombra della tettoia di lamiera, osservava come ipnotizzato il pallone conteso dalle due squadre in campo. I giocatori si muovevano simili ad automi, trascinandosi appresso alla palla, colpendola senza troppa convinzione. I loro occhi stralunati esprimevano rassegnazione e disagio. Le azioni in campo erano prive di un sincero spirito sportivo. La cortina di polvere sollevata dai calciatori conferiva alla scena un qualcosa di apocalittico. Più che a un confronto tra squadre, la partita assomigliava a una tragica messinscena i cui figuranti indossavano abiti logori e scarpe rotte. Alcuni addirittura giocavano scalzi. Tale era lo spettacolo che le due squadre offrivano ai loro carcerieri, i quali si intrattenevano ai bordi dello spiazzo in cui si disputava la partita; ognuno aveva in dotazione un fucile AK 47 che portava a tracolla oppure in spalla. Alcuni di loro sostavano nei pressi del muro scrostato dell’edificio che ospitava una parte dei migranti. L’ombra proiettata dalla costruzione rappresentava un valido riparo dalla ferocia del sole. Altri assistevano alla partita stando seduti su vecchie sedie di plastica e sgabelli improvvisati; il passatempo preferito era quello d’incitare i giocatori a correre più in fretta e a segnare, insultandoli e minacciandoli quando il ritmo languiva. Se in campo, poi, a causa dello sforzo fisico e del calore qualcuno crollava a terra esausto, i miliziani lo ricoprivano di ingiurie. Raramente si accanivano con atti di violenza che invece erano all’ordine del giorno in altri momenti della vita al campo. Non avevano interesse a massacrare di botte il malcapitato perché già sapevano a quale sorte sarebbe andato incontro ritirandosi; chi non riusciva a rialzarsi veniva sostituito da un altro migrante e a fine partita avrebbe condiviso la sorte che spettava alla squadra perdente. Questa era una delle regole imposte da Osman Mohamed, l’ideatore di quelle attività organizzate per “sopperire alla noia della vita al campo di Bani Walid”, come era solito dire ai prigionieri. Quando gli uomini giocavano, le loro donne con i bambini più piccoli e con le figlie femmine di qualsiasi età fossero, dovevano rimanere confinate all’interno degli edifici, in attesa del risultato. Morathi, che avrebbe compiuto dodici anni il mese successivo, poteva assistere alla partita insieme ad altri ragazzini della sua età, o poco più grandi. Ogni volta che i loro padri o i fratelli più grandi venivano scelti per giocare, i ragazzini si sistemavano all’ombra dell’edificio, seduti a terra, gli uni addossati agli altri, dalla parte opposta rispetto a quella in cui stavano le guardie. Rimanevano immobili, senza fiatare, privi dell’entusiasmo del tifoso che segue la propria squadra. Osservavano apatici lo spiazzo, in attesa della fatidica scarica di mitra con la quale veniva sancita la fine della partita. Dall’esito della stessa dipendevano le sorti delle famiglie dei giocatori. Sessanta minuti per vincere, per impedire fino all’ultimo agli avversari di segnare o di tentare una rimonta. Il pareggio non era previsto: in quel caso si andava avanti a oltranza fino a quando una delle squadre passava in vantaggio. Questa era un’altra regola escogitata da Osman per impedire che i giocatori si accordassero fra loro affinché nessuno vincesse. Anche quel pomeriggio i miliziani assistevano alla partita impazienti di premiare a loro modo la squadra vincitrice e di punire quella che avrebbe perso. Morathi guardava con muta apprensione suo padre Kalifa; l’uomo correva, cercava di conquistare la palla e di scartare gli avversari. Il suo corpo agile e snello come quello di una gazzella si distingueva nella calca caotica del gioco; nonostante la stanchezza e le privazioni subite da quando era iniziato il loro viaggio, Kalifa si muoveva flessuoso e agile, rispetto agli altri giocatori. L’uomo mostrava un talento naturale: nativo dell’Eritrea, Kalifa aveva iniziato a giocare a calcio fin da bambino e da allora non aveva mai più smesso. Anche la sua bravura però quel giorno non sarebbe bastata a mutare la sorte. Quella era la terza volta che l’uomo scendeva in campo da quando erano arrivati a Bani Walid. I miliziani di Osman Mohamed non sceglievano i giocatori a caso. Le selezioni avvenivano la mattina del giorno stesso in cui si sarebbe disputata la partita e si basavano su di un unico criterio: l’avvenenza delle mogli e delle figlie di coloro che sarebbero scesi in campo. Se poi questi mariti o padri erano oltremodo provati dagli stenti della prigionia e del viaggio che l’aveva preceduta, meglio ancora. Difficilmente sarebbero riusciti a reggere un’ora di gioco e tantomeno avrebbero vinto. Mancavano pochi minuti alla fine dell’incontro. Kalifa, incurante, continuava a correre, testa bassa, sorretto dalla forza della disperazione che gli impediva di crollare. Aveva ancora energie sufficienti per gettarsi nella mischia, dribblare gli avversari e calciare il vecchio pallone di cuoio dal quale dipendeva tutto ciò che aveva. Non mollare Kalifa, puoi ancora farcela. Nulla è perduto se il Signore è con te, ripeteva a se stesso per non cedere alla rassegnazione. Quel giorno però anche Dio sembrava avergli voltato le spalle o forse aveva dovuto accogliere le identiche preghiere giunte dai suoi avversari in campo. La squadra di Kalifa era sotto di due reti e il tempo rimasto era troppo poco per sperare in una rimonta. Solo un miracolo avrebbe potuto cambiare il destino e mettere fine a quel gioco al massacro. Kalifa per pochi secondi sognò a occhi aperti, ma fu questione di attimi: non sarebbe accaduto nulla quel pomeriggio, come non era accaduto niente le volte precedenti. Nessun soldato libico delle forze regolari sarebbe arrivato a liberare i profughi; l’intero paese era alla mercé di bande, come quella di Osman, che grazie alla connivenza delle forze governative controllavano la tratta dei migranti verso l’Europa. Neppure sarebbero giunti aiuti da altri paesi o da organizzazioni umanitarie. Queste ultime chiedevano costantemente di poter ispezionare i campi di prigionia, ma ciò veniva loro impedito; addirittura veniva negata l’esistenza di queste strutture considerate, a detta del governo, invenzioni giornalistiche atte a screditare la nazione. Il tempo scorreva inesorabile. Gli unici orologi a scandire i minuti erano quelli al polso degli aguzzini. Per i giocatori in campo il non sapere quanto mancasse al termine della partita era un’ulteriore forma di tortura psicologica. A pochi attimi dalla fine, Kalifa conquistò nuovamente la palla. Tentò un’azione solitaria. Scartò due avversari, li superò e balzò in avanti, mentre i suoi compagni di squadra rallentavano il ritmo. Alcuni di loro si fermarono stupefatti e increduli nell’osservarlo in quella fuga verso l’altra metà campo. Si chiesero come faceva ancora a sperare di vincere. Tutti erano rassegnati alla sconfitta, tranne lui. Invece di accettare il destino, di abbandonarsi a esso, Kalifa puntava dritto alla porta. Pochi metri lo separavano dal portiere e dalla possibilità di segnare. Il tempo parve dilatarsi all’infinito fino a quando giunse la scarica secca di AK 47 a squarciare l’aria arroventata. Una decina di colpi infransero l’illusione dell’uomo che ancora sperava di salvare la propria moglie. Kalifa pensò che sarebbe stato meglio che quella raffica esplosa in aria l’avesse ucciso, mentre invece era lì, ancora vivo con suo figlio a pochi metri da lui. Fu il pensiero di un attimo. Poco dopo lo allontanò da sé, sentendosi quasi un vigliacco. Morire significava abbandonare sua moglie e suo figlio a un destino ancora più tragico. Kalifa non vide se il pallone da lui calciato finì in rete o meno. Crollò a terra. Avvolto da una nuvola di polvere, sentì levarsi le urla di giubilo dei miliziani; lo assordarono al pari di granate che gli esplodevano accanto. Scoppiarono violente e fragorose. Rimase impietrito, con la testa fra le mani, le dita serrate quasi a strapparsi il cuoio capelluto. Una mano gli si posò sulla spalla. Era Mohamed, suo compagno di squadra, un ragazzo del Ghana. Kalifa incrociò il suo sguardo, riconoscendovi la sua stessa disperazione. Mohamed lo aiutò a rialzarsi. Fu un gesto d’inattesa amicizia, di aiuto reciproco. Kalifa accennò un sorriso. Non riuscì a ringraziarlo. Solo ora si rendeva conto della secchezza della gola, della sete e delle gambe che gli cedevano per il dolore. Non ebbe né il tempo né la voglia di pensare a se stesso. I carcerieri stavano già radunando i giocatori delle due squadre; gli avversari di Kalifa, a suon di urla e di spintoni, furono mandati verso il grande edificio che delimitava il lato più lungo del campo. Quello era il trattamento riservato ai vincitori. Costoro, alla stregua di animali in gabbia, non opposero alcuna resistenza; si disposero ordinatamente in fila indiana per raggiungere un moncone ritorto di tubo metallico che fuoriusciva dal muro terminando con un rubinetto. Potersi dissetare con quell’acqua pareva un miracolo, un premio inatteso. Normalmente ai prigionieri del campo ne veniva messa a disposizione pochissima. A ogni giocatore fu concessa una sorsata, poi ognuno doveva fare ritorno all’interno dell’edificio. Chi si attardava, cercando di bere più di quello che gli spettava, veniva colpito con i calci dei fucili e fatto allontanare. I vincitori della partita si sentivano come animali che fino a poco prima erano stati destinati al macello e vi erano scampati all’ultimo minuto. Nessuno però aveva la forza di esultare. Nella quotidianità della vita al campo di Bani Walid, la prima cosa che si imparava a proprie spese era che non esistevano certezze. Si viveva giorno per giorno, a volte ora per ora, senza aspettative. L’indomani poteva accadere qualsiasi cosa. Ad alcuni veniva concesso, nel giro di pochi giorni, di potersi imbarcare su delle navi di fortuna per raggiungere l’Italia; erano coloro che erano riusciti a farsi mandare dai parenti rimasti nei paesi d’origine i soldi necessari per poter proseguire il viaggio e giungere in Europa. Su ogni migrante, uomo, donna o bambino, Osman esigeva un riscatto. Quelli che invece faticavano a trovare tra i parenti chi pagasse per loro, essendo in genere tutti poverissimi, rimanevano prigionieri nel campo. Vi restavano per tutto il tempo necessario a mettere insieme la somma richiesta dai loro carcerieri. Chi non riusciva a pagare il riscatto veniva venduto come schiavo e se ne perdevano per sempre le tracce. Tra questi c’erano spesso intere famiglie con i loro bambini. Mentre un gruppo di soldati si attardava a controllare gli ultimi giocatori intenti a dissetarsi, altri stavano già lasciando il campo. Camminavano con i fucili puntati ad altezza d’uomo, tenendo sotto tiro i migranti e guardandosi fra loro con aria euforica. Si diressero verso l’ingresso della palazzina adibita a dormitorio. Passarono accanto a Morathi e agli altri ragazzini seduti all’ombra della tettoia. Non li degnarono di uno sguardo e tirarono dritto. I loro passi si spensero lungo le scale che conducevano al primo piano. Risate, urla triviali e un’oscena gestualità anticiparono l’antico rituale del bottino di guerra. I lamenti delle donne, i pianti e le suppliche disperate sarebbero giunti poco dopo. I miliziani fecero irruzione nella camerata dove erano stipate le famiglie degli uomini che avevano giocato la partita. Prima dell’incontro avevano già provveduto a separare le famiglie delle rispettive squadre. Con la minaccia delle armi obbligarono le mogli e le figlie dei giocatori che avevano vinto a scendere le scale. Si udirono raffiche di mitra. Le guardie sparavano in aria, divertite nel vedere quelle donne precipitarsi verso l’uscita come animali in fuga da un temporale; erano consapevoli di essere scampate alla violenza che invece attendeva le altre; nei loro occhi non c’era esultanza per il pericolo scampato, ma solo sgomento. Dalle grandi finestre del primo piano, prive di infissi, si sentiva tutto ciò che accadeva all’interno dell’edificio. Morathi non si muoveva, ma stava rannicchiato con gli occhi piantati nella terra arsa. Le voci e le urla delle guardie gli giungevano nitide e distinte. Avrebbe voluto non sentirle più, scappare via, ma era impossibile sottrarvisi. A un certo punto scoppiò una lite. Nessuno da fuori comprese che cosa stesse accadendo all’interno della palazzina. Poco dopo un uomo venne scaraventato giù dalla finestra. Dapprima fu come un’ombra scura, simile al passaggio di un corvo beccogrosso in volo radente, poi giunse uno schianto sordo che non aveva nulla a che fare con il passaggio in cielo di un uccello.
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