Chapter 6

2009 Words
CAPITOLO IV. «Sorte! al nemico mio dovrei la vita?» Shakespeare. Il lord Cancelliere camminò per circa un quarto di miglio senza articolare parola, e Lucia, timida per natura, ed educata in quelle idee di rispetto filiale, e d’assoluta obbedienza che instillate venivano a que’ giorni negli animi della gioventù, non si facea lecito d’interrompere il corso delle meditazioni del padre. «Oh come sei pallida, o Lucia!» le disse volgendosi a lei d’improvviso. Seguendo sempre le idee di que’ tempi che non permettevano ad una giovinetta il manifestare la propria opinione sopra una cosa di qualche entità, a meno che non le venisse richiesta, era obbligo di Lucia di non mostrarsi intesa del colloquio accaduto fra Alisa ed il padre; laonde diede per motivo della sua pallidezza il timore inspiratole da alcuni tori selvaggi che si vedeano in lontananza pascolare nel parco. Questi animali discendeano dalle antiche mandre selvagge che abitavano le caledonie foreste; e i Nobili scozzesi si faceano una legge d’onore di conservarne qualcuno ne’ vasti lor parchi. Vive ancora chi può ricordarsi di averne veduti ne’ tre principali castelli della Scozia, ad Hamilton, a Drumlanrick, e a Cumbernauld. Così per la statura, come per la forza aveano tralignato dalla primitiva razza, se dobbiamo giudicarlo dalle vecchie cronache e dagli ossami di questi animali, che andiamo tuttavia scoprendo, o nello scavare la terra, o nel seccar le paludi. Perduto avendo in molta parte gli onori della lor cornatura, erano piccioli, d’un bianco sucido, o per meglio dir giallopallido, con corna ed unghie nere. Aveano nondimeno ritenuto un non so che della ferocità degli animali loro progenitori, ed era impossibile l’addimesticarli affatto, perchè mostravano assoluta avversione alla stirpe umana; avversione spesse volte fatale a chi si accostava ad essi con poca cautela. Senza dubbio, per quest’ultimo motivo, ne fu decretato lo sterminio ne’ tre ultimi asili che lor rimanevano; perchè altrimenti si sarebbero forse conservati, come degni abitanti delle foreste della Scozia, e vivi monumenti della antichità. Dicesi nondimeno che se ne trovino alcuni nel parco del castello di Chillingham, situato nella contea di Nortumberlandia, e spettante al conte di Tankarwille.» Alla vicinanza adunque di tre o quattro di questi animali, Lucia diede la colpa della commozione che aveano eccitata nel suo animo gli uditi discorsi. Ma in sostanza, ella non atterriva all’aspetto di quelle bestie, essendosi assuefatta da lungo tempo a vederne diportarsi nel parco. Oltrechè, l’educazione delle donzelle tal non era in que’ giorni che ad ogni menoma occasione provassero palpitazioni di cuore e assalti convulsivi. Nondimeno non istette molto ad accorgersi che legittima in quell’istante sarebbe stata la ragion del temere. Non appena Lucia ebbe risposto in tal guisa al padre che incominciava già a motteggiarla per questa pusillanimità. Un di que’ tori, o lo movesse il color di scarlatto delle vesti di miss Asthon, o forse per uno di quegl’impeti di feroce capriccio che assalgono talvolta cotesti animali, si disgiunse dal drappello de’ suoi compagni che pascolavano in distanza considerabile, facendosi avanti come per iscoprire chi fossero que’ temerarj che ardivano mostrarsi ne’ suoi dominj. Camminò da prima lentamente, si fermava a quando a quando per muggire, buttava in su colle zampe davanti la terra, ne sterpava colle corna le pianticelle, quasi aizzando se stesso, e cercando di eccitarsi al furore. Il lord Cancelliere che avea considerate queste fazioni dell’animale e ne prevedea conseguenze pericolose, stretto sotto il proprio braccio quel della figlia, raddoppiò il passo per raggiungere un vicino boschetto, fra le piante del quale sperava trovare tal nascondiglio, che il toro non pensasse più ad essi. Ma a peggior partito non potea appigliarsi; perchè la bestia, fatta più ardita da questa dimostrazione di fuga, si diede ad inseguirli di gran galoppo; pericolo sì imminente, che avrebbe sconcertato il coraggio di un uomo anche più intrepido di ser Guglielmo. Pure, l’amor di padre essendo più forte in esso dello spavento, continuò a sostenere e a trarsi con sè la figlia verso il boschetto; ma finalmente l’eccessivo spavento avendo tolta ogni forza a Lucia, cadde questa e rimase priva di moto ai piedi del padre. Non potendo più aiutare la figlia a fuggire, deliberò affrontare il pericolo, postosi coraggiosamente fra lei e l’infuriato animale, che già pochi passi era lontano da essi; ma oimè! il Cancelliere non era provveduto d’alcun’arma, perchè i suoi anni e l’indole grave e pacifica del suo ministerio lo dispensavano fin dal portare un coltello da caccia; che per tutt’altri, in que’ giorni, sarebbe stata una specie di vergogna il non andarne muniti. La vita dunque di lui e quella forse anche della figlia pareano sul punto di essere sagrificate al furore del toro, quando una palla d’archibuso sparato nel boschetto, ove ser Guglielmo divisava cercar rifugio, arrestò in mezzo al suo correre l’animale, colpito con tanta giustezza fra la spina e il cranio, che mentre una ferita fattagli in qualunque altra parte del corpo ne avrebbe anzi stimolata la rabbia, questa gli diede morte istantanea. Fece ancora un salto in avanti, piuttosto per continuato effetto dell’antecedente slancio che per sua volontà; poi subito cadde morto, tre passi lontano dal lord Cancelliere, mandando un orribil muggito, e fra le convulsioni della agonia. Stava intanto Lucia stesa sul suolo priva di sensi, ed ignorando tuttavia il soccorso miracoloso sopraggiunto così a lei come a suo padre, stupefatto al punto di perderne i sensi egli stesso; tanto rapido si fu il passaggio dal timore di una morte crudele, e che parea inevitabile, alla certezza di essere egli e la diletta figlia salvati. Ei contemplava questo animale che, anche morto, inspirava terrore, con una specie di maraviglia muta e confusa, sì che nemmeno gli era permesso il discernere la serie delle cose in poco tempo avvenute; e avrebbe potuto supporre che un fulmine avesse atterrato il toro, se all’orlo del boschetto, e per traverso ai rami, non gli si fosse offerto un uomo armato di moschetto. La qual vista avendogli schiarito lo stato delle cose, volse immantinente uno sguardo alla figlia pensando alla necessità di procurarle immediati soccorsi. Chiamò l’uomo che avea veduto, e che credè essere una delle sue guardie, ordinandogli di vegliare alla sicurezza di miss Asthon, mentre andava egli stesso in traccia di quanto occorreva per far che prestamente ella si riavesse. Avvicinatosi il cacciatore, ser Guglielmo si accorse essere questi uno straniero; ma agitato ed inquieto come era, non avea tempo di fermarsi in considerazioni a tale proposito; e vedendo nello sconosciuto un giovine più vigoroso di lui, gli accennò una vicina fonte, pregandolo a trasportare in riva ad essa la donzella; e pronunziate in fretta le sole parole necessarie ad esprimere una tale preghiera, corse ver la capanna di Alisa colla speranza di trovarvi le cose che più abbisognavano in quel momento. Lo straniero sì opportunamente sopraggiunto, mostravasi disposto a non lasciare questa buona azione imperfetta; laonde rialzando Lucia, e presala fra le braccia, la portò per traverso al bosco, seguendo sentieri, giusta quanto appariva, ad esso notissimi, nè si fermò che dopo averla posta in sicuro sulla riva di una limpida fonte, detta la fontana della Sirena; fontana altra volta coperta da un bell’edifizio, ornato di tutti i fregi della gotica architettura, allora dai rottami di quest’edifizio sol cinta. Caduto erane il tetto, rovinate le mura, e la sorgente che zampillava di sotterra si apriva il varco fra le pietre, o le macerie postele intorno, formando indi un ruscello. La tradizione pronta sempre, almeno nella Scozia, ad abbellire con una leggenda qualunque luogo che offra di per se stesso qualche vaghezza, attribuiva una origine alla particolare venerazione in cui tenuta era questa fontana. Un lord di Ravenswood, andando alla caccia, erasi scontrato in una avvenente ninfa, che, siccome Egeria, del cuore di questo secondo Numa s’impadronì. Mostratasegli più di una volta nello stesso luogo, e sempre dopo il tramonto del sole, colle grazie del suo spirito compiè una conquista, che le sue leggiadre forme aveano incominciata; tresca galante cui nuovi vezzi aggiunse il mistero. Comparendo ella, e sparendo ciascuna volta in vicinanza della fontana, l’amante Lord giudicò che fra la ninfa e quell’acque vi fosse qualche inesplicabile corrispondenza. Oltrechè, ella avea poste alcune condizioni a que’ segreti abboccamenti. Non si vedea che una volta la settimana, in giorno di venerdì, e il Lord dovea ritirarsi appena la campana di un monastero situato a qualche distanza nella foresta, e del quale oggidì non si vedono nemmen le rovine, annunziava ai frati la mezza notte, ora canonica del mattutino. Il confessore del barone di Ravenswood era il padre Zaccaria, priore dell’indicato monastero; il quale, partecipatagli dal suo penitente la tresca straordinaria, ne dedusse la conseguenza che questo tapino, accalappiato nelle reti del demonio, si stava in grande pericolo e corporale, e spirituale; ed enumerati con tutta la forza della rettorica monacale i suoi rischi al barone, gli dipinse con colori spaventosi la seducente Sirena da cui lasciato erasi abbacinare, asseverantemente definendola un’abitatrice de’ regni bui. Avendolo con incredula ostinazione ascoltato l’amante, piuttosto per ispacciarsi dalle importunità del priore, che per convincimento, gli promise sottomettere ad una certa prova l’indole e l’essenza della donna del proprio cuore. Fu quindi pattuito fra il confessore e il penitente, che nel successivo venerdì, la campana del monastero non sonerebbe i segni del mattutino, perchè il padre Zaccaria pretendeva che il demonio ingannato da questa gherminella, dimenticherebbe l’ora in cui era solito a sparire, e mostrandosi agli occhi del Lord sotto la sua vera forma di figlio dell’inferno, svanirebbe indi, lasciando dietro di sè un odor di zolfo e una luce di fiamma turchiniccia. Citò a sostegno della propria opinione il Malleus maleficarum, lo Sprengero ed altri dotti demonologisti. Raimondo di Ravenswood, acconsentì, il dicemmo, a questa esperienza, non senza qualche inquietudine sugli effetti che avrebbe avuti, benchè convinto che non sarebbero tali, quali il priore gli avea ad esso annunziati. Nel successivo venerdì, i due amanti convennero al loro ritrovo in riva alla fontana, nella solita ora, vale a dire dopo il tramonto del sole. Era il mese di giugno che ha le notti assai corte; le ore corsero velocemente, e la campana del mattutino non essendosi fatta sentire, l’avvenente ninfa non pensò a rammentare a Raimondo essere giunto il momento di separarsi. Non per questo, videsi nulla di cambiato nelle forme esterne della nostra ninfa. Ma appena il primo raggio dell’aurora la fece comprendere che le ore permesse al diletto erano già trascorse, strapparsi dalle braccia dell’amante, dirgli per sempre addio, mettere un grido di disperazione, precipitarsi nella fontana, sparire, furono un solo istante. Alcune gocce di sangue che sulla superficie dell’acqua allor si mostrarono, indussero lo sfortunato barone a pensare che la sua indiscreta curiosità avesse dato morte alla persona da lui amata, qualunque poi la natura dell’ente misterioso si fosse. Ben furono, due ore dopo, fatte per suo ordine accurate indagini sino al fondo di quella fontana, ma non apparve alcun’orma di colei che egli avea veduto co’ proprj occhi lanciarsi lì dentro. I rimorsi prodotti in lui dall’avvenimento fatale, e la rimembranza de’ pregi della donna che tanto amò, convertirono in inferno il rimanente della sua vita, che perdè, alcuni mesi dopo la battaglia di Flodden. Ma pensò prima della morte ad impedire che le acque di questa fontana venissero profanate o imbrattate, onde la fe’ circondare dell’edificio di cui vedeansi ancora gli avanzi su quella riva. Da quel tempo, dicesi, incominciarono ad andar male le cose per la famiglia di Ravenswood. Così era la leggenda generalmente adottata. Nondimeno alcuni, i quali voleano darsi aria di essere più saggi degli altri, pretendevano essere questa una lontana allusione al caso di una donna veramente amata da Raimondo di Ravenswood, e che questi preso da impeto di geloso furore trafisse in quel luogo; laonde non sarebbe stato maraviglia, se il sangue dell’uccisa si fosse mescolato all’acque della fontana. Altri volevano spiegare l’origine della novelletta, risalendo all’antica mitologia; certo è che generalmente credeasi fatale ai Ravenswood un tal sito, e per un discendente di questa famiglia il ber l’acque di quella fonte, o il solo avvicinarvisi erano cose di cattivo augurio, quanto il fossero per un Graham, il portar verdura, per un Bruce, l’ammazzare un ragno, per un Saint-Clair l’attraversare l’Ord in giorno di lunedì. In questo sito adunque del mal augurio, Lucia, riacquistò i sensi dopo un lungo svenimento. Bella e pallida, quanto la naiade della leggenda avrà dovuto esserlo nel separarsi per sempre da Raimondo, si reggea contro un pezzo di quelle rovine, intanto che l’incognito cercava richiamarla ai sensi, spruzzandole il volto coll’acque della fontana.
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